Gaza, tragedia sì, genocidio no

In un lento, inesorabile crescendo le critiche al governo di Israele per la guerra a Gaza hanno finito per incatenare gli ebrei a un destino: le vittime diventate carnefici. Il pregiudizio antiebraico, la rottura del tabù della Shoah, il 7 ottobre che ha smesso di esistere

C’è un ricco vocabolario per definire l’orrore infernale di Gaza. Si può dire strage, mattanza, sterminio, ecatombe, massacro, carneficina, eccidio. Non sono forse parole e definizioni provviste di una carica morale fortissima? Possono sembrare minimizzazioni? Non sono capaci di muovere a raccapriccio, di alimentare il nostro sdegno? Evidentemente no, in questo caso. Parli di Israele e subito è, si legge e si urla, “genocidio”. “La soluzione finale”, “il campo di concentramento”, il nuovo “Terzo Reich”, secondo il facondo professor Luciano Canfora. Perché? Perché sono pietre morali scagliate contro gli ebrei. Solo con gli ebrei vengono usate quelle parole e quelle espressioni. Quale altra spiegazione può venire in mente?

L’apice della mostrificazione, l’accusa di genocidio, non è arrivata all’improvviso. E’ stato un lento, ma inesorabile crescendo. Scandito dal 7 ottobre in poi da molte tappe di avvicinamento, dapprima un po’ timide, via via sempre più spavalde.

All’inizio era: non confondete Hamas con il popolo palestinese. Ancora bruciava quello che i miliziani avevano compiuto nel pogrom, gli ebrei sgozzati, i missili sui civili di Israele, i bambini dei kibbutz ammazzati. Poi, a poco a poco, i miliziani di Hamas sono spariti dai radar della febbrile immaginazione occidentale. Spariti gli interrogativi morali sui bambini palestinesi usati come scudi umani mentre i predoni si nascondevano nelle gallerie sotterranee piene di armi costruite con la fattiva collaborazione dell’Onu. Restavano solo, da una parte, come co-protagonista, il popolo palestinese con Hamas normalizzato e incorporato nel generico “i palestinesi”, e dall’altro i sionisti assassini. Si è diffuso tossicamente l’inno alla Palestina libera “from the river to the sea”, cioè alla soppressione fisica dello Stato di Israele e degli ebrei che l’hanno costruito. E infatti le critiche al governo israeliano sono diventate strada facendo critiche all’esistenza stessa di Israele e poi ancora ingiunzioni al silenzio per i sionisti (insomma gli ebrei) messi al bando in occidente perché indossavano la kippah. Passavano i mesi e i professori privi della più elementare nozione di storia hanno cominciato a predicare la legittimità della reazione di Hamas (compagni che sbagliano) all’oppressione colonialista degli ebrei: dal ‘67 per i più moderati, poi direttamente dal ‘47-’48, o forse da sempre, per gli antisionisti da combattimento. Poi la Corte dell’Aja ha sdoganato, ancora da vagliare, l’eventualità che si trattasse di genocidio: ma nelle piazze l’eventualità è diventata certezza, articolo di fede. Poi si è fatta prepotentemente strada l’idea che il 7 ottobre sia stato non una semplice reazione, ma un ammirevole atto di resistenza (compagni che non sbagliano più). Poi l’atto di resistenza si è trasformato nell’inizio di una luminosa resistenza globale all’oppressore che dovrebbe sparire dalle carte geografiche.

