Eddy Merckx più universale che Cannibale

Gli ottanta anni del più grande ciclista di sempre che forse ha finalmente trovato l’erede: Pogacar

Eddy Merckx lo chiamavano “Il Cannibale”. Quel soprannome però a lui non è mai piaciuto perché “un cannibale che fa? Mangia carne, bambini, persone? Io mi limitavo a correre e a vincere ogni volta che potevo”, ha detto a Cosimo Cito di Repubblica qualche tempo fa.

E per lui, Eddy Merckx, vincere “ogni volta che potevo” voleva dire vincere molto spesso, perché aveva il talento sopraffino dei migliori, oltre a una determinazione fuori dall’ordinario. Ha vinto tanto, tantissimo, Eddy Merckx, ogni volta che poteva, perché per quello correva: per essere il primo, il migliore, per godersi l’effetto che fa oltrepassare lo striscione d’arrivo prima di tutti gli altri. Vinse cinque volte il Tour de France, cinque volte il Giro d’Italia, una volta la Vuelta a España (l‘a corse solo una volta’unica che corse), tutte le Classiche monumento (sette Milano-Sanremo, cinque Liegi-Bastogne-Liegi, tre Parigi-Roubaix, per due volte il Giro delle Fiandre e il Giro di Lombardia), tre Mondiali (più uno nei Dilettanti). In totale 445 vittorie nelle circa 1.800 corse disputate.

E cercava di esaudire questo suo desiderio sia quando la strada saliva, sia quando scendeva, in pianura e in montagna, sull’asfalto allo stesso modo che sulle pietre, in corse lunghe tre settimane e in quelle di un giorno soltanto. Pure in volata se non riusciva a rimanere solo.

L’avrebbero potuto chiamare “L’Universale”, sarebbe stato perfetto, a sua immagine e somiglianza. Fu e restò “Il Cannibale”, perché, in fondo, era evocativo e d’impatto. Per di più era ancora fresco nella memoria degli italiani l’eccidio di Kindu con tutto quell’intrigante mescolarsi di esotico ed esoterico che gli si era messo in scia dai resoconti giornalistici. Solo pochi anni prima, nel 1961, tredici militari italiani che erano in Congo in una missione Onu, furono rapiti, torturati e uccisi da miliziani congolesi (e cannibalizzati, ma sul tema non si è mai capito dove finisse la realtà e iniziasse la leggenda), forse perché scambiati per mercenari belgi.

Per decenni Eddy Merckx è stato inarrivabile. Esisteva nei ricordi di chi l’ha visto correre e di chi non l’ha visto correre. Il suo nomeecognome era un sigillo di garanzia: il migliore di sempre. Il corridore al cui cospetto anche il più forte del momento impallidiva. Era termine di paragone e ogni paragone era perdente, finiva per sembrare una barzelletta. E sì che di nuovomerckx hanno provato a crearne parecchi. Pure Bernard Hinault l’avevano etichettato così. Il campione francese scattò da quell’accostamento, si mise in proprio, divenne lui stesso modello a cui paragonare qualcuno. Disse con risolutezza che certe cose lui non le voleva nemmeno sentire, che a lui andava bene essere Bernard Hinault e basta, che il ciclismo è senz’altro un presente legato al passato, ma che a lui del passato gliene fregava poco. Frega sempre il giusto, cioè poco, ai corridori di quel che è stato. Loro pedalano nel presente, al massimo pensano al futuro. La bicicletta è un ottimo mezzo, il migliore, per infuturarsi in qualche pensiero a lungo raggio, per immaginare ciò che sarà, magari ripensare a ciò che stato, ma solo per un attimo. Le endorfine possono aiutare la memoria, certo, ma stimolano soprattutto il piacere, regolano l’umore, aumentano la capacità di immaginare. E l’immaginazione spinge sempre verso il futuro.

A ottant’anni (li compie il 17 giugno) Eddy Merckx pedala ancora, per la prima volta ha detto di aver visto un corridore della sua stirpe: Tadej Pogacar. Uno capace di essere “Universale” alla sua stessa maniera. Non gli era mai accaduto. Ha detto di aver provato una soddisfazione a vederlo pedalare, di aver scorto in lui molto di quello che sentiva quando correva.

Sono tante le celebrazioni che il ciclismo ha dedicato a Eddy Merckx. E in tutta Europa, perché Eddy Merckx è patrimonio ciclistico condiviso. Anche in Italia ovviamente: dal 3 maggio (e fino al 30 settembre 2025) il Museo del Ghisallo ospita la mostra “Eddy Merckx, gli ottant’anni di una leggenda”. Un omaggio in 3 sale, e 5 pannelli Faema, 25 maglie, 60 testi, moltissime fotografie, diverse biciclette.

C’è un’altra ricorrenza però in questo periodo. E assai meno gradita.

Nei primi giorni di giugno di cinquant’anni fa, per la prima volta da quando iniziò a correre tra i professionisti, l’imbattibilità di Eddy Merckx vacillò. Fu al Giro del Delfinato del 1975, verso Grenoble, sul Col d’Izoard, che gli occhi del campione belga diventarono acquatici, il suo sguardo iniziò a vagare nel nulla della fatica. Poche centinaia di metri dopo, vide le sagome di Bernard Thévenet e Lucien van Impe farsi via via più piccole, prima di scomparire tra i tornanti della salita alpina. Non fu la prima crisi di Eddy Merckx, fu quella che fece finire un’èra, la sua.

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