Boss, picciotti, malacarne e piscialletto. Il respiro marcio dei mammasantissima. Un coro di facce: killer, sbirri, ruffiani, mezze tacche. Un repertorio di occhi avvetriolati dall’odio e dalla morte. Vent’anni di cronaca nera a Palermo. Una città appesa al dire e al non dire, all’abbraccio e al tradimento. Una scheggia di storia italiana, un racconto senza indulgenze né indignazione
Cornuto. Arrivava quando il cadavere era ancora caldo e sentenziava a bruciapelo: “Un cornuto in meno”. Il colonnello Giuseppe Russo, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri, era un investigatore che credeva nell’onnipotenza della legge e, soprattutto, dell’Arma. Era convinto che bastassero quattro marescialli infiltrati tra la manovalanza delle borgate mafiose – Ciaculli, Uditore, Acquasanta – per sapere tutto di tutti. “Ho la mappa dei morti e dei vivi, ed anche dei vivi che saranno presto morti; morti ammazzati, naturalmente”. Così diceva, indicando col dito il proprio orecchio. Come se quell’orecchio fosse il terminale di chissà quale rete di spionaggio, di chissà quali centrali d’ascolto. Non c’era delitto che non fosse frutto di un regolamento di conti, non c’era morto ammazzato che non meritasse di essere ammazzato, non c’era vittima che lui non iscrivesse d’ufficio nel casellario della malavita: “Un cornuto in meno”, appunto. “Colonnello, ma lei lo conosceva?”. “Se non l’avessero ammazzato, tra qualche giorno l’avremmo certamente arrestato”. E nell’assemblare i pezzi della sua escatologia mafiosa, assumeva un aspetto altero, incannucciato, che tanto somigliava alla messa in posa per una fotografia. Ricordate quel poliziotto di Graham Greene e il suo inno spocchioso all’onnipotenza? “Possiamo impiccare più gente di quel che i giornali ne possano pubblicare”, urlava.
Il 20 agosto del 1977, il colonnello Russo fu ucciso. Dalla mafia. I killer lo sorpresero nel bosco della Ficuzza, dove ogni anno andava in vacanza con la moglie. Fu colpito alle spalle. Due colpi di lupara, sparati da un fucile a canne mozze. Cadde fulminato e non ebbe modo di vedere in faccia i suoi assassini. Ma chi poteva dubitare? Di sicuro lo avevano ammazzato un paio di cornuti che lui da lì a qualche giorno avrebbe “certamente arrestato”.
Gintuzza. “Tutto pagato mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re del contrabbando, formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di folla. L’onorevole si inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a sinistra. Raggiunse il banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole, merita questo ed altro”, declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna. Perché l’onorevole – che non era di molte e facili parole – continuò a masticare il suo bocchino di madreperla, quello con la molletta interna e la cicca estraibile, senza pronunciare sillaba, senza dire nemmeno grazie. Si limitò solo a guardarli, quei picciotti. E guardandoli gli significò che se avevano qualcosa da dire potevano anche dirla. Tanto lui era in campagna elettorale e li avrebbe certamente ascoltati.
Figurarsi però se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura a Vincenzo Mangiaracina, detto “u Lucchiseddu”, pizzicato otto anni prima per tentato omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”, che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso, muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro, scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava ch’era una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don Masino presentando cumulativamente quei picciottazzi disposti a semicerchio, come gli ami di una paranza. “Tutti ragazzi che per lei sarebbero disposti ad allavancarsi giù, da Monte Pellegrino”.
Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Muto come un tabuto, dicono alla Kalsa. E il tabuto, si sa, è la cassa da morto. Eppure don Masino non gli faceva mancare argomenti. Prima parlò “di quella piaga della Guardia di Finanza che aveva ormai reso la vita impossibile a chi campa la famiglia con le sigarette”. E poi, per meglio agevolare un eventuale discorsetto politico dell’onorevole, sfoderò pure la “vergogna delle case popolari” e delle “povere famiglie costrette a vivere, con i bambini, nei catoi”. Ma l’onorevole se ne stava appoggiato al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Ancora più muto. Fino a quando, don Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di coraggio e mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica, onorevole: che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati questa minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato. Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto breccia. Ora fanno tutti gli antimafi, ma in realtà sono semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua minerale”.
Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”. L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto. S’alzò il bavero del colletto, infilò ancora una sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò: “Gintuzza… Gintuzza e nulla più”.