La virtuosa iniziale distinzione tra popolo palestinese e Hamas è stata cancellata. La guerra di Israele contro Gaza è diventata un atto di gratuita, sadica e spietata aggressione: il 7 ottobre ha smesso di esistere. Persino le macabre cerimonie con cui i miliziani di Hamas, armati di tutto punto e bene in carne nonostante la penuria alimentare, umiliavano gli ostaggi da riconsegnare a Israele, hanno provocato solo sbadigli. Alla fine sul palcoscenico è restato solo il mostro, l’orco sionista con l’hobby (l’hobby!) di trucidare i bambini. Sui media occidentali non si dice più “secondo fonti di Hamas”, si riporta tutto ciò che proviene da Gaza come se fosse verità assoluta e certificata. L’innocentizzazione di Hamas si accompagna alla completa colpevolizzazione di Israele. Israele perde ogni legittimità morale. I genocidi sionisti sono il nuovo Male. Una disegnatrice non di notorietà eccelsa ma venerata nell’universo ProPal, pseudonimo Laika, compone un’opera d’arte in cui sono raffigurati Hitler e Netanyahu che si baciano con passione.

L’identificazione è totale: il governo degli ebrei è uguale a Hitler. Con un ultimo sussulto di moderazione verbale, si è cercato di dire che non siamo ancora al genocidio vero e proprio, ma Israele starebbe andando “verso” l’inferno del genocidio. Insomma, se le parole hanno un senso, saremmo alla Kristallnacht, quando ancora non si era dispiegata interamente la potenza devastatrice della Shoah. Ma manca poco.

Il “genocidio” non è un concetto gelidamente giuridico. Quando lo coniò Raphael Lemkin nel 1944 in riferimento al milione circa di vittime armene nella mattanza voluta dai turchi, fu una novità storiografica, poi diventata patrimonio codificato dal diritto internazionale. Ora è diventata materia di corti e tribunali: ma così, ancora una volta, viene caricata un’istanza giudiziaria di un compito che travalica la sua competenza. Perché il giudice o un collegio di giudici giudicano un fatto (un reato commesso). Ma, ecco il punto, il genocidio non è solo un fatto. E’ un fatto che realizza un’intenzione, un progetto, una teoria, un’ideologia, un programma. E’ il progetto di distruzione totale di un popolo, di una comunità, di una parte dell’umanità senza che nessun membro, adulto o bambino, ne possa essere risparmiato. Questo lo rende differente da ogni genere di nefandezza compiuta nella storia. Non è furioso o barbarico o scatenato o accecato dall’ira, come gli Ateniesi raccontati da Tucidide che passarono a fil di spada tutti i Meli che si erano rifiutati di sottomettersi. No, il genocidio è metodico, freddo, industriale, elaborato in apposite conferenze, come quella di Wannsee del gennaio del ‘42 che decise l’eliminazione di tutti gli ebrei dalla faccia della terra, nessuno escluso. Azzerati. Cancellati. Annientati. E metodicamente, sistematicamente, accuratamente, alcuni volenterosi carnefici del Terzo Reich, coadiuvati da volenterosi delatori al loro servizio, lasciavano sguarnite le trincee dell’inferno della Seconda guerra mondiale per andare a cercare una ragazzina ebrea di nome Anna Frank, rinchiusa in una soffitta di Amsterdam. Salivano le scale ripidissime per prelevarla, spedirla in un campo di sterminio e ammazzarla insieme a un numero incalcolabile di suoi coetanei colpevoli solo di essere ebrei e dunque meritevoli di essere sterminati: solo perché esistevano, ecco la loro colpa. Avevano gli elenchi di tutte le Anna Frank d’Europa, ma alla fine l’hanno trovata. Ce l’hanno fatta, la soluzione finale aveva funzionato. Anche se in modo imperfetto, perché molti perseguitati, tolti i pigiami a righe, indossarono la divisa dei persecutori, secondo la nuova vulgata che sta incendiano le piazze dell’occidente, per fare un genocidio tutto loro contribuendo a fondare lo Stato di Israele. Tra i genocidi armati, c’era anche Aharon Appelfeld, sopravvissuto al campo di sterminio, che si era arruolato nell’Haganah attaccata dagli arabi che avevano rifiutato quella che a parole oggi viene invocata come la scelta più saggia, e sempre più impossibile: due stati per due popoli. Principio che il genocida Israele invece accettò. Particolare interessante: la storia di Anna Frank è conosciuta in tutto il mondo, ma non nella Gaza che per vent’anni ha subito la feroce tirannia di Hamas e dove i roghi della censura hanno bruciato lo sconvolgente diario. L’accusa: avrebbe potuto diffondere “l’infezione sionista”.

