Romanzo Rosso è un’accurata ricostruzione dei linguaggi e delle febbri dei giovani di quel tempo. Ragazzi abbagliati da teoremi di cui oggi non appare presentabile neppure una virgola. E poi il rapimento Moro, e le tante macchiette di quella tragica vicenda
C’è stato in Italia e specialmente a Milano un tempo recente in cui le generazioni dei più giovani erano accese dal predicare da mane a sera la necessità di fare una gran bella rivoluzione armata e di costruire una società perfetta dove tutti fossero eguali.
Giornalista e scrittore sperimentatissimo Pino Corrias s’è come avvinghiato a quei tempi e a quei personaggi, ai loro linguaggi e alle loro febbri, e ne ha tratto un romanzo massiccio: Romanzo rosso. Gli anni del furore e del piombo (Feltrinelli). A proposito della Milano di allora leggerete brani come questo: “Persino nella mitica casa occupata di Cesare Correnti, la casa degli artisti paraculi, dove si respirava una rabbia mai contundente, la droga pesante stava selezionando le sue vittime tra i più deboli, quelli che magari avrebbero voluto aspettare un tempo congruo per bere il necessario, scopare il più possibile, e poi filarsela nella vita di prima, quella dei genitori, in attesa del futuro matrimonio con i confetti, il riso, la suocera”. Per tanti di loro era un continuo andirivieni tra l’ideologia marxista, il consumo di droghe leggere e pesanti, la perorazione più sfacciata dell’uso della violenza. Ivi compresa in questo caso un’escursione in Nicaragua a vedere da vicino gli orrori della rappresaglia antisandinista.
Personaggi che Corrias più che giudicarli ha voluto raccontare, cosa non facile dato che si tratta di personaggi che, a leggere di loro oggi, sembrano venire dell’altro mondo, da quanto non una virgola di quei teoremi allora diffusi appare presentabile nella società di oggi. Eppure dentro quei teoremi ci stavamo tutti, chi molto di più (i terroristi rossi assassini) chi molto di meno (ad esempio il sottoscritto). E dove non tutti l’hanno scampata senza fare danni agli altri e a sé stessi. Anzi. Fare danni al punto che due dei personaggi che Corrias non ama, ma che indaga a puntino, si mettono a discutere sul modo migliore di rapinare una banca per trarne i soldi di che alimentare la “rivoluzione”. Più ancora si mettono a soppesare simiglianze e dissomiglianze quanto al raggiungere gli obiettivi maggiori della loro giovinezza tanto rovente quanto sciagurata, ossia le donne da amare e le banche da rapinare. Ne parlano a ruota libera finché non trovano una sorta di sintesi: “Le donne sono territori infiniti, ti ci perdi. Le banche sono scatole. Le studi. Ci entri. Dentro sono un paradiso”. Naturalmente nessuno di voi che ora mi leggete ha avuto mai di tali pensieri. Eppure.
A metà strada il libro ha come uno scossone. E’ il momento del rapimento Moro e dell’annientamento della sua scorta da parte delle Brigate rosse. Corrias prova a mettersi nella testa dei terroristi e dei politici di allora. Gli interrogativi del tempo, se liberare Moro o no, e chi lo voleva libero e chi no e perché, interrogativi su cui discettano i personaggi del racconto. I quali macchiette erano e macchiette restano, non certo per colpa di Corrias. Macchiette quelli che avevano rapito e poi metteranno a morte uno dei personaggi cardine della storia repubblicana? Purtroppo sì. C’era un abisso tra la tragicità oggettiva di quello che stava accadendo e l’entità dei loro discorsi, delle loro nenie ideologiche, e a non dire della pochezza della nostra classe politica del tempo, incapace di trovare una soluzione attuabile che impedisse alla tragedia di compiersi interamente. Fino al funerale in onore di Moro assassinato, funerale al quale i suoi parenti non vollero che presenziassero le autorità politiche del nostro Paese. Le quali non avevano fatto nulla per impedire davvero che il prigioniero fosse crivellato di colpi nel retro di un’auto. Non si poteva trattare con i terroristi perché voleva dire non tenere in nessun conto la vita degli uomini della sua scorta che erano stati assassinati? Ah sì. Perché un morto in più avrebbe cambiato qualcosa della loro sorte? L’avrebbe attenuata? Si poteva trattare invece, tanto prima o poi li avrebbero acciuffati e gliela avrebbero fatta pagare a quel nugolo di delinquenti che non avevano alcun retroterra nell’Italia reale del tempo. Ne sta parlando uno che sarebbe divenuto amico di quelli che tra loro sarebbero passati dalla parte dei “pentiti”. Di quelli che si erano scrostati di dosso l’ideologia sanguinaria che li aveva mossi.
E a non dire che le pagine del libro di Corrias risultano più commosse quando è in ballo la sorte di Demetrio Stratos, il cantante che aveva ipnotizzato una generazione e che aveva trentaquattro anni quando la sua voce si spense.