Anatomia dell’omertà. Il ristorante “Gelsomino”, con quel nome così soave e profumato, era un rifugio anche per le persone oneste. Il tavernaro – Damiano Cannella, pregiudicato ma riabilitato – era uno dei pochi che, se proprio non potevi pagare, ti dava lo stesso da mangiare. “Ma senza abusare, picciotti: mi raccomando”. Noi cronisti lo conoscevamo così bene che, in quella tragica sera, arrivammo lì quando ancora le volanti giravano attorno, nervose e affannate alla ricerca di un indirizzo esatto che, ovviamente, non c’era. E fummo i primi a vedere il morto ammazzato, a sparare il primo flash sul cadavere ancora caldo che se ne stava con gli occhi sgranati sulla soglia della taverna, con la testa spiaccicata sullo stipite della porta e i piedi che penzolavano dal marciapiede. E volevamo anche essere i primi a raccogliere, da bravi cronisti, testimonianze e commenti. Ma dentro il locale, chiamiamolo così, non era rimasto nessuno. Gli avventori – tutte brave persone, per carità – erano fuggiti non solo per paura dei killer ma anche dei brigadieri e dei marescialli che sarebbero arrivati da lì a poco. E avevano lasciato solo don Damiano che, in attesa di tutti i guai che gli sarebbero piovuti addosso – minimo il ritiro della licenza – se ne stava seduto con la faccia tra le mani, sull’ultimo tavolo, quello incuneato tra la cucina e il banco della cassa, con i fiori di plastica che pendevano impolverati da una mensola di formica chiara, ingiallita dall’olio fritto. Un quadro da venerdì santo. Quando ci vide, il nostro amato e afflitto tavernaro, non ci riconobbe nemmeno. Anzi, cominciò a tremare, scambiandoci per sbirri. E cominciò a balbettare giuramenti a catena – “Parola d’onore…” – che erano la premessa di ogni risposta a qualsiasi domanda. E sbiascicò pure un “per favore…” lento e lacrimoso per chiedere ai fotografi di smetterla con i flash che gli alluciavano gli occhi. “Scusi, don Damiano: quanti colpi hanno sparato i killer?”. La domanda lo abbagliò più dei flash. “Non l’ho sentito”, rispose: “Come non l’ha sentito? Era qui… no?”. “Sì, ero qui ma, parola d’onore, che stavo mangiando”.
Inaugurava una nuova teoria sull’omertà: quella secondo la quale utilizzando il palato si paralizza l’udito.
L’isola è isolata. Serafino Di Peri, uno degli ultimi picciotti della mafia del feudo, ha tentato per tutta la notte di spiegare ai carabinieri che lo accompagnavano a Levore, sul Lago d’Iseo, che lui era “taliato di mafiusu”, e perciò spedito al confino, solo perché aveva appoggiato Vittorio Emanuele Orlando e quei separatisti che volevano fare della Sicilia la cinquantunesima stella degli Stati Uniti d’America. “Tutta una vendetta della politica”, diceva. “Al bandito Giuliano l’hanno ammazzato e a Gaspare Pisciotta gli hanno servito il caffè avvelenato all’Ucciardone. A noi poveri cristiani che non abbiamo fatto proprio nulla, niente di nulla, ci considerano mafiosi e ci mandano al confino”. Non si dava pace. “Che ci possiamo fare? Niente. Un prete fa violenza? E’ mafioso. L’onorevole ruba? E’ un mafioso. Quattro cornuti fanno una rapina? Mafiosi. Io do due boffe ’o picciriddu, due schiaffi a mio nipote, e che cosa sono? Un mafioso”. Una litania senza fine che ha costretto i carabinieri, due ragazzoni lentigginosi, a non chiudere occhio per tutto il viaggio. “Purtroppo la Sicilia è fuori dal mondo, cari amici miei. Noi siciliani viviamo in un’isola isolata dal mondo: questa è la vera verità”. E con la “vera verità” si è conclusa la notte del lungo monologo con il quale Serafino Di Peri, “taliato di mafiusu”, ha tentato faticosamente di dimostrare che l’isola è isolata.
Urològgi. Il mondo di mezzo tra la malavita e la sbirrame era incarnato da lui: da Paolino Carcione, meglio conosciuto in via Torremuzza, alla Kalsa, col nome confidenziale di “Paluzzu u’ pirciatu” per via di una coltellata che, negli anni della gioventù, lo aveva colpito alla guancia e gli aveva lacerato la pelle, poi ricostruita a fatica dai medici dell’ospedale Civico. Tirava a campare girando per uffici e bar. Arrivava con passo felpato, stirava per terra o su un treppiedi la sua tovaglia bianca e tirava fuori da un borsone gli orologi di fabbricazione giapponese – “urològgi”, li chiamava – e li offriva a prezzi stracciatissimi. Tutti, venditore e avventori, sapevano che erano patacche. Lucide e luccicanti, ma sempre patacche. Paluzzu, con gli “urològgi” diceva di guadagnarsi il pane e nessuno gli chiudeva la porta in faccia. Bazzicava i giornali, gli uffici della questura, gli assessorati comunali e soprattutto i bar dove si davano appuntamento boss e picciotti: il Bristol, il Baby Luna, il Rosanero. Con la banalissima scusa degli “urològgi”, vendeva anche qualche confidenza: rifilava ai poliziotti della Squadra Mobile quella pescata nelle bicchierate di Cosa Nostra; mentre quella pescata nel cortile della questura finiva nelle vie traverse e lupigne della malavita. Qualche scampolo arrivava anche ai giornali. Finì in galera il giorno in cui il barista del Baby Luna, un confidente vero, raccontò al maresciallo Castiglione, dell’Antidroga, che il borsone di Paluzzu u’ pirciato – “un borsone di vera similpelle” – non conteneva solo orologi. Ma anche dosi di eroina. Lo catturarono allo Sperone, a due passi della raffineria clandestina che il boss Vernengo aveva impiantato in una villetta affacciata sul mare. Non oppose resistenza e non pronunciò nemmeno la parola che gli faceva guadagnare il pane: “Urològgi”.
