I democratici americani si stanno accapigliando su Biden e su quel che è andato storto lo scorso novembre, ma sanno che devono già prepararsi al prossimo giro
A volte si distraggono, perdendo di vista l’obiettivo. Come è successo negli ultimi giorni, quando è sembrato che il loro avversario da criticare e sconfiggere non fosse più Donald Trump, bensì Joe Biden. Ma quando tornano a concentrarsi sulla realtà, i democratici americani sembrano aver capito che è già l’ora di muoversi se vogliono avere qualche chance di riprendersi la Casa Bianca. E tanti segnali dicono che stavolta la campagna elettorale sarà più lunga del solito: da molti punti di vista, le elezioni americane del 2028 sono già cominciate. La sconfitta dello scorso novembre è ancora da digerire e analizzare da parte dei democratici, molti dei quali hanno imboccato negli ultimi tempi la scorciatoia di riversare tutta la colpa su Biden. E’ il momento dell’uscita dei libri d’inchiesta sulle elezioni 2024 e a fare particolarmente scalpore è “Original Sin”, peccato originale, di Jake Tapper e Alex Thompson, che raccoglie centinaia di testimonianze a sostegno della tesi che la Casa Bianca democratica era consapevole della fragilità di Biden e della sua impossibilità di correre per un secondo mandato, ma avrebbe occultato tutto per lungo tempo, rendendo alla fine impossibile sconfiggere Trump. L’annuncio in questi giorni sul cancro in stato avanzato da cui è afflitto l’ex presidente, se ha addolcito un po’ i toni delle polemiche contro di lui, ha però rafforzato il convincimento di chi lo accusa di aver tradito il paese sulle sue reali condizioni di salute.
I libri-inchiesta sono ricchi di aneddoti e stanno svelando tanti presunti retroscena, come quelli sulla resistenza che Barack Obama avrebbe opposto – più dura di quanto non si sapesse – alla scelta di Kamala Harris come candidata al posto di Biden. Secondo un altro libro appena uscito, “Fight” di Jonathan Allen e Amie Parnes, Obama aveva in mente un ticket presidenziale diverso, composto da due governatori: Gretchen Whitmer del Michigan come candidata presidente e Wes Moore del Maryland come vice. Le rivelazioni e le ricostruzioni sono interessanti, ma rischiano di alimentare solo vendette interne. Addossare tutte le colpe su Biden non sembra né giusto né utile per disegnare una strategia per il 2028, perché impedisce ai democratici di fare i conti con la marea di motivi per cui l’elettorato li ha bocciati, che non possono certo ridursi all’anzianità di Biden. E’ per questo che chi si è già messo in cammino verso le prossime presidenziali, sta andando più a fondo nel cercare di capire cosa è andato storto. Perché gli elettori hanno detto no al partito della Harris per tanti fattori: la percezione dei democratici come un partito d’élite lontano dai problemi della gente; gli eccessi woke sui temi dell’identità di genere, della diversità, dell’inclusione, della sostenibilità; la sottovalutazione della portata dei fenomeni migratori e degli effetti della globalizzazione sull’economia americana.
Ecco così che chi sta già scendendo in campo, muovendosi in anticipo in stati chiave come Iowa, New Hampshire o South Carolina, sembra parlare sempre più un linguaggio “Maga di sinistra”, con una linea dura sull’immigrazione, un’inversione di rotta sulle battaglie culturali e una volontà di capire meglio quelle fette di elettorato che si sono ribellate ai democratici, come per esempio i giovani latinos.
Ma chi sono gli aspiranti presidenti già all’opera? In primo luogo c’è un’ampia pattuglia di governatori, molti dei quali devono anche decidere se correre nel 2026 per rinnovare il loro mandato. Ufficialmente, tutti i democratici dicono di essere concentrati sulle elezioni di metà mandato dell’anno prossimo e di avere come obiettivo quello di strappare almeno una camera del Congresso ai repubblicani. In realtà molti si stanno già posizionando per il 2028. E’ il caso dei governatori J.B. Pritzker (Illinois), Andy Beshear (Kentucky), Josh Shapiro (Pennsylvania) e la Whitmer (Michigan).
Tim Waltz, il governatore del Minnesota che non ha particolarmente impressionato come vice della Harris, si dice pronto a provarci di nuovo, stavolta come candidato presidente, “per spirito di servizio”. Wes Moore, carismatico ed emergente governatore nero del Maryland, dice che è presto per parlare di queste cose, ma in realtà è il primo del gruppo ad aver già raccolto un endorsement significativo da un personaggio che conta sempre di più nel mondo democratico: l’attore George Clooney, che in un’intervista alla Cnn ha candidato Moore alle presidenziali. Poi c’è l’eterno potenziale candidato Gavin Newsom, governatore della California, che stavolta sembra pensarci sul serio, anche perché il suo mandato scade nel 2026 e non può ricandidarsi. Da qualche mese ha lanciato un podcast nel quale si confronta con i duri del mondo repubblicano e sta cercando di riposizionarsi come democratico di impronta Maga. Tra l’altro per prendere il suo posto in California nelle elezioni dell’anno prossimo sembra pronta a scendere in campo la Harris, che così con ogni probabilità si sfilerebbe dalla possibilità di riprovare la corsa alla Casa Bianca nel 2028.