Il genocidio, oltre a non essere un fatto ma il prodotto di un’intenzione sterminazionista, non è neanche definibile secondo criteri rozzamente quantitativi. Non c’è una cifra che dica: da questo numero in su è genocidio, sotto quella cifra ancora no. E infatti, fino al sabba antiebraico che si sta celebrando nel silenzio della cultura democratica, la parola “genocidio” è stata usata con prudente parsimonia persino quando il numero, le dimensioni della carneficina, le modalità della distruzione avrebbero potuto legittimare un accostamento, una similitudine, una parentela. Sul carattere genocida del massacro degli armeni la controversia è ancora aperta e nella Turchia di Erdogan è persino un reato ricordarlo, e lo scrittore Pamuk ha rischiato la galera perché aveva avuto il coraggio di aprire una pagina spaventosa della storia turca. Anche l’Holodomor, la carestia ufficiale che Stalin aveva innescato per la dekulakizzazione dell’Ucraina e che ha provocato la morte di milioni di esseri umani, compreso un numero incalcolabile di bambini e crudeli scene di cannibalismo di massa, stenta a sfondare la porta storiograficamente blindata del “genocidio”. Per il Ruanda del 1994 l’inclusione nella categoria del genocidio appare più fondata: un milione di vittime tutsi uccise con le armi e a colpi di machete, i laghi diventati rossi di sangue, un’antropologia razzista che faceva dire ai capi massacratori hutu: “Seviziate e uccidete tutti gli scarafaggi tutsi”. Non ci furono grandi manifestazioni indignate nell’occidente che stava assistendo impotente al massacro dei bosniaci, non ricondotto al “genocidio” in quanto tale ma alla “pulizia etnica”.

Solo con Israele ogni cautela lessicale e sostanziale viene meno. Perché non contano i fatti ma il ricatto di un’analogia, l’intenzione di incatenare gli ebrei a un destino: le vittime diventate abominevoli carnefici. E con i carnefici sionisti genocidi si può tutto. La critica sacrosanta al governo Netanyahu si trasforma in antisemitismo: colpire in tutto il mondo il mostro sionista. E’ stupefacente che i sostenitori in buona fede della battaglia contro il “genocidio” del popolo palestinese non vogliano capire il nesso con l’esplosione antisemita che sta orribilmente chiudendo i conti con il tabù della Shoah.

Nemmeno una vaga allusione al genocidio per il massacro voluto da Assad, né per i curdi gasati da Erdogan e da Saddam Hussein. La guerra delle immagini. La fine del tabù della Shoah, che comunque ha retto l’ordine morale delle democrazie occidentali, ha rimesso gli ebrei nel mirino del mondo

