Le guerre finiscono col ribadire i ceppi, o spezzarli

Proporsi di cambiare un regime dispotico con la forza finisce col mancare il bersaglio, e spesso per provocare l’esito opposto. Ma se ci si misura con una situazione di fatto prodotta da un intervento militare o da una guerra il discorso può essere diverso. Lezioni dalla Siria

Sul Corriere, Paolo Mieli domenica e Lorenzo Cremonesi lunedì hanno spiegato che proporsi di cambiare un regime dispotico con l’uso della forza finisce sempre col mancare il bersaglio, e spesso per provocare l’esito opposto. “Senza eccezione alcuna”, scrive Mieli, e “dopo trentacinque anni si può considerare la lezione definitiva”. Penso che sia vero, fino a che riguardi appunto il ricorso alla forza, e alla guerra, col proposito di “esportare la democrazia”. L’Iraq ne è stato la prova più catastrofica. Più dell’Afghanistan, dove la promozione delle libertà è stata praticata troppo malamente e svogliatamente per trarne una lezione univoca. Oggi Netanyahu aggiunge al fine del suo attacco militare, impedire che l’Iran proceda sulla strada dell’acquisizione dell’armamento atomico, l’appello alla liberazione del popolo iraniano dall’oppressione teocratica. Basta la referenza del suo governo alla conduzione della carneficina di Gaza e della sopraffazione dei palestinesi in Cisgiordania a rendere irrisorio o peggio offensivo il suo appello al popolo iraniano. Che, nella larga, fiera e coraggiosa componente che aspira a libertà e giustizia, ha ragione di non prendere parte né per le forche dei propri mullah e pasdaran, né per i bombardamenti israeliani. Succede di stare dignitosamente “né… né…”, tanto più quando si è conquistato a carissimo prezzo il diritto a far parte per se stessi – per se stesse.



Ma la lezione di cui scrivono Mieli e Cremonesi cambia se, invece che con un programma, credulo o propagandistico, di “cambio di regime”, ci si misura con la situazione di fatto prodotta da un intervento militare o da una guerra. E’ appena successo. In Siria, la dinastia infame e sanguinaria di Assad padre e figlio è crollata di colpo, 54 anni dopo la sua instaurazione, per effetto dei bombardamenti di Israele in Libano e in Siria sulle milizie sciite infeudate all’Iran. Dove erano state ridicolizzate le linee rosse di Obama, smascherata la viltà della comunità internazionale, insediato il protettorato russo, su un massacro colossale e un colossale esodo umano, le unghie tagliate alle milizie iraniane o obbedienti hanno provocato il collasso improvviso e la vergognosa fuga della famiglia reale a Mosca, alla cui volta pare che notabili iraniani stiano negoziando i biglietti di sola andata.



In Iran non c’è da aspettarsi – per fortuna – che una fazione di cospiratori leninisti, scesi dal vagone piombato, si prepari a cogliere l’occasione per trasformare la guerra fra gli stati in guerra civile e attuare la sua rivoluzione. Ma certo, soprattutto se il conflitto dovesse durare nella forma estrema che ha preso, quello che in Iran è stato ripetutamente un movimento largo, cosciente e intrepido per le libertà civili, e in primo luogo delle donne e dei giovani, si misurerebbe con la condizione nuova di un regime indebolito materialmente oltre che moralmente screditato, benché pieno di armi e addestrato a usarle bestialmente. Le voci libere di donne e uomini dentro e fuori dell’Iran sono oggi diverse e contrastanti. Il tempo e i fatti le accosteranno. Qualcuna avverte che un vero cambiamento debba essere graduale e non debba venire “da fuori”. La vera lezione del mondo contemporaneo è che i cambiamenti “graduali”, il riconoscimento di sé e l’amore per la libertà, crescono, ma cedono a una repressione che non ha fatto che moltiplicare la propria potenza materiale. In Siria, dalle prime manifestazioni di scolaresche nel 2011, si stima che i morti ammazzati siano stati almeno 600 mila. In Israele, le manifestazioni contro Netanyahu e il suo abuso del potere erano esorbitanti, prima del 7 ottobre. E sono state ingenti anche negli ultimi tempi. Ora c’è la guerra all’Iran. Le guerre infatti, esose e disumane come sono, finiscono col ribadire i ceppi, o spezzarli.

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