L’impresa politica del tycoon è cominciata il 16 giugno del 2015, con una scala mobile placcata d’oro e una bugia. Ma per capire come abbia fatto a vincere, bisogna tornare agli anni Novanta
Tutto è cominciato con una scala mobile placcata d’oro e una bugia. Dieci anni fa Donald Trump discese lentamente verso l’atrio dorato del suo grattacielo di Manhattan, salutando una piccola folla di giornalisti e sostenitori che lo attendevano più in basso al pianterreno. “Wow! Quanta gente, siamo migliaia!”, furono le prime parole di una campagna elettorale che il 16 giugno 2015 nessuno prese sul serio e che invece ha cambiato il mondo. In realtà i ricordi dei presenti e le immagini di quel giorno svelano che c’erano un centinaio di persone o poco più, tra cui alcune comparse che una società cinematografica specializzata aveva reclutato con un compenso di 50 dollari per tre ore di lavoro. Le grandi testate giornalistiche avevano mandato a seguire l’evento gli stagisti, oltre ad alcuni reporter che si occupavano di “colore” e di spettacolo, perché Trump all’epoca era soprattutto il personaggio televisivo di “The Apprentice”.
Il New York Times ironizzò su una “candidatura improbabile” destinata a fare senz’altro poca strada tra i repubblicani, ipotizzando comunque che Trump avrebbe creato caos nei dibattiti televisivi contro la quindicina di candidati che erano già scesi in campo. Sembrava una delle tante trovate dell’imprenditore immobiliare di New York, che dalla metà degli anni Settanta riempiva le cronache con i suoi progetti non sempre portati a termine e con le sue conquiste femminili. Raramente Trump veniva citato nelle pagine di politica, non avendo mai rivestito una carica elettorale, anche se aveva già fatto circolare un paio di volte l’idea di candidarsi alla Casa Bianca.
Sembrava una delle tante trovate dell’imprenditore immobiliare di New York, che dalla metà degli anni Settanta riempiva le cronache con i suoi progetti non sempre portati a termine e con le sue conquiste femminili
L’accento delle cronache di quel giorno di dieci anni fa era soprattutto sull’ostentata prosperità di The Donald, che si disse convinto che alla Casa Bianca servisse “qualcuno davvero molto ricco”. Cioè sé stesso, spiegò sventolando un foglio che dimostrava – a suo dire – che in quel momento il suo patrimonio era di 8,7 miliardi di dollari. Un’altra bugia, come hanno svelato inchieste giudiziarie e giornalistiche negli anni a venire: in quel momento, come quasi sempre nella sua carriera, Trump era sostanzialmente in rosso e sempre alle prese con rifinanziamenti e trattative con le banche che lo tenevano in piedi.
Eppure bastava ascoltarlo, sul podio azzurro con le bandiere americane sullo sfondo, costruito sotto la scala mobile dorata, e c’era già tutto. I cartelli con la scritta “Trump” riportavano sotto il nome del candidato il suo nuovo slogan: Make America Great Again. Un minuto dopo aver iniziato il proprio discorso, Trump se la prendeva già con la Cina, minacciando dazi, e un attimo dopo ecco che arrivava l’idea di costruire un muro per bloccare l’invasione di immigrati alla frontiera sud. “Quando il Messico manda qui la gente – affermò – non ci spedisce certo i migliori, ma quelli che hanno un sacco di problemi. Portano droghe e crimini, sono stupratori”. A qualche metro di distanza, alcuni dipendenti messicani di Trump facevano finta di non ascoltare, mentre vendevano magliette e gelati.
Trump non fu preso sul serio in quel giugno del 2015, quantomeno non dai media “mainstream” che non credevano possibile – come scrisse il New York Times – che i repubblicani “già feriti nel 2012 dalle caricature che giravano sul loro candidato Mitt Romney, visto come un finanziere privilegiato e sconnesso dalla gente, possano nominare un magnate del mondo immobiliare che ha pubblicato libri con titoli come ‘Pensa come un miliardario’ o ‘Il tocco di Mida’”. Si sbagliavano in pieno, come dimostrarono i sondaggi che nel giro di pochi mesi cominciarono a vedere Trump in testa, davanti a politici emergenti come Ted Cruz, Jeb Bush o Marco Rubio. Il partito che proveniva da due sconfitte contro Barack Obama nel 2008 e 2012 era alla ricerca di qualcosa di completamente nuovo, voleva chiudere con gli anni di Bush e dei neocon, ma anche con gran parte della tradizione repubblicana precedente. E la base era pronta a sposare un populismo che non era nuovo, ma era rimasto a lungo in letargo prima di riemergere con prepotenza sotto la scala mobile della Trump Tower.