Lo capiscono benissimo gli antisemiti manifesti e spudorati. Le accuse a Israele di compiere un “genocidio” sono interamente giocate sull’analogia con il “genocidio ebraico”, altrimenti non avrebbero senso, non alimenterebbero il furore. Una copertina di Internazionale grida forte: “Cosa direte quando vi chiederanno come avete potuto permettere il genocidio di Gaza?”. E’ il perfetto e perverso rovesciamento dell’interrogativo che ha angosciato l’occidente: come avete potuto tollerare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei? E infatti tutti gli orrori del mondo, se non ci sono di mezzo gli ebrei, palesemente non meritano sgomento, non accendono la lampadina della comparazione, meritano indifferenza, reazioni tiepide e distratte, e svuotano le piazze degli indignados. Se non ci siamo di mezzo noi colonialisti, imperialisti, suprematisti (e quindi gli ebrei che ne sono l’avamposto in terra sacra), se è cosa che riguarda gli Altri ribattezzati e nobilitati nella fertile fantasia definitoria come “Sud globale” i sentimenti scoloriscono: così invece l’occidente si sente autorizzato a sdoganare l’antisemitismo tenuto a ibernare per ottant’anni e che oggi, libero, senza più l’ombra di un contrasto democratico, nella totale disfatta e nell’afasia della cultura democratica, può negare l’ingresso di un ebreo persino in una pizzeria. E dunque nemmeno una vaga allusione al “genocidio” per il massacro voluto da Assad di oltre settecentomila siriani ammazzati e oltre due milioni e ottocentomila feriti e mutilati tra il 2016 e il 2020, un quarto della popolazione sfollata, l’ecatombe di Ghouta colpita dai gas assassini, Homs e Aleppo rase al suolo. “Genocidio”, “Soluzione finale”, “Terzo Reich”? No, niente. Quanti bambini arsi vivi ad Aleppo, la “Stalingrado della Siria”? Centinaia, forse migliaia? Nemmeno un accenno al “genocidio”, nemmeno la metà di un accenno, neanche un quarto: zero. E giustamente, perché il genocidio è un’altra cosa, anche se gli urlatori e la folta e chiassosa corte degli intellettuali che hanno rinunciato a pensare finge di non vedere la differenza. E Groznyj ridotta a un ammasso di macerie nel puzzo di migliaia di cadaveri? Scrisse Barbara Spinelli, non ancora folgorata sulla strada del Cremlino: “Era la prima volta che nel nostro continente una città veniva completamente rasa al suolo con i suoi quattrocentomila abitanti, se si eccettua la distruzione di Varsavia nel ’44” (ci sarebbero state anche Dresda e le città tedesche martoriate da una guerra aerea che aveva provocato la morte di oltre seicentomila esseri umani civili bruciati vivi conteggiati da W.G. Sebald nella splendida “Storia naturale della distruzione”, ma va bene lo stesso). Quella Groznyj che Putin voleva annichilire fino all’ultimo vecchio (da venire a prendere “fin dentro il cesso”, testuale): “Vi diamo tempo fino all’11 dicembre per abbandonare la città: chi resterà a Groznyj sarà considerato terrorista e verrà annientato da aviazione e artiglieria”. Si gridò al genocidio? No di certo. C’era un giornalista di Radio Radicale, Antonio Russo, che lavorava da solo per informare sulle stragi putiniane: fu ucciso a Tbilisi, presto dimenticato, le piazze sono molto discontinue, si sa. Le milizie comuniste di Pol Pot in Cambogia massacrarono oltre un terzo della popolazione (come se in Italia ammazzassero venti milioni di persone) considerata corrotta e succube dei diabolici costumi “borghesi” e “occidentali”. Svuotarono le città e resero le foreste cambogiane un deposito di montagne di teschi. Genocidio, autogenocidio? Nemmeno a parlarne, e poi non c’erano nemmeno gli ebrei dalla parte degli aguzzini. Si calcola che in Cina circa un milione di uiguri, la popolazione turcofona di religione musulmana (gli unici musulmani che nessuno difende mai) sia stata trasferita violentemente nei campi di concentramento dove le donne sono sottoposte a sterilizzazione coatta per impedire la sopravvivenza della razza bastarda. Niente genocidio. Come per i curdi massacrati e gasati da Erdogan e da Saddam Hussein. Nelle piazze ProPal i genocidi sono sempre e soltanto due: uno, quello originario, in cui gli ebrei hanno imparato la lezione mutando i metodi dei carnefici e l’altro, a Gaza, dove la stanno applicando.

