La lunga notte della tv

E’ il 1995, si vota al referendum per ridurre la pubblicità sul piccolo schermo: “Non si interrompe un’emozione”. Mingardi racconta i furori degli intellettuali e come vinse la libertà. In gioco c’era di più del futuro politico del Cav.

Dopo le elezioni americane, la maggior parte delle persone che incontravo era fermamente convinta che i social fossero responsabili della vittoria di Trump. Qualsiasi altra cosa – l’economia, la Cina, la scarsezza di una candidata come Kamala Harris, le tensioni etniche o fate voi – passava largamente in secondo piano. Amareggiati dalla deriva fascista del vecchio Twitter finito nelle mani di Musk, in tanti seguivano la scia di un esercito di indignati che comunicava al mondo il grande addio alla piattaforma un tempo giusta e obamiana (si ricordano qui i commiati di Piero Pelù, Sandro Ruotolo, Nicola Piovani). Alcuni andavano in esilio su Bluesky, una piattaforma culturale dove poter “stare con persone uguali a noi”, quindi parlare dell’ultimo romanzo di Sally Rooney e postare meme con frasi di Chomsky. Altri evocavano regole più severe, una stretta, un Digital Act dell’Unione europea. “I social senza regole hanno creato il fenomeno Trump”, ripeteva in continuazione Saviano. La fatidica “legione di imbecilli” di Umberto Eco aveva preso il sopravvento.

Nella vita ci sono poche certezze. Una di queste è che ogni vittoria della destra – di qualunque destra – sarà sempre ricondotta prima di tutto a un deficit culturale degli elettori e allo strapotere dei media, che poi scompare magicamente quando vincono gli altri. Gli interpreti cambiano, i ruoli da cattivo sono sempre quelli: ieri era colpa della televisione, oggi dei social. Anche se le differenze sono enormi, la metrica, il fraseggio, i discorsi sono quelli di trent’anni fa, quando la tv commerciale, cioè la Fininvest, cioè il Grande Satana, corrompeva l’anima pura e monopolista degli italiani, lasciandoli in balia del degrado morale, del tracollo del costume, e ovviamente del “regime berlusconiano”. Un eterno ritorno dello stesso rumore di fondo. Ogni volta che le cose diventano più nuove e complicate di prima, ogni volta che le vecchie gerarchie si sfaldano e si fa largo l’impossibilità di filtrare messaggi e contenuti, lì potrebbe annidarsi l’incubo peggiore: che il pubblico e gli elettori facciano come gli pare e non seguano i nostri buoni consigli.

In questo weekend di passione per il quorum si celebra un altro anniversario referendario, anche se ormai se lo ricordano in pochi e non se ne parla quasi mai. L’11 giugno 1995, poco dopo la caduta del primo governo Berlusconi, agli italiani veniva chiesto di pronunciarsi su dodici referendum abrogativi. Alcuni riguardavano il commercio, altri il sindacato, as usual, altri il sistema radiotelevisivo regolato dalla vecchia “Legge Mammì” del 1990. Il più noto però era quello sulla riduzione della pubblicità durante i film trasmessi in tv, consegnato alla storia dal celeberrimo slogan, “non si interrompe un’emozione”. Società civile, intellettuali, mondo della cultura, sinistra, Cgil, tutti schierati in prima linea per dare il colpo di grazia alla tv commerciale che aveva portato Berlusconi a Palazzo Chigi, liberare il paese dall’imbarbarimento, ripristinare la democrazia. Un all-in.

Società civile, intellettuali, mondo della cultura, sinistra, Cgil, tutti schierati in prima linea per dare il colpo di grazia alla tv commerciale che aveva portato Berlusconi a Palazzo Chigi

Le cose però andarono diversamente. Chi ha più di quarant’anni avrà forse dei ricordi di quella campagna referendaria che oggi affiorano come allucinazioni: appelli di Sandra e Raimondo per la libertà del mercato televisivo, Patrizia Rossetti, madrina delle telenovelas di Rete 4, che terrorizzava il pubblico sul futuro di “Manuela” e “Sentieri”, round televisivi con Massimo D’Alema contro Iva Zanicchi, Sergio Mattarella contro Enrico Vanzina, Fausto Bertinotti contro Rita Dalla Chiesa. La Repubblica fondata sulla televisione era a un bivio: scegliere la cultura o la pubblicità, “l’integrità dell’opera” o l’interruzione di detersivi e pannolini, il grande cinema italiano e la Rai o la stupida tv commerciale ma gratuita. In un libro in uscita per Mondadori, “Meglio poter scegliere. I referendum del 1995 e la battaglia per la televisione commerciale”, Alberto Mingardi torna su una vicenda che i saggi accademici sulla Seconda Repubblica e persino i libri di Vespa rimuovono o relegano nelle note a pie’ di pagina e che lui invece non esita a definire “uno dei punti di svolta dell’Italia contemporanea”. Non si può che dargli ragione. Non solo perché in quella crociata antitelevisiva c’è tutta la spocchia, la chiusura mentale, la vocazione pedagogica degli intellettuali italiani, ma perché se quei referendum fossero andati diversamente a Berlusconi sarebbe forse mancata la “tigna”, come dice Mingardi, per resistere tra il ‘96 e 2001. Forse avrebbe mollato. Forse avrebbe dato retta ai tanti “te l’avevo detto” che sconsigliavano l’avventura politica e che, dopo il tradimento di Bossi e la crisi di quel primo governo d’arrembaggio, sembravano avere ragione. E invece manco per niente. Una sliding door, insomma.

