Gli studi a Pisa, il primo contratto e il permesso di soggiorno da rinnovare ogni anno. Poi la svolta del Jobs Act e la conquista della cittadinanza
Ieri ho votato per la prima volta in Italia. Ho ritirato una sola scheda, quella relativa al referendum sulla cittadinanza; le altre no, per due motivi ben precisi. Ho ottenuto la cittadinanza italiana quest’anno, dopo diciassette anni vissuti in questo paese, pagando le tasse, costruendo qui la mia vita.
Sono arrivata a Roma nel 2008, dalla Germania, dopo aver completato gli studi a Berlino. Parlavo già italiano. Il certificato di conoscenza della lingua – livello B1 secondo il Quadro Comune Europeo di Riferimento, oggi richiesto per ottenere la cittadinanza – io l’ho conseguito all’età di quindici anni in Georgia, superando un esame presso l’ambasciata italiana a Tbilisi e l’Università per stranieri di Perugia. Sì, perché avevo undici anni quando ho cominciato a studiare l’italiano con un’insegnante privata in Georgia. E’ l’unica lingua, tra le cinque che conosco, che ho scelto di imparare per puro piacere. Le altre, in un certo senso, mi sono capitate. Il georgiano è la mia madrelingua. Il russo l’ho studiato per obbligo – anche se, quando iniziai la scuola, la perestrojka era già cominciata. Il tedesco è venuto per tradizione: per via dei legami tra l’Unione Sovietica e la Ddr, che per noi rappresentava l’unico “estero” possibile, noi che vivevamo rinchiusi oltre la cortina di ferro. L’inglese, infine, lo imparai perché era utile nella Georgia post sovietica, ma anche – e forse soprattutto – perché simboleggiava la libertà, dopo il crollo dell’Urss.
Dicevo: cominciai a studiare l’italiano a Tbilisi, con un insegnante privato. Ma non era un insegnante qualunque: era un famoso pittore georgiano, si chiamava Giovanni Vepkhvadze. In georgiano, “Ivane”. Aveva vissuto per molti anni in Italia e si era innamorato follemente di questo paese, al punto da cambiare il proprio nome da Ivane a Giovanni. Una volta rientrato in Georgia, chiamò i suoi figli Bruno e Domenica: erano gli unici bambini con quei nomi nel paese, e non per caso. Uno dei primi due libri che mi fece imparare a memoria – perché il maestro Giovanni sosteneva che solo così si potesse arricchire davvero il vocabolario – fu “Le avventure di Pinocchio” di Carlo Collodi. L’altro, “Cuore” di Edmondo De Amicis.
Passarono gli anni, arrivarono altri scrittori italiani. Ma soprattutto arrivò il cinema. Il cinema italiano. Visconti e Fellini sopra tutti. Guardavo i loro film con i sottotitoli in italiano, fermando spesso le immagini, leggendo con attenzione ogni espressione, ogni battuta. L’amore per quei due registi non era solo per il loro cinema: era anche per la lingua che, attraverso le loro opere, cercavo di affinare.
Più tardi, una volta in Italia, scoprii con un certo divertimento lo scontro intellettuale tra i due maestri e la storica polarizzazione tra “viscontiani” e “felliniani”. A me, che li avevo amati entrambi con uguale passione, sembrava una disputa affascinante e un po’ buffa. Io non avrei mai potuto scegliere. A Visconti e Fellini, con il tempo, si è aggiunto anche Antonioni. Ma quella è un’altra storia, ancora più intima. Più personale.
Mi laureai a ventitré anni e, con la laurea, lasciai per sempre il mio paese. Partii per Berlino, per proseguire gli studi alla Humboldt. Ma non volevo dimenticare l’italiano. Così mi iscrissi a un corso serale, che seguivo in parallelo con le lezioni di Master in Scienze politiche. Si intitolava Letteratura e cinema italiani. In pratica, ci guidavano attraverso quei grandi romanzi italiani che, nel tempo, erano diventati film. Leggevamo il libro, poi guardavamo la trasposizione cinematografica, e infine ne discutevamo insieme in classe. Era un esercizio doppio – linguistico, ma anche affettivo – che mi teneva legata a una lingua che ormai sentivo mia.
Dopo aver completato gli studi a Berlino, trovai subito lavoro all’Istituto Affari internazionali, come ricercatrice. Arrivai in Italia nel gennaio 2008, poi feci qua anche il dottorato alla Scuola Normale di Pisa. Ed è da qui che comincia la storia che spiega il mio “sì” al quesito sulla cittadinanza del recente referendum, e la mia decisione di non ritirare le altre quattro schede, che puntavano in sostanza ad abrogare la riforma del Jobs Act.
Prima della riforma, tutti i ricercatori e le ricercatrici dell’IAI avevamo contratti annuali di tipo co.co.pro. Non mi metterò qui a elencare quanti diritti vengono meno con questa forma contrattuale, né cosa significhi, in prospettiva, per una pensione dignitosa. Voglio solo raccontare cosa significa un contratto annuale per uno straniero che risiede legalmente e paga le tasse in Italia. Significa dover rinnovare ogni anno il permesso di soggiorno. E, di conseguenza, anche la tessera sanitaria.