Da un decennio si cerca di dare una spiegazione al successo del “candidato improbabile” Trump e al suo decollo nell’estate del 2015. Di solito le analisi si concentrano sugli anni Dieci di questo secolo, quelli di Obama, e su cosa è avvenuto nel mondo conservatore americano sulla scia delle due guerre di Bush in Afghanistan e Iraq e della crisi economica del 2008-2009. Ma negli ultimi tempi si è fatta strada una diversa chiave di lettura promossa da autori come John Ganz, uno scrittore newyorchese celebre per i suoi studi sugli anni Novanta e per la newsletter “Unpopular Front”. Per capire Trump e l’America di oggi, ha scritto Ganz in un ampio saggio sul Financial Times, bisogna tornare proprio all’ultimo decennio del secolo scorso. Ciò che ha spinto il miliardario newyorchese a fare la sua mossa nel 2015, secondo Ganz, sono state le lezioni imparate soprattutto nei primissimi anni Novanta. Trump era diventato celebre nel decennio precedente, quello reaganiano, imperversando a New York con i suoi acquisti folli: i casinò di Atlantic City, lo yacht Nabila, il Plaza Hotel, l’aereo con il suo nome. Nel 1987, l’anno di massimo splendore trumpiano fino a quel momento, aveva dato alle stampe il libro autobiografico “The Art of the Deal” e si era posizionato come grande magnate e titano del capitalismo. Solo che era un impero fragilissimo, che venne giù di schianto con la crisi economica cominciata nel 1991. La stessa crisi che il presidente dell’epoca, George H.W. Bush, non volle ammettere e riconoscere e che gli costò il secondo mandato nelle elezioni, vinte da un giovane governatore che ripeteva lo slogan “It’s the economy, stupid!”: Bill Clinton. Mentre Bush e Clinton si sfidavano, Trump perse più o meno tutti i suoi simboli di potere – l’albergo, lo yacht, i casinò – e si trovò in una delle varie crisi della sua carriera. A marzo del 1991, quando il gigantesco casinò Taj Mahal dichiarò bancarotta, Trump aveva 3,4 miliardi di dollari di debiti. In seguito riuscì a riprendersi, anche grazie all’aiuto del padre Fred e della sua rete di rapporti con le banche, ma è in quegli anni che Trump cominciò a sviluppare una visione cupa dell’America.
Nell’autunno del 1991 depose davanti al Congresso e parlò di un paese “in piena depressione”, fregato commercialmente dai giapponesi, ingannato dal resto del mondo e che doveva difendersi proteggendo la propria economia, possibilmente con i dazi (una fissazione di lunga data dell’attuale presidente). Un’analisi, la sua, che andava a intercettare un malumore diffuso in una larga fetta della società americana, proprio nel momento in cui era crollato l’impero sovietico, Francis Fukuyama teorizzava “la fine della Storia” e l’America sembrava forte come non mai.
È proprio nelle elezioni del 1992 che emerge negli Stati Uniti la prima ondata di populismo dagli anni Trenta. A incarnarla fu in primo luogo Pat Buchanan, portabandiera del movimento dei cosiddetti “paleoconservatori”, ex consigliere di Nixon, Reagan e Bush che decise di sfidare quest’ultimo nelle primarie dei repubblicani all’insegna del motto America First. Le sue idee erano alimentate da due intellettuali, l’economista libertario Murray Rothbard e l’editore di giornali Samuel Francis, e non sono molto diverse, su immigrazione, commerci e tasse, da quelle odierne del movimento Maga. A Trump in quel momento piaceva molto Buchanan, così come apprezzava la ribellione in Louisiana di David Duke, un neonazi ex membro del Ku Klux Klan che aveva raccolto molti voti tra i repubblicani e minacciava a sua volta di sfidare Bush. “Se Duke corre porterà via un sacco di voti a Bush – diceva all’epoca Trump – ma Buchanan ne porterà via di più perché si presenta meglio”. La sfida da destra indebolì Bush, ma il colpo più duro gli arrivò dalla discesa in campo come candidato indipendente del miliardario Ross Perot, che riuscì a inserirsi come terza opzione nella sfida Bush-Clinton del 1992, danneggiando soprattutto il presidente. Anche le idee di Perot, come quelle di Buchanan, rilette oggi sembrano piene di punti di contatto con il populismo trumpista. E non a caso qualche anno dopo, nel 1999, Trump annunciò di voler correre per la presidenza sotto le insegne del Reform Party di Perot. Solo che dopo poco tempo a candidarsi nello stesso partito arrivarono anche Buchanan e Duke: il magnate di New York pensò che fosse diventato un posto troppo affollato per lui e si sfilò.