Il referendum del 1995 è stato per la cultura italiana – soprattutto ma non solo quella di sinistra – quel che fu il referendum sul divorzio per i cattolici: una roboante presa di coscienza dello scollamento tra ciò che si proponeva al paese e ciò che il paese desiderava. Non era una astratta battaglia di libertà, ma una difesa molto concreta della libertà del telecomando. Il paese era insomma un po’ meno fuori dal mondo dei suoi intellettuali e della sua classe politica. Nel 1995 il New York Times stava per inaugurare un sito internet, iniziavano a diffondersi su larga scala le mail, c’erano i primi banner sull’edizione online di Wired, e in Italia volevamo limitare le reti televisive private e i film con la pubblicità. Il quesito sugli spot doveva essere la classica esca per trascinare gli italiani dalla propria parte: chi è che non preferirebbe un film senza pubblicità? Era il classico “pasto gratis”. Ma proprio Vanzina, mentre Mattarella evocava lo spirito di Fellini che ci giudicava severamente dall’aldilà, ricordava che i grandi film passano in tv grazie alla pubblicità, a vantaggio di chi non può andare al cinema o non poteva permettersi la payTV (Vanzina ricorda sempre la promessa di Confalonieri e Berlusconi: se vinciamo il referendum, ti intitoliamo una strada a Milano2. “Non è successo, ma siamo rimasti amici”, dice. Forse sarebbe il momento di intitolargliela).

Il referendum del 1995 è stato per la cultura italiana quel che fu il referendum sul divorzio per i cattolici: una roboante presa di coscienza dello scollamento tra ciò che si proponeva al paese e ciò che il paese desiderava

Per Mingardi, che passa con invidiabile disinvoltura dall’economia alla storia dei media, raccontare la storia di quel referendum è un modo per ribadire che l’unica vera rivoluzione liberale che c’è stata in Italia è stata quella televisiva. Nessuna liberalizzazione venuta dopo tiene il passo di quell’impresa davvero epica che in Italia ha scosso le fondamenta della cultura e dell’informazione, liberandoci dal monopolio e dalla cappa di un sistema chiuso e corporativo. E’ solo nella grande sfida lanciata alla Rai sin dagli anni Settanta e poi vinta contro ogni pronostico che l’avventura berlusconiana può dirsi liberale e libertaria fino in fondo.

Come evidenzia Mingardi, la mossa geniale della campagna del No, a difesa delle tv commerciali, fu però proprio quella di non usare Berlusconi come testimonial. Non doveva essere una sua battaglia personale, un referendum pro o contro il Cav., ma una battaglia del pubblico televisivo che rivendicava la libertà di scelta per le sue serate: meglio più canali che meno canali, meglio più film con la pubblicità che meno film, decisi dalla Rai (chi è stato adolescente nei roaring Nineties si è formato sui “Bellissimi” di Rete 4 e gli horror notturni di Italia 1, dove la pubblicità non solo non infastidiva ma ci stava anche bene perché si rifiatava). “Il cuore della strategia di comunicazione della Fininvest”, scrive Mingardi, è che “i quesiti referendari possono essere stati pensati per mettere in difficoltà Berlusconi, ma metterebbero in ginocchio un’impresa che è qualcosa d’altro e di più del suo proprietario”. E così i tanti impiegati Fininvest, inclusi quelli iscritti alla Cgil, formavano comitati, partecipavano alla difesa dell’azienda: “Vogliamo essere come gli operai Fiat. Nessuno li identifica con Agnelli”. Tutti i giornali li sfottevano. Perché in questo libro si racconta anche un’altra grande battaglia: quella tra la nobiltà culturale del giornalismo, il prestigio della carta stampata e la volgarità della televisione (ecco infatti un vasto capitolo che ricostruisce in modo avvincente il rapporto-scontro edipico tra Montanelli e Berlusconi). Dopo l’esito roboante del referendum, con una partecipazione altissima e un secco “giù le mani dalla tv commerciale”, Sergio Ricossa suggeriva che la sinistra aveva perso perché non è solo statalista, ma è anche “anticonsumista” e “l’anticonsumismo, l’incapacità di riconoscere come legittime le scelte di consumo delle persone, è l’altra faccia dello statalismo”. Ma le trame che si intrecciano in quel giugno del ‘95 sono davvero molte. Questo libro prezioso le ripercorre tutte. E’ così una piccola storia del tormentato scontro tra intellettuali e televisione (sulla tv cadono sempre tutti: dai marxisti agli ultraliberali, da Bourdieu a Popper, anche i saggi di Umberto Eco, che diventerà ultrà antiberlusconiano, sono animati da un sottile disprezzo per il mezzo e il suo spettatore). E’ un’analisi del paternalismo della cultura italiana, presa dal demone della pedagogia e della cronica paura di ogni forma di concorrenza.