L’attrezzatura. Gerlando Alberti, detto “’U Paccaré”, che in italiano significa “l’indisturbabile” era un mafioso di alto rango cresciuto alla scuola di Pippo Calò, boss di Porta Nuova, la cosca più potente e più selvaggia della mafia palermitana. Faceva parte di un’allegra compagnia di Goodfellas che annoverava picciotti di pelo lungo come Salvatore Greco, Giuseppe Calderone, Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e Gaetano Fidanzati. A metà degli anni Settanta, quando i padrini avevano abbandonato l’edilizia per dedicarsi al traffico della droga, il giovane Gerlando fu beccato a San Nicola l’Arena, all’interno di una raffineria costruita tra i boschi e già pronta per macinare eroina. La polizia fece irruzione, trovò tutte le attrezzature necessarie per la raffinazione e arrestò oltre a ’U Paccaré anche il chimico che avrebbe dovuto avviare gli impianti. Ma dopo un’accurata e lunga perquisizione i ragazzi della Narcotici dovettero scrivere a verbale che dentro il capannone nascosto tra i boschi non fu trovato nemmeno un grammo di droga. Né grezza né raffinata: niente. Gerlando Alberti non si lasciò sfuggire l’occasione. E quando si trovò di fronte al sostituto procuratore Giustino Sciacchitano tirò fuori l’asso dalla manica. Un asso pacchiano, goffo, ruvido, volgare e soprattutto mafioso: “Signor giudice, lei la droga non la deve nominare perché a San Nicola la droga non c’era”. E quando il magistrato obiettò che c’era l’attrezzatura, ’U Paccaré simulò un sorrisetto viscido e beffardo: “Allora, caro giudice, mi deve imputare per stupro: non ho toccato nessuna ragazza, non ho a carico nessuna denuncia, però c’ho l’attrezzatura: la vuole vedere?”. Gesticolò e sghignazzò. E mentre la Penitenziaria lo riportava in una cella dell’Ucciardone imprecava compiaciuto: “Quelli della giustizia hanno inventato il reato di attrezzatura. Ma non sanno che l’unica attrezzatura ce l’hanno sulla testa. Sono le corna, le corna…”.
L’uomo quadrato. Gli agenti dell’Fbi lo avevano fotografato a Chicago, davanti a una lunga fila di Cadillac Fleetwood. Sapevano che si chiamava Frank Lo Bianco, che aveva 38 anni, che era un membro dell’associazione Sons of Italy, che vestiva quasi sempre in doppiopetto, che amava indossare cravatte fantasiose e un borsalino floscio con la striscia nera. Con un dispaccio riservato avevano avvertito il loro collega e fraternissimo amico, Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo: “Frank Lo Bianco è uno che si spaccia per attore ma il sospetto è che sia anche un corriere della droga. E’ appena partito da Chicago diretto in Sicilia: stay tuned”. State allerta.
Boris Giuliano, che era una vecchia volpe, lasciò gli uffici della Questura, girò per la Cattedrale, si fece una camminata a piedi lungo il Cassaro, arrivò ai Quattro Canti, svoltò per via Maqueda e si presentò e poco prima di arrivare al Teatro Massimo imboccò una traversina, via delle Sedie Volanti, e bussò all’ufficio del commendatore Carmelo Papale, patron dell’arena Trianon e gran reclutatore di attori, mezzetacche e generici utilité. L’avanspettacolo, che alla Trianon aveva vissuto la propria età dell’oro, faceva già odore di crisantemi: l’arena teneva uno spettacolo alla settimana e la soubrette che si vedeva pittata sui manifesti, Evelyn O’Brian, altro non era che un travestito di via Colonna Rotta, alla Zisa. Quando Giuliano entrò nel privé, il commendatore Papale stava lisciandosi con la mano quadrata i capelli tinti, color miele, che finivano sulla nuca con un taglio netto. Squadrato. “Allora, commissario, in che cosa posso servirla?”, chiese. E trasferì la mano quadrata dalla nuca al mento per meglio ostentare la sua docile attenzione. Il capo della Mobile tirò fuori la foto di Lo Bianco. Ma il commendatore quella foto la vide, la svide e non la volle rivedere mai più. Roteò gli occhi nelle orbite quadrate, li puntò sul commissario e cambiò tono di voce: un minuto prima era soffice e angelicato, un istante dopo era rasposo e spiritato. “Dottore Giuliano, lei mi tratta purtroppo come un confidente. La vede questa?”. E mostrò la chevalière madreperlata che portava al mignolo sinistro, ornato da un’unghia tagliata retta. Squadrata. “Questo anello me lo ha regalato il principe Antonio De Curtis, che lei ha visto al cinema nelle vesti del grande Totò. La Trianon lo ha ospitato in una tournée memorabile. Sette repliche e tutti in piedi ad applaudire”. Si ammutolì, pensoso, per due minuti. Poi si lisciò di nuovo i capelli quadrati e passò al colpo di teatro. “Se lei fosse venuto a trovarmi in quegli anni, avrebbe trovato alla Trianon pane per i suoi denti. L’arena era piena di eccellentissimi giudici e di rispettabilissimi uomini di panza. Seduti gli uni accanto agli altri. Vuole che le faccio qualche nome?”. E per non farlo, cominciò a ridere e a sorridere, mostrando due filiere di denti fatti a stampo: tutti bianchi, tutti quadrati.
