La parabola vincente dell’allenatore che ha vinto la Champions League alla guida del Paris Saint-Germain cominciò mettendo Totti in panchina
In una delle scene cult di C’eravamo tanto amati, capolavoro di Ettore Scola, Nicola (Stefano Satta Flores) e Antonio (Nino Manfredi) – il terzo protagonista è Gianni, interpretato da Vittorio Gassman – discutono mentre percorrono il Lungotevere sul valore dell’amicizia. Al culmine, Nicola pronuncia una delle frasi più celebri del cinema italiano: “L’intellettuale è più avanti, è più su, è più giù, egli è irraggiungibile, egli è più oltre”. Quattordici anni fa, Franco Baldini – calciatore di provincia negli anni Ottanta, poi direttore sportivo in Italia, general manager in Inghilterra, consulente di mercato un po’ ovunque, distributore di caffè in Sudafrica, e tante altre cose ormai lontane nel tempo, sempre con quella voluttà per nulla dissimulata di mescolare il calcio con Bulgakov e De Gregori – fu più oltre.
La Roma aveva chiuso una stagione tormentata, l’ultima con la famiglia Sensi al comando, Unicredit aveva consegnato la società nelle mani di Thomas DiBenedetto, inaugurando l’era americana, Montella aveva sostituito in corsa Ranieri, ma non era stato confermato, anche perché aveva fallito l’obiettivo Champions (da queste parti la storia torna sempre almeno un paio di volte), la squadra dava l’impressione di essere a fine ciclo (di quei cicli romanisti in cui i secondi posti saziano come pasti luculliani) e necessitava di voltare pagina, cambiando consuetudini, metodi di lavoro, gerarchie incrostate come calcare. Diciamola tutta, si voleva fare piazza pulita di un certo andazzo e di certi personaggi. Baldini, che la Roma di Rosella Sensi aveva salutato con certo sdegno sei anni prima dopo che la presidente aveva bevuto il caffè della pace in Campidoglio con Giraudo, tornò da direttore generale, facendosi annunciare dalla celebre intervista data a Emanuela Audisio – lui si concedeva solo alle firme nobilissime –, in cui dette del pigro a Totti, e scegliendo per la panchina perennemente scottante della Roma l’allora 41enne Luis Enrique, giocatore di classe e furore, ma allenatore ai primi vagiti (fin lì aveva allenato solo il Barcellona B). Baldini andò oltre, perché voleva portare la Roma oltre. Per questo l’aveva affidata a un marziano. E come nel racconto di Flaiano – ad oggi ancora la migliore fotografia dei romani e della flemmatica e irridente filosofia di vita che li guida – l’inizio fu entusiasmante, stuoli di commentatori gridarono all’inizio di una nuova èra, Luis Enrique fu accolto come l’hombre vertical che il romanismo aspettava almeno dai tempi di Zeman (o der go’ de Turone).
Ma durò poco, pochissimo. A Bratislava, esordio stagionale, in un triste preliminare di Europa League, l’hombre lasciò in panchina Totti e Borriello e si perse. Al ritorno, all’Olimpico, l’hombre sostituì Totti con Okaka e lo Slovan pareggiò, eliminando i giallorossi. Nel post-partita, defluendo dallo stadio, un anonimo benefattore dell’umanità registrò lo sfogo di un tifoso colorito, diciamo così, che divenne virale quando ancora la viralità si associava solo alle infezioni (per chi volesse riascoltarlo, su YouTube basta digitare “tifoso Roma Verre” e ci siamo detti tutto). Da lì in poi, la strada per Luis Enrique fu tutta in salita. Sarebbe bastato avere un poco di pazienza, ma notoriamente i romani si approcciano alle cose della vita come se avessero vissuto tutti i duemilasettecento e rotti anni della città, e perciò nel breve volgere di una manciata di mesi Luis Enrique divenne Luigi Enrico tra l’ilarità generale e in primavera se ne tornò da dove era venuto, espulso come il marziano di Flaiano.
Quello che successe alla Roma subito dopo – tornò Zeman, durò pochi mesi anche lui, subentrò Andreazzoli, che si porterà sempre dietro l’onta della finale di coppa Italia persa con la Lazio all’Olimpico –, qui importa poco. Giova più ricordare, al fine di stabilire chi prese la decisione sbagliata in quel tremebondo 2012, i percorsi, dei giallorossi e dell’asturiano, fatti in questi tredici anni. La Roma ha conosciuto qualche campionato fortunato (secondi posti, badate bene), una memorabile notte di Champions (3-0 al Barcellona di Messi, ma erano solo i quarti) e una recente confidenza con le coppe europee che contano meno (Europa e Conference League, quest’ultima – conquistata al termine della prima campagna del condottiero Mou – resta l’unico trofeo vinto in diciassette anni). Luis Enrique ha conosciuto subito la gloria, vincendo la Champions nel 2015, appena tre anni dopo la traumatica esperienza romana, con il Barcellona di Messi (a proposito, quando lo mise in panchina nessuno fece una piega). Ha avuto alti e bassi, non è stato sempre compreso né atteso, nemmeno dalla sua Spagna (ma del resto, si sa, nemo profeta in patria), ma non ha mai piegato la schiena, nemmeno di un grado. Hombre vertical, dovunque sia andato.
La vita, in questi tredici anni, gli ha “concesso” pure il “lusso” più atroce, quello di sopravvivere a una figlia, Xana, portata via a nove anni da un osteosarcoma. Ma lui, come un eroe omerico, è andato avanti, dritto, incontro al suo destino (nel nome di Xana, oggi, c’è una fondazione che aiuta i bambini con gravi disabilità), e ha incontrato, dopo tanto peregrinare, la squadra del destino, con cui, a dieci anni di distanza dalla prima, ha vinto la sua seconda Champions (sempre nel segno di Xana, “perché lei – ha detto – è qui con me spiritualmente, ovunque io vada”). A modo suo, ovviamente. Dopo aver accompagnato alla porta Neymar, Verratti, Mbappé. La storia dirà: c’è stato un Paris Saint-Germain prima di Luis Enrique, quello che rincorreva il modello galattico del Real Madrid e faceva collezione di figurine che poi non riuscivano a stare bene in campo; e c’è stato un Psg con Luis Enrique, cioè una masnada di ragazzini molto talentuosi che l’hombre vertical ha reso una squadra di uomini. Più o meno la differenza che passa tra non vincere nulla e vincere tutto, anche se alla base i soldi (tanti) hanno sempre la stessa provenienza, il Qatar. (bisognerà pure macchiarsi di qualche peccato nella vita).
Ha detto Luis Campos, direttore sportivo del Psg: “Luis Enrique è il pezzo che ci mancava”. Ha detto Dani Olmo, attaccante della Spagna: “Luis Enrique ti fa credere che sei il migliore al mondo”. Hanno detto tutto.