Così, dal 2008 al 2016 – prima dell’introduzione del Jobs Act – ogni luglio dovevo presentare richiesta di rinnovo. Ogni luglio, con quaranta gradi, dovevo recarmi al centro immigrazione di Roma, che si trova oltre i sette colli, nel bel mezzo del nulla. Niente alberi, nessun riparo, solo cemento e afa. Arrivavo all’orario indicato sull’appuntamento, illudendomi che fosse davvero il mio turno. Ma lì scoprivi che quel medesimo orario era stato assegnato anche ad altri cento “fortunati”, stipati in fila, spesso sull’orlo dello svenimento sotto il sole cocente della capitale. E non pensiate che tutto si risolvesse in quella giornata. No: lì ti prendevano solo le impronte digitali.
Il permesso vero e proprio arrivava due mesi dopo. Due mesi durante i quali ti veniva consegnata una ricevuta, una sorta di certificato provvisorio che attestava che eri in attesa del rinnovo. In teoria ti permetteva di viaggiare, ma guai se ti fermavano in un aeroporto internazionale dove nessuno sapeva leggere l’italiano o riconoscere quel foglio sbiadito.
Questo è andato avanti per anni.
Ma la questione non era solo burocratica. Un permesso di soggiorno annuale, legato a un contratto precario, significa anche l’esclusione silenziosa da tanti altri diritti. Cose che per molti sono ovvie: non puoi acquistare a rate un bene un po’ più costoso, né tanto meno accendere un mutuo per comprare casa. Era una vita sospesa, a tempo determinato.
Per farla breve – anche perché noi georgiane non amiamo lamentarci troppo – nel 2016 la riforma del Jobs Act, voluta dal governo Renzi, permise al direttore dell’IAI di trasformare quei contratti co.co.pro. in contratti a tempo indeterminato, finalmente dignitosi.
Da lì, oltre ai diritti lavorativi, ho ottenuto anche la possibilità di convertire il mio permesso di soggiorno in un permesso a tempo indeterminato. Successivamente, questo è diventato un permesso di lungo periodo, della durata di dieci anni. A quel punto, finalmente, potevo presentare domanda per la cittadinanza italiana. Dopo diciassette lunghi anni, ho finalmente ottenuto la cittadinanza italiana.
Perché i dieci anni di residenza richiesti dalla legge, in realtà, non sono mai solo dieci: diventano almeno dodici e mezzo, se si considerano i tempi di elaborazione della pratica. E a questi si aggiungono altri quattro anni persi per un motivo tanto banale quanto determinante: quando arrivai in Italia, trovare un affitto con un contratto regolare fu un’impresa. Tutti chiedevano il pagamento in nero, e così non potevo registrare la residenza, ma solo il domicilio.
Poi, nel 2019, è arrivato il cosiddetto “decreto Sicurezza” voluto dal governo Conte-Salvini, che ha portato i tempi di elaborazione della cittadinanza da due a cinque anni. Non a caso, nel recente referendum sulla cittadinanza, Conte ha lasciato libertà di coscienza: un gesto coerente con la sua storica difficoltà a mantenere una bussola morale. La legge, successivamente, è cambiata di nuovo, e i tempi sono stati ridotti. Così, lo scorso febbraio, ho finalmente potuto prestare giuramento sulla Costituzione italiana.
La mia è stata una scelta dettata dall’amore per questo paese – non perché l’Italia renda facile la vita a chi straniero ci vive (dal punto di vista burocratico è tutto tranne che semplice), ma perché la sua gente è generosa, aperta, accogliente. Mi sono sempre sentita profondamente amata – e viziata – dagli italiani. Soprattutto da Roma, che non cambierei per nessun altro posto al mondo.
E così, domenica, ho compiuto il mio primo dovere da cittadina: ho votato.
Pensate che la tessera elettorale sia arrivata a casa? Ovviamente no. Sono dovuta andare al Municipio I per ritirarla. Nell’era dell’intelligenza artificiale, l’anagrafe ha ancora bisogno di 120 giorni per trascrivere un atto di nascita. La lista elettorale era stata chiusa ad aprile, mentre i miei dati non erano ancora stati registrati.
Pensavo che, ottenendo la cittadinanza italiana, i miei incubi burocratici fossero finiti. E invece il Municipio I aveva in serbo per me un’ultima, tragicomica avventura. Sì, tragicomica. Perché, alla fine, con ironia e con l’aiuto del cinema italiano, ho imparato ad affrontare tutte queste rogne. Così, mentre dallo sportello 11 mi mandavano al secondo piano da un certo signor M.C., che mi rimandava poi al primo piano allo sportello 14, e da lì di nuovo al secondo piano, prima di riuscire finalmente a ottenere la tessera elettorale… sorridevo. Sorridevo perché mi tornava in mente la scena con Nino Manfredi nel film “Made in Italy”, nell’episodio in cui corre disperatamente da uno sportello all’altro per ottenere un semplice certificato di residenza in un municipio romano.