Per tutti gli anni Novanta della presidenza Clinton e nei primi anni del nuovo secolo, mentre si susseguivano alla Casa Bianca il secondo Bush e Obama, Trump continuò a osservare l’andamento della politica e a fare brevi irruzioni nel dibattito nazionale, sempre lamentando quello che vedeva come un continuo declino americano. Il mondo populista dei paleoconservatori, dei libertari e dei suprematisti ariani in quegli anni sembrava in ritirata. Newt Gingrich, il maggior nemico del presidente Clinton in Congresso, per qualche anno aveva ripreso in mano la bandiera populista, ma non era mai riuscito a creare un movimento forte. Trump, diventato nel frattempo un personaggio televisivo nazionale con “The Apprentice”, continuava a tenersi sintonizzato con quel mondo che aveva scoperto nei primissimi anni Novanta, quelli della crisi peggiore del suo impero immobiliare, pronto a cogliere eventuali occasioni per farsi avanti.
Per tutti gli anni Novanta della presidenza Clinton e nei primi anni del nuovo secolo, mentre si susseguivano alla Casa Bianca il secondo Bush e Obama, Trump continuò a osservare l’andamento della politica e a fare brevi irruzioni nel dibattito nazionale
La discesa dalla scala mobile di dieci anni fa nasce da qui. I repubblicani si erano sfaldati dopo le sconfitte di John McCain e Mitt Romney contro Obama, mentre era nato il movimento del Tea Party che rimetteva al centro ricette populiste come ai tempi di Buchanan. Candidati forti non se ne vedevano in casa repubblicana, mentre dall’altra parte della barricata era in corso uno scontro fratricida per raccogliere l’eredità di Obama. A farsi avanti per candidarsi era stato il suo vice Joe Biden, ma il presidente in carica lo aveva stoppato per appoggiare invece Hillary Clinton: una circostanza che Biden non ha mai perdonato a Obama e al suo team e che ha reso difficili in questi anni i rapporti tra i due esponenti democratici. Trump in quel giugno 2015 ha avuto un grande fiuto politico. Forte delle esperienze maturate fin dal 1991, ha capito che era il momento buono per prendersi il partito repubblicano. Nel paese c’era anche stavolta, come alla fine della prima presidenza Bush, un malcontento che molti osservatori non avevano intercettato, ma che Trump ha messo al centro dell’attenzione e su cui ha costruito l’universo Maga. I candidati repubblicani in campo in quel momento, divisi e litigiosi, non hanno saputo reggere alla popolarità di Trump e alla sua capacità di parlare a una base politica che si sentiva esclusa da decenni. Dall’altra parte, i democratici per contrastare il miliardario di New York gli hanno contrapposto il candidato sbagliato: Hillary Clinton sarebbe probabilmente stata vincente contro Cruz, Jeb Bush o Rubio, ma è rimasta spiazzata a sua volta dal fenomeno trumpiano.
Quasi nessuno però intuì quello che stava per accadere quando Trump fece il suo annuncio nell’atrio del proprio palazzo sulla Quinta Avenue. “La sensazione diffusa tra tutti era senza dubbio che non ci fosse alcuna possibilità che potesse farcela”, ha raccontato la giornalista Heather Haddon, spedita quel 16 giugno del 2015 dal Wall Street Journal a seguire la conferenza stampa di Trump. Una cosa però è rimasta impressa a lei come ad altri giornalisti presenti tra i marmi rosa e le cascate dell’atrio della Trump Tower: “Fece un discorso lunghissimo e spesso senza un filo logico, ma pieno di rabbia e di parole durissime, pronunciate con un tono come fossero cose scontate. Siamo usciti tutti un po’ scioccati dalle sue violenze verbali”. Da allora è stato un crescendo e oggi le frasi spesso offensive e volgari che utilizza Trump non sorprendono più nessuno. Ma se c’è una data di nascita di un certo modo di far politica senza freni e senza particolare attenzione alla verità dei fatti, probabilmente è proprio quel giorno della discesa sulla scala mobile dorata.