La normalizzazione morale della Shoah o peggio, la sua degradazione a pratica riproducibile dalle stesse vittime che, come scolari diligenti, ne avrebbero appreso i metodi per la distruzione dell’intero popolo palestinese, fa piazza pulita di tutta la retorica della memoria attraverso la quale abbiamo versato le nostre lacrime virtuose. Appellarsi alla memoria, invocare la liturgia stanca del “mai più”, pensare che tra i più giovani l’ondata antisemita possa essere arginata attivando il ricordo e sbaragliando l’ignoranza con apposite cerimonie ammantate di una solennità sempre più posticcia, sono tutti esercizi inutili, vuoti, carichi di una ritualità che non dice più niente, che non trasmette più un refolo di empatia (chiedo scusa per la parolaccia) nei confronti delle vittime dello sterminio ebraico. Non è che si ricorda poco, è che si ricorda male, e ricordando male ci si rifiuta di capire il senso di ciò che è accaduto. Chi di questi tempi per le vie di Amsterdam insegue con i coltellacci gli ebrei all’uscita di una partita di calcio, chi impedisce sistematicamente agli ebrei di parlare nelle università italiane governate da rettori inetti e pavidi, tutti questi manganellatori oramai del tutto sordi al vaniloquio sempre più insincero del 27 gennaio non sono negazionisti alla vecchia maniera e apertamente nazisti, non esaltano la svastica ma al contrario la imprimono sul corpo vivo degli ebrei , non disquisiscono sulla “menzogna di Auschwitz”, non mettono in discussione le camere a gas. Peggio, molto peggio. Se fosse così, sapremmo con chiarezza con chi avremmo a che fare. Invece loro considerano Auschwitz un luogo dove gli ebrei hanno preso appunti per realizzare il loro progetto genocida. Un posto dove le vittime sono andate a scuola dai carnefici e hanno imparato bene la lezione. Scolari che hanno tratto profitto nelle università di Auschwitz-Birkenau, Sobibor, Treblinka. Adesso tocca a loro riprodurre una nuova Auschwitz globale. Israele è diventato il nuovo Hitler, l’identificazione è totale. Ci sono anche volonterosi ebrei che scattano sull’attenti alla prima ingiunzione “Discolpati, Davide!” e balbettano che sì, siamo al nostro “genocidio”, quasi, circa, ma ci stiamo arrivando. E chi non ci sta? Oltraggi e gogna. I ritratti murali di chi è sopravvissuto ad Auschwitz, di Liliana Segre, di Edith Bruck, di Sami Modiano sono imbrattati, ma al Binario 21 non si vede nessuno a protestare. I loro nomi sono maledetti fino a che non riconosceranno di appartenere a una razza sionista dedita al genocidio e se eccepiscono, se provano a obiettare, ecco partire il coro delle ingiurie. Ovviamente nel silenzio della cultura democratica. Che oramai, crollato il tabù della Shoah, sta lasciando nuovamente gli ebrei al loro destino.