Insieme ai governatori, sono già in movimento altre figure del partito che stanno tastando il terreno per capire se hanno una possibilità. Molta attenzione la raccoglie Rahm Emanuel, ex sindaco di Chicago ed ex capo dello staff alla Casa Bianca con Obama, rientrato negli Stati Uniti dopo un po’ di anni trascorsi a fare l’ambasciatore in Giappone. Emanuel è uno dei più duri nel giudicare la linea politica del suo partito e nel proporsi come autore di un cambio di rotta. Ma neppure lui – come tutti gli obamiani, con in testa lo stratega David Axelrod, grande amico di Emanuel – sfugge alla tentazione di riversare buona parte della colpa della sconfitta su Biden. Sulle televisioni americane, per esempio, in questi giorni gira un oncologo di chiara fama che ha collaborato con la Casa Bianca di Biden, secondo il quale è impossibile che l’ex presidente e il suo staff non sapessero del tumore e quindi l’hanno tenuto nascosto. Si chiama Ezekiel Emanuel ed è il fratello di Rahm. Tra i senatori, si muovono in giro per l’America e si posizionano personaggi come Cory Booker del New Jersey, Chris Murphy del Connecticut, Amy Klobuchar del Minnesota o Ruben Gallego dell’Arizona. C’è chi ha già apertamente confessato di essere in piena esplorazione pre campagna presidenziale, come l’ex governatrice del Rhode Island Gina Raimondo o l’ex ministro dei Trasporti Pete Buttigieg (che ha maturato molta esperienza dai tempi di una prima campagna presidenziale nel 2020). Un pensiero, o qualcosa di più, lo sta certamente facendo la deputata newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, esponente di punta dell’ala più radicale del partito, che ha organizzato in questi mesi una serie di town hall meeting in vari stati che assomigliano a prove generali di candidatura.
Lo scenario assomiglia un po’ alla situazione in cui si trovavano i democratici nel 1992, dopo dodici anni di dominio dei repubblicani alla Casa Bianca, quando sembrava non esserci un leader e spuntò il giovane governatore dell’Arkansas, Bill Clinton, capace di battere a sorpresa il presidente in carica George H.W. Bush. Ma assomiglia ancora di più alla situazione dei repubblicani nel 2016, dopo due mandati presidenziali di Obama. Ci fu un momento in cui c’erano diciassette candidati repubblicani in corsa per la Casa Bianca, ma nessuno capace di emergere: poi arrivò in mezzo a loro come un tornado Donald Trump e li spazzò via tutti. Esiste un “Trump di sinistra”? Può emergere anche tra i democratici qualcosa di analogo al movimento Maga e qualcuno con caratteristiche simili a quelle di Trump, estraneo alla politica militante ma capace di attrarre consensi popolari? Al momento non si vede all’orizzonte, ma un segnale importante sarà quando emergerà qualche personaggio pubblico a sfidare apertamente e duramente Trump per le sue scelte politiche. Quello potrebbe essere il segnale di una possibile avventura elettorale.
Per ora a lanciare i primi attacchi violenti contro il presidente sono personaggi che non sembrano avere in mente una corsa per la Casa Bianca: Robert De Niro che si indigna al Festival di Cannes, Bruce Springsteen che fa arrabbiare il presidente con un duro discorso dal palcoscenico, l’ormai anziano Al Gore che alza la voce e invita alla rivolta e persino l’ex direttore dell’Fbi James Comey, che si è messo nei guai per un post sui social che è stato letto come una velata minaccia all’incolumità fisica di Trump. Difficile che uno di loro possa decidere di tentare l’avventura presidenziale. Un pensierino forse potrebbe farlo Clooney, che lo scorso anno ha contribuito a spingere Biden a ritirarsi e da allora è molto ascoltato dai democratici.
Ma il vero, possibile “Trump democratico”, il candidato non politico, è un altro. Si chiama Mark Cuban, non è molto conosciuto in Europa ma è assai popolare in America. Un miliardario diventato ricco nel mondo dell’informatica, poi diventato celebre nello sport come padrone dei Dallas Mavericks e personaggio pubblico e televisivo della Nba. Quindi protagonista per molti anni – come Trump – di un reality tv sul mondo del business, “Shark Tank” della Abc. Poi produttore televisivo, magnate delle criptovalute, ultimamente impegnato a sviluppare una rete di distribuzione di farmaci a prezzi contenuti. Infine attivista politico, antitrumpiano ma della stessa pasta e aggressività di Trump. Meglio: un Elon Musk che può candidarsi negli Stati Uniti perché non è nato in Sudafrica (su X, Cuban ha nove milioni di follower e litiga spesso con Musk). Finanziatore di Hillary Clinton e poi della Harris, per la quale è sceso in campo insieme al co-fondatore di Netflix Reed Hastings. Il nome di Cuban come candidato presidenziale gira da anni e anche in questi giorni ha dovuto negare di volerci provare nel 2028. “A meno che – ha aggiunto – Trump non provi a correre illegalmente per un terzo mandato”. Più che una smentita, è sembrato un modo per dire che non vede l’ora di provarci.