Il silenzio dell’acqua. La sera che ammazzarono Nicola Manno, un mafioso di mezza tacca cresciuto all’ombra del boss Pippo Calò, pioveva a cielo aperto. Un diluvio. La pioggia batteva impietosa sul cadavere dilaniato dai ventitré pallettoni sparati da due fucili a canne mozze e trascinava il sangue lungo il pendio che da via Papireto declinava verso Monte di Pietà. L’unico testimone che poteva dare qualche ragguaglio era il gommista, Rosolino Abbagnato, che al momento del delitto, incartucciato dentro un giaccone di cerata, stava cambiando una ruota alla Cinquecento “truccata Abart” di Manno. “Quanti erano quelli che hanno sparato?”, gli chiese a bruciapelo il commissario Vasquez della Squadra Omicidi. “E io che ne so? Con la pioggia non vedevo niente”. “Lei conosceva il signor Manno sì o no? Era un suo amico?”. “Mi scusi, commissario, ma purtroppo mi debbo ripetere: con la pioggia non l’ho visto bene”. Il dottore Vasquez cominciava a innervosirsi: “Ma lei, signor Abbagnato, mi vuole fare credere che un cliente arriva qui e lei non lo guarda in faccia?”. “Commissario, parliamoci chiaro. Io mi faccio i fatti miei: penso alle gomme e basta. Di quelli che vengono qui non voglio sapere né morte né miracoli. Resto imperturbabile. A me l’acqua mi bagna e il vento mi asciuga”. Il dottore Vasquez girò i tacchi, aprì il paracqua e diede un po’ di riparo al medico legale Costantino Martorana d’Ippolito, impegnato nell’esame esterno del cadavere e già inzuppato d’acqua fino alle ossa.
Focu granni. Era il grido straziato delle madri, delle mogli e dei padri dei picciotti ammazzati sull’uscio di casa. Era un fuoco grande perché grande era il messaggio che avvampava dentro quella morte. E perché torvi e appuntiti erano i significati che l’alfabeto scellerato della mafia disegnava su quel cadavere, su quel sangue, su quelle lacrime. “Focu granni”, fu per una notte intera il grido di Giuseppina Mazzola, la madre di Paolino Riccobono, ucciso a 13 anni nelle campagne di Tommaso Natale. Il padre era un latitante irrequieto, serpigno, un cane senza padrone, un mulo senza testale. La mafia non lo sopportava e gli scrisse un pizzino per dirgli tutto ciò che gli doveva essere detto. Paolino, con quegli occhi di bambino sigillati dalla morte, era l’immagine “figée”, cadaverizzata di quel discorso senza parole.
Il re delle licenze. L’onorevole Francesco Cattanei, eccellentissimo presidente della Commissione parlamentare antimafia, sbarcò a Palermo con la certezza che avrebbe scoperchiato tutti i sepolcri e tutti i santuari di Cosa Nostra. Analizzando le delibere dell’assessorato municipale all’Edilizia – erano i tempi in cui spadroneggiava al Comune Vito Ciancimino – la Commissione aveva scoperto che oltre un migliaio di licenze risultavano intestate a una sola persona: Calogero Mancuso, meglio inteso come Lilluzzu u’ tabutaru; e da questi girate ad altri. Cattanei ordinò che il “pericoloso soggetto” fosse prelevato a casa sua e diligentemente accompagnato nel salone degli specchi, in prefettura, dove la Commissione si sarebbe riunita – così scrissero i giornali – “in un’atmosfera tesa ma da grande momento”. Lilluzzu entrò con gli occhi allallati. “Ma che vonnu?”, chiedeva al maresciallo che gli faceva, si fa per dire, da scorta. Aveva i calzoni affunati sotto la pancia, la cravatta allentata e le tasche stragonfie di carte. Cognome, nome, mestiere, gli chiese di botto il presidente. Per il nome e il cognome non ci furono problemi ma alla voce mestiere le cose si complicarono. “Mi industrio, eccellenza…”. “Ah, allora lei è un industriale?”, gli saltò addosso Cattanei sicuro di stringere finalmente nel suo pugno la testa del serpente e di spezzare il muro di omertà che avvolgeva il sacco edilizio di Palermo. Ma Lilluzzu non si perse d’animo. “No, eccellenza. Quando dico mi industrio intendo dire che mi arrangio, che mi do da fare: insomma, faccio cavigghiedde…”. I commissari siciliani capirono al volo: tirava a campare con lavoretti di poche lire, non meglio specificati; con le cavigghiedde, appunto. Ma per gli onorevoli commissari del Nord la spiegazione volle darla lui stesso. “Eccellenza, dico che mi guadagno il pane facendo lo spicciafaccende davanti all’assessorato dell’Edilizia, quello delle licenze. Quelli delle ditte vengono da me, mi lasciano i documenti e penso a tutto io”. I commissari non formularono altre domande. Ma Lilluzzu non si tenne la fava in bocca. “Eccellenza, in questo mondo c’è chi fa pirtusa e chi fa cavigghie”, chi fa buchi e chi ci mette una pezza sopra. Lui rattoppava. L’Antimafia di Cattanei finì lì.
Mezzamafia. In quell’infame pomeriggio d’inverno il professore Aristide Perriera e i suoi alunni stavano per essere inghiottiti dal gelo. Erano accatastati in un’aula, stretta e lunga, di via Impallomeni, a due passi dal Papireto. Ed erano subissati da tali e tanti spifferi che il professore se ne stava immobile, incaramellato nel suo impermeabilino blu; mentre i ragazzi – che già smoccolavano, come le candele del Bambinello – non aspettavano altro che mollare la scuola e tornarsene a casa. Causa freddo, naturalmente.
Ma a Palermo, si sa, non c’è danza senza contradanza. E quando tutto sembrava tranquillo e pacifico, ecco la tragedia. “Professore”, gridò all’improvviso Pinuzzo Muscarà, dodici anni, sguisciando dal suo banco in fondo a destra. “Io a questo cornuto l’ammazzo”. E indicava, viperigno, Agatino Alfano, due banchi più avanti. “Mi ha detto parole di mio padre e di mia madre, professore. Come faccio a non ammazzarlo? Come faccio…”, strillava, agitando la manuzza a pigna.
Agatino Alfano, che era già un coccio di tacca, un carbone ardente, bravissimo nell’attaccare torilla con i compagni di scuola, gli aveva semplicemente detto “figlio di buttana”. Ma Pinuzzo Muscarà non voleva che quell’oltraggio, rasposo e vetriolesco, sfiorasse l’immagine della mamma. E ci girò attorno, con un svolazzo omertoso, amorevole e complicato: “Mi ha detto parole di mio padre e di mia madre”. Sulla vendetta, no. Su quella era deciso, diretto e assatanato. “Lo debbo ammazzare, professore. Parola d’onore che io lo debbo ammazzare”. “Ma che sei pazzo? Intanto torna al tuo posto…”, urlò il professore, vestendosi d’imperio.
Aristide Perriera era in quella scuola da diciannove anni e conosceva a memoria l’intero sillabario della violenza: dalla prima all’ultima parola, dal primo all’ultimo gesto. Ma un furore come quello che sgorgava, a fiotti, dagli occhi e dalla gola di Pinuzzo Muscarà non l’aveva mai visto. “Pinuzzo lo sai che le persone non si ammazzano mai. Mai. Mi sono spiegato?”, disse lucidando al meglio quella che era la sua passione vicaria: insegnare ai ragazzi oltre che l’italiano, anche un po’ di antimafia. Quel po’ che si poteva, naturalmente. “Non è vero che non si ammazza nessuno, professore: i mafiosi le ammazzano le persone… li ammazzano i cornuti… Agatino è un cornuto e io l’ammazzo”, replicò implacabile Pinuzzu. “E tu che sei mafioso?”, controreplicò, incipollato di rabbia, il professore. “Io no, però, mio padre… è della mafia”. “Che dici? Tuo padre è della mafia? Rispondimi: è della mafia?”.
Il professore Perriera ormai lo inquisiva a squarciagola e brandiva le domande con la foga di un esorcista alle prese con l’indemoniato. Pinuzzo si sentì perso. Aveva già salvato la madre, ora voleva salvare il padre. “E’ della mafia?”, chiese ultimativo il professore. “Forse mio padre non è proprio della mafia…”, rispose Pinuzzo tenendosi sulla sospensiva. Poi fissò negli occhi il suo piccolo sinedrio, sputò dal dente e specificò: “Ma di mezzamafia c’è sicuro”. E, affilettato come un figurino, tornò dritto al suo posto.
Cinque dita. La trattoria di Ballarò dove si poteva mangiare una “cosuzza”, tanto per non esagerare, era l’Ingrasciata dei fratelli Indelicato, una trattoria a menu fisso: musso, caldume, cacagnolo e birra. Ma quella sera al tavolo centrale non c’era uno che voleva mangiare una “cosuzza”. C’era uno che si voleva abbuffare. Si chiamava Giannuzzo Pipitone, da tutti conosciuto nel quartiere come ” u’ immiruteddu di Ballarò”. Uno strano gobbetto – immiruteddu, appunto – che all’angolo di via Castro aveva aperto un chiosco simile a quello dei venditori di acqua e zammù: “Acqua, anice e fotografie in pose diverse”. Lui invece sull’insegna ci aveva scritto “Officio”. Stava lì tutti i santi giorni. Nei giorni pari raccoglieva le buste dei postulanti: richieste di certificati, istanze di sussidi, domande per case popolari e tessere per l’ente comunale di assistenza. Mentre nei giorni dispari girava per gli uffici del municipio a “sistemare le pratiche”, così diceva. Nel labirinto di Ballarò – tra sigarettai e venditori ambulanti, tra ricottari e muzzunara, che erano poi i miserabili, quelli che raccoglievano le cicche da terra – lo Stato era lui, solo lui: “u’ immiruteddu”. Un professionista del clientelismo comprato al dettaglio e venduto all’ingrosso, divenuto in pochi anni consigliere comunale del Partito popolare monarchico. “Della monarchia”, specificava con smisurato orgoglio. Un paio di settimane prima un cronista, uno del nostro giornale, aveva fotografato il chiosco e aveva intervistato alcuni suoi clienti, chiamiamoli così. Stando bene attento però a riportare le voci dei tragediatori, di quelli che prima erano andati a bussare alla sua porta e che dopo – perché delusi o perché invidiosi – non vedevano l’ora di armare una torilla e sputargli addosso un bel po’ di fango misto a veleno. U’ immiruteddu non aveva dimenticato. E nel momento in cui ci vide entrare nella trattoria pensò bene di bloccare piatti e camerieri, di alzarsi in piedi, di zittire i cinque amici che erano con lui e di passare direttamente dall’allegra conversazione al comizio. “Scusatemi, signori del giornale. Ma dopo tutto quello che avete scritto sul mio conto, devo dire forte e chiaro che siete come le cinque dita di una mano: ogni dito una verità. Se vi fa comodo il pollice scegliete il pollice, se vi fa comodo l’indice scegliete l’indice e se vi appatta di più il mignolo scegliete il mignolo: tanto sempre della mano parliamo. Poi però c’è la verità di Giannuzzo Pipitone che voi non potete capire: l’onestà”.
Si risistemò sulla sedia, con l’occhio felino e le gote rossicce, e ordinò un piatto di attuppateddi, lumachine di prima pioggia cucinate con aglio, prezzemolo e un filino di pomodoro. “A favorire”, disse alzando la voce di un semitono. E si portò il primo attuppateddu all’angolo sinistro della bocca.
Servizi riservati. Negli anni lupigni della mafia, il maresciallo Procopio Castiglione, in forza alla Squadra mobile, rischiò una vera e propria crisi coniugale. Per trentasette notti consecutive non si era ritirato a casa. “Ragioni di servizio”, spiegava alla moglie. E spiegando confidava che “il signor Capo” dava in quel tempo la caccia a Prospero Munafò, detto Asparino, picciotto di mezzamafia, da anni alla macchia, che il boss Saro Riccobono, capobastone di Partanna Mondello, utilizzava per gli omicidi più schifiati. Asparino era il malacarne addetto – burocraticamente addetto – alle vendette trasversali; all’uccisione cioè di quegli sventurati che con la mafia non c’entravano nulla ma venivano colpiti solo perché arrivasse un segnale a chi avrebbe dovuto capire e si ostinava invece a non capire. Delitti infami, insomma. Come quelli dei bambini, che nemmeno i killer di panza alta volevano eseguire: dicevano di averne il fegato, ma al momento di agire se ne vergognavano.
Dopo ogni tiro (si chiamava così, in quel giro, l’omicidio: forse per lenirne il rimorso; forse per riportarlo alla leggerezza sportiva del tiro al piccione o del tiro al volo) Asparino si concedeva in premio un’appanzicata di “salsiccia e birra”. Birra a volontà. Dopo la quale andava puntualmente a bottane. Una, due, anche tre. A volontà. Si infilava nel vicolo Gran Cancelliere e si perdeva nella “grouffe” del Cassaro. Per scovarlo – quando decisero di scovarlo – gli uomini del “signor Capo” tennero per trentasette notti sott’occhio le case socchiuse di cinque ragazze di vita, brune e pacchiottelle: ché a Prospero Munafò piacevano così, in carne. Fino a quando la “brillante operazione” fu portata a termine e prontamente consegnata al mattinale della questura e all’uso che di quel mattinale avrebbero fatto giornali e telegiornali. Elogi e gloria a volontà.
Sette anni dopo, il maresciallo Castiglione, ormai vicino alla sessantina, ha rischiato una seconda crisi coniugale. Per tre notti di fila non si è ritirato a casa. Era stato “comandato in servizio” per una “missione concordata superiormente con l’autorità giudiziaria”. E la cui riservatezza doveva essere tale che non se ne poteva fare confidenza nemmeno alla moglie. Coadiuvato da tre uomini che in passato avevano prestato servizio alla Buoncostume, il maresciallo Castiglione aveva ricevuto il preciso incarico di assecondare le “esigenze personali” di un collaboratore di giustizia che, alla vigilia di “un importante passaggio giudiziario contro un uomo politico accusato di collusione con la mafia”, aveva avanzato la “legittima richiesta di trascorrere in compagnia di una donna alcuni momenti di intimità”. Per tre notti gli uomini del maresciallo tennero nuovamente sott’occhio le porte socchiuse del vicolo Gran Cancelliere. Aspettando che il pentito Prospero Munafò, appagata la voglia di sesso e di baldoria, ritornasse a bordo dell’autocivetta di servizio, una alfetta trentatrè di colore nocciola munita di autoradio, per essere riconsegnato al Servizio protezione. I giornali non ne parlarono. Ma il signor Capo, il giorno dopo, non mancò di convocare il maresciallo Procopio Castiglione e di elogiarlo non solo per la “brillante operazione”, ma anche per “l’impenetrabile riservatezza con la quale aveva compiuto il suo dovere”. Lodi e onori a volontà.
Ci ricorderemo di quegli anni. E ricorderemo anche, con devozione, le notti bianche del maresciallo Procopio Castiglione al quale un ministro della Repubblica, su proposta del “signor Capo”, avrebbe forse dovuto consegnare in contemporanea almeno due onorificenze: una per avere catturato, tra i vicoli del Gran Cancelliere, un killer di mafia, spietato e libidinoso; e l’altra per avere obbedito, sette anni dopo, all’ordine di accompagnare quel killer negli stessi vicoli perché, da pentito, Munafò non poteva essere più considerato un malacarne ma un uomo prezioso per la lotta alla mafia.
Una parola in meno. L’onorevole Calogero Volpe, nato a Montedoro in provincia di Caltanissetta, non era un semplice medico chirurgo. E non era neppure un semplice deputato della Democrazia Cristiana. Era soprattutto un patriarca, con tutto il bello e il brutto che questa parola racchiude in sé. A metà degli anni Settanta eravamo tutti ad arrostirci in un padiglione della Fiera del Mediterraneo con i capoccioni della Dc siciliana delusi e ammartucati per la batosta ricevuta dai neofascisti di Giorgio Almirante. “Dobbiamo alzare la nostra guardia non più a sinistra ma a destra”, comiziava Nino Gullotti, illuminato segretario dello Scudo Crociato. Don Calogero gli prestava orecchio, ma non tanto. Aveva conquistato una sedia e se ne stava sulla soglia del portone di ingresso alla disperata ricerca di un soffio di vento che mitigasse quell’arsura che, nel luglio di Palermo, scioglie l’asfalto delle strade. “Scusi, don Calogero: ma lei interverrà nel dibattito?”, chiese un giornalista. Il patriarca si girò lentamente, si asciugò il sudore del collo, poi quello della fronte, e poi ancora quello del petto. “Cu’ ’nesci la testa dalla tana, pum pum”, sentenziò. Chi mette fuori la testa dalla tana non fa mai una buona fine: meglio una parola in meno che una parola in più.
Giochi di boss. Sulla “Vittore Carpaccio”, la motonave che li avrebbe accompagnati al confino, c’erano quella notte i boss più malandrini della mafia siciliana. Erano una ventina ed erano stati assolti per insufficienza di prove dal tribunale di Catanzaro, davanti al quale si era celebrato, per legittima suspicione, il famoso “Processo dei 114”. Lo Stato non voleva però arrendersi e ipso facto decise di caricare tutti quei bravi uomini sui cellulari, di spedirli a Porto Empedocle e da lì a Linosa, destinazione finale della straordinaria misura di polizia. Solo a sentire i loro nomi tremavano i polsi. Si cominciava da Angelo Barbera, il mancato ingegnere che voleva trasformare Palermo in una nuova Chicago, tutta sangue, dollari e mitra; e si finiva con Rosario Mancino, il boss del mercato del pesce; si ricominciava da Diego Plaja, che tornava sconfitto dagli Stati Uniti, ormai nelle mani di Joe Bonanno, e si finiva a Pietro Torretta, boss delle aree edificabili di Uditore e Cruillas. C’erano i capi della mafia trapanese, Mariano Licari e Salvatore Zizzo. C’erano i palermitani all’antica, Serafino Di Peri e Rosario Di Maggio. E c’era anche una fazzolettata di killer: Calogero Migliore, Vincenzo Sorce, Giuseppe Sirchia, Francesco Gambino. Il direttore de L’Ora, Vittorio Nisticò, non ci pensò due volte a catapultarmi lì, nella fossa dei leoni. “Hai capito quale sarà il titolo? Sarà questo: Mafioso, piangi alla mia spalla. Devi parlare con loro. Perché ciascuno di loro ti dirà di essere innocente e tu scriverai tutte le loro cazzate, una dietro l’altra. Senza reticenze né omissioni. Tutto chiaro?”. Avevo capito. Ma non fu facile. Quando la “Vittore Carpaccio” lasciò Porto Empedocle e cominciò a mulinare sul mare del Canale di Sicilia, mi ritrovai su una panca di legno con otto boss dietro e quattro davanti: tutti ammanettati e guardati a vista dai carabinieri; tutti con le facce impietrite dal sonno e dal gelo di tramontana. Tutte facce che conoscevo a memoria. La foto segnaletica di Mariano Licari, patriarca di Marsala e terre limitrofe, l’avevamo pubblicata almeno una decina di volte, e non era difficile, nella notte della traversata, incollare il ricordo della foto sulla faccia di quel vecchio che se ne stava allumacato in un plaid color verdastro nel disperato tentativo di sconfiggere, oltre al sonno e al freddo, anche i conati di vomito. Accanto a don Mariano c’era il terribilissimo Rosario Mancino, con la panza grande grande avvolta prima da un impermeabilone color sabbia poi da uno scialle girato sul petto a doppia mandata. Ma lo stomaco di don Rosario doveva essere di ferro perché non accettava sofferenza alcuna: né quella che poteva venirgli dal freddo né quella che poteva venirgli dall’annacamento della nave, causa prima per tutti noi della nausea e delle budella ridotte a poltiglia. Anzi. Quando sembrava che tutti, da don Mariano Licari ad Angelo La Barbera, stessero per cedere al sonno e allo sfinimento, ecco la voce catarrosa di Mancino levarsi verso l’alto per ricadere come una lama sulla mia testa. Formalmente don Rosario, che stava tre panche dietro di me, poneva una domanda, volgaruccia ma innocente. Solo che prima di lanciarla sentiva il bisogno di attirare l’attenzione del destinatario, Francesco Gambino, che stava due panche davanti a me. “Ciccio…”, chiamava. Con una voce arcuata che mi passava sopra la testa. “Qua sono…”, rispondeva Gambino. Con una voce intabarrata da un fasciacollo rosso ruggine. La chiamata era un trucco. Finalizzato a un solo obiettivo: attirare la mia attenzione. Appena mi giravo, infatti, don Rosario calava l’asso del bastone. Il bastone del tormento. Alzava le mani, con i polsi incrociati e ammanettati, drizzava l’indice della mano destra, lo puntava verso di me e puntualmente chiedeva a Gambino: “Ciccio, ma chistu cu’ cazzu è…?”. Un supplizio. Perché di quella domanda sentivo il sibilo rovente della perfidia. Il baluginio di una arroganza che faceva leva sulla paura per meglio segnare la mia pelle, fino allo sfregio. E più io cercavo di raggomitolarmi nella panca di legno, per farmi invisibile, più don Rosario ci prendeva gusto. E allo scadere di ogni ora ripeteva il refrain della chiamata, delle mani ammanettate e sollevate fino al petto, dell’indice girato verso di me e dell’implacabile domanda: “Ma chistu cu’ cazzu è”. Alla quale non seguiva ovviamente risposta. Il silenzio di Gambino era il pretesto per martellare, allo scadere dell’ora, sullo stesso chiodo. Per accarezzarmi, con una passata di pelo e contropelo, con la delicata ferocia di un rasoio. Era un gioco, certo. Un gioco di mafia.
Nostro Signore. Don Mariano Licari, assolto per insufficienza di prove a Catanzaro ma spedito immediatamente al confino di Linosa con gli altri boss, non trovava gli occhiali e chiese all’avvocato Bonocore, sempre gentiluomo e sempre disponibile, di leggergli ad alta voce la “carta precettiva di permanenza” nell’isola delle Pelagie. Quando realizzò che non avrebbe potuto nemmeno partecipare a una processione religiosa, cominciò a battersi il petto chiedendo a Dio “perdono per tutti i cornuti che ci allontanano anche da Nostro Signore”.
Vita e morte. Detta così potrebbe apparire una innocente pillola di saggezza. La usava spesso, con chi non mostrava segni di obbedienza, il boss Stefano Bontade, detto “il Principino”. “Nella vita tutto si aggiusta”, diceva. E dopo una pausa – che in realtà serviva per meglio legare le due parti di un unico discorso – aggiungeva conclusivo: “Solo alla morte non c’è riparo”. E agli ostinati già tremavano i polsi.
Masculi. Quando stramazzò sul marciapiede, colpito a morte da due colpi di fucile caricato a pallettoni, Giacomo Ammirata, 62 anni, stringeva in pugno una manciata di luppini, conditi in un brodo stretto di aglio e prezzemolo, simbolo di amore e fecondità. Un segno del cielo, avrebbero scritto il giorno dopo i giornali. Perché Giacomo Ammirata, assassinato il 12 settembre in via Torremuzza tra le luminarie di Santa Rosalia, la fecondità se la portava addosso, venerata ed esibita come un ex voto. Contava diciotto figli e alla Kalsa lo chiamavano “u masculiddu”, il maschietto. Il diminutivo non era stato scelto a caso: nel chiacchiericcio del quartiere serviva per ammiccare a un sottinteso medagliere di tradimenti e voluttà.
Giacomo Ammirata, però, altro non era che un dannato della carne. O delle corna. Era infatti così avventato e così vastaso che se proprio non aveva carne, pretendeva comunque un brodino; ma un giorno a bocca asciutta non sapeva proprio starci.
Era andato a cercarsi un guaio persino con l’ex moglie di don Paolino Spadaro, boss del contrabbando. Glielo aveva fatto sapere tante volte, don Paolino, che quello era pascolo abusivo. E che una separazione è roba di certificati, senza i quali nessuno può sciogliere il vincolo eterno di un matrimonio. Ma “u masculiddu” era proprio sordo: non sentiva e non voleva sentire. Fino a quando don Paolino non ci vide più dagli occhi. “Quel cornuto”, sentenziò pubblicamente, “vuole fare di me un cornuto: bella questa, o no?”. E lasciò ai picciotti ogni conclusione. Era il giorno di Ferragosto.
Un mese dopo, in via Torremuzza, davanti al cadavere di Giacomo Ammirata, chi sapeva di quel precedente? Certamente non ne sapeva nulla il dottore Giacinto Martorana d’Ippolito, medico legale, che in attesa del magistrato di turno, aveva finalmente trovato uno sgabello a tre piedi sul quale sedersi e restarsene finalmente muto e sonnecchioso. Non ne sapeva nulla il commissario Tonino De Luca, della “omicidi”. E non ne sapevano nulla nemmeno i diciassette figli, interrogati dal maresciallo della Squadra Mobile, Egidio Coppolino. “Mio padre, dei suoi problemi, parlava solo con Totuccio”, rispondevano uno dopo l’altro. Non restava, appunto, che ascoltare Totuccio, 37 anni, il fratello più grande, contrabbandiere di piazza Ingastone.
“Hai un’idea di chi ha ucciso tuo padre?” – gli chiede a bruciapelo maresciallo Coppolino, dopo averlo preso doverosamente a disparte e doverosamente inchiodato, con un colpo secco, nel sedile posteriore di una Giulietta nevrastenicamente tenuta con i lampeggianti accesi. “Commissario, lei mi vuole provocare: se io sapessi chi è quel figlio di buttana che ha fatto questo regalo a mio padre, pensa che verrei a dirlo alla polizia?”. “E perché no?”. “Perché a quel cornuto lo avrei già ammazzato io. Con queste mani, commissario”. E così dicendo, quasi si sdirupò sul marciapiede per meglio piangere sul cadavere del padre. Lacrime di un masculu.
Stu carusu babbìa. Muoveva quella pagina piegata in otto come se fosse un ventaglio. Il ventaglio del disonore. Perché un giornale dove si azzardava già la prima puntata di un’inchiesta sulle esattorie, lui – Nino Salvo, in persona – non poteva digerirlo: gli procurava un’acidità di bile e di pensiero. Ed era venuto a protestare. Agitava quel foglio con andamento lento, in battere e levare, per meglio sottolineare la nefandezza del titolo, dell’articolo e di “ogni parola ivi contenuta, fino all’ultima virgola”. “Stu carusu babbìa”, disse al direttore. E fece in modo che quelle sette sillabe si adagiassero sul pentagramma del suo dire mafioso con una modulazione che lentamente abbandonava i toni del risentimento per assumere quelli dell’avvertimento.
“Stu carusu babbìa”. Significava, alla lettera, che quel ragazzo lì aveva voglia di scherzare. Ma quando l’accento si è posato – e gravemente – sul verbo babbìare, il discorso ha assunto di colpo la tonalità della minaccia. Significava che se il ragazzo avesse continuato a giocare col fuoco, la musica sarebbe potuta anche finire. All