A Gaza c’è una guerra spietata, spaventosa, smisuratamente crudele. I bambini assassinati, affamati, le case sventrate, un popolo sotto le macerie indicano con perentorietà un prezzo moralmente insostenibile, l’intollerabilità etica di una condotta disumanizzante, certamente per me che rivendico il diritto storico di Israele di esistere in pace accanto al diritto dei palestinesi ad avere un loro stato: prospettiva oramai consegnata, quasi interamente per responsabilità delle dirigenze arabo-palestinesi nel corso dei decenni, a una dimensione di sconfortante irrealtà onirica. Mi commuovo. Mi commuovo per ogni singolo bambino morto, palestinese ed ebreo, per il piccolo Kfir Bibas, un anno di età, preso in ostaggio il 7 ottobre e strangolato dai suoi carcerieri insieme ad Ariel di 5 anni, nella distrazione improvvisa delle incandescenti piazze occidentali. Mi commuovo per i cittadini israeliani che, agitando i cartelli con le immagini dei rapiti, protestano liberamente contro Netanyahu e contro i fanatici che stanno alla sua destra e che vanno a Gerusalemme Est per fare gli squadristi a danno dei commercianti arabi. Ma mi commuovo ancora di più per la sorte sconosciuta di un palestinese eroico di 22 anni, Oday Nasser al Rabay, che nei mesi scorsi ha organizzato una manifestazione a Gaza contro lo strapotere dei predoni di Hamas, considerati come i carnefici del suo stesso popolo, e che perciò è stato torturato e trucidato, e il suo corpo, secondo i comandamenti di un rituale mafioso mai contestato nei seguaci occidentali ProPal, è stato deposto davanti alla casa di famiglia. Nella guerra delle immagini si sta giocando con un cinismo altrettanto vomitevole un’altra partita emotivamente incandescente. Una guerra di parole, una guerra morale, come l’ha definita Gérard Biard, capo redattore di Charlie Hebdo (quelli di #jesuischarlie ormai ripudiati dalle piazze fanatizzate dei ProPal). Dice Biard: “La parola ‘genocidio’ si impone. A lettere maiuscole. Non si parla più di fatti: si tratta di schiacciare ogni sfumatura sotto il peso di un’accusa totale. Non solo contro un governo o un esercito, ma contro un paese, una società, un popolo. Le parole non servono più a descrivere la realtà: servono a designare un nemico assoluto. Non si vuole più giudicare Israele. Lo si vuole cancellare”. La fine del tabù della Shoah, che comunque ha retto l’ordine morale delle democrazie occidentali, ha rimesso gli ebrei nel mirino del mondo. L’accusa “totale” esige l’inclusione “totale” della storia sionista nel recinto infetto del Male assoluto: l’ebreo che bacia con passione Hitler, appunto. Per questo non fa più impressione che in Colorado si scaglino le bottiglie Molotov per ustionare e uccidere chi, ovviamente ebreo, con un pacifico cartello, soltanto con un pacifico cartello, vuole ricordare gli ostaggi torturati nelle grotte di Hamas armate nei decenni dagli aiuti “umanitari” di un occidente che non sentiva e non vedeva: prima non si poteva fare, oggi si fa. Diventa naturale che qualche negozio di indignati esponga un cartello in cui si intima il divieto di ingresso ad avventori ebrei e sionisti e magari, vergogna incommensurabile, muniti di passaporti israeliani lordi di sangue innocente: prima ci si vergognava, adesso non ci si vergogna più. Non è degno di attenzione che gli studenti ebrei abbiano paura di indossare la kippah e se osano indire un convegno all’Università di Torino, un tempo santuario della cultura libera e oggi palcoscenico di ogni intolleranza, anche la più torva, debbano difendersi dall’aggressione fisica dei gruppi violenti che ululano e manganellano, anziché discutere. Non sconcerta più che un libro di Isaac Bashevis Singer venga deturpato con la scritta: “Questo prodotto uccide”. Prima avresti avuto una reazione di sdegno democratico. Oggi gli studenti ebrei con i vestiti inzaccherati dagli sputi degli squadristi, non meritano nemmeno una breve in cronaca. L’occidente delle democrazie liberali, attraverso l’abuso scriteriato e violento della parola “genocidio”, chiude con il senso di colpa nei confronti degli ebrei e li espone nuovamente al ludibrio universale come incarnazione del Male. Non solo: si libera anche dal senso di colpa di esistere, se la sua stessa storia diventa solo una sequenza di crimini, un’ininterrotta festa dell’oppressione. E agli oppressi puoi perdonare tutto: che decapitino i dissidenti, che massacrino le donne, che catapultino dai tetti gli omosessuali, come avviene nella Gaza di Hamas. L’oppresso che stupra le donne degli oppressori è pur sempre un resistente, un combattente contro i crimini del colonialismo. Per le donne ebree non c’è pietà, non c’è solidarietà. La solidarietà va intera, integrale, all’oppresso, alla vittima di uno stato genocidario. Chi ha vinto il 7 ottobre del 2023?

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