E’, infine, un libro su una doppia amnesia che prende a sinistra e a destra. Come dicevamo di quei referendum non si parla mai. La sinistra li ha cancellati dalla memoria per due motivi. Prima di tutto perché non si ricordano mai le sconfitte e il referendum rimise in pista Berlusconi che nel ‘95 si dava per spacciato, finito, fuori dai giochi della politica. Poi perché fu proprio lì che il centrosinistra di allora prese atto che non capiva nulla del paese che pretendeva di governare e che bisognava non solo venire a patti con la tv (mandando per esempio D’Alema in pellegrinaggio dal Gabibbo), ma anche diventare un po’ più liberali e meno statalisti, abbracciando una fatidica “terza via” italian way. Qui Mingardi tira le somme, spiega bene come oggi quei referendum rappresentino l’origine di quella creatura astratta che chiamiamo “neoliberismo italiano”, il neoliberismo nel paese con le marche da bollo e le privatizzazioni fatte dal centro-sinistra, secondo il celebre adagio per cui in Italia le cose di destra le può fare solo un governo di sinistra e viceversa.

Nel 1995 c’è dunque l’origine di un grande malinteso: da un lato una rivoluzione liberale sbandierata e mai fatta; dall’altro una sinistra convinta di dover inseguire una destra liberale, thatcheriana, che diventa di rimbalzo riformista, quasi mercatista, insomma moderna, come non l’avevamo mai avuta e non l’abbiamo ancora oggi. Da quel referendum, “ne venne qualcosa di buono per l’Italia. Ma presto destinato, nell’involuzione identitaria della sinistra, alla damnatio memoriae”. Ma se la sinistra perse rovinosamente, non si può neanche dire che vinse Berlusconi, tantomeno la destra. Il referendum lo vinsero “Sandra e Raimondo, Mike e Corrado, lo superarono Dallas e Baywatch, lo superarono i lavoratori Fininvest che non volevano essere confusi con Forza Italia. Vinsero loro, e vinsero gli italiani che si resero conto davvero che è meglio conservare la libertà concreta di scegliere fra sei canali televisivi, anziché ritrovarsi con tre. E’ meglio poter scegliere”.

Ormai, l’intellettuale italiano ha smesso da tempo di prendersela con la tv. Forse neanche Luciano Canfora la considera più una minaccia per la democrazia. Vantarsi di non vederla o non averla in casa ci colloca nella fascia media del pubblico medio che preferisce ormai fare altro, recuperandola come uno dei tanti repertori dei social. I tempi sono maturi per un appello degli intellettuali per salvare il “Grande Fratello”, come “pezzo decisivo della storia culturale del paese”, difendere “Pomeriggio Cinque”, dare un programma a Barbara D’Urso, fare in modo che non spariscano i talk-show, baluardo di confronto anche duro ma comunque dialettico e democratico, sempre meglio che informarsi facendo scrolling su TikTok che poi vincono i neonazisti, come in Polonia.

“Non passare tutta la sera davanti la tv, prova a leggere un libro”, mi dicevano i miei genitori prima di uscire lasciandomi con la baby-sitter. “Non stare tutta la sera sul telefono, prova a vedere un film”, diciamo noi oggi ai nostri figli. La tv non fa più paura. Eppure “per quasi trent’anni l’inesorabile declino del paese, più che al debito pubblico o alle mancate riforme, è stato attribuito al palinsesto Mediaset”, ricordava Francesco Mazza in un pezzo uscito su Linkiesta un po’ di anni fa, proprio quando il palinsesto Mediaset era innovativo, spregiudicato, avanti anni luce rispetto a quello che si faceva in Rai. Quel palinsesto che i referendum avrebbero voluto bloccare, limitare, controllare. Poi ci ha pensato la tecnologia. Il problema non si è più posto. Sparito. La televisione è uscita dalle nostre vite, di sicuro ha perso la sua vecchia centralità. Quanto a Mediaset è in caduta libera, avvitata in uno dei suoi periodi più neri: i nuovi programmi chiudono uno dopo l’altro, quelli vecchi annoiano e li guardano in pochi. Reggono solo le serie turche e Maria De Filippi, che è un fenomeno a parte, un culto parareligioso, il nostro Scientology. Alla fine, il paese si è deberlusconizzato da solo. Eppure non siamo diventati migliori.

Leave a comment

Your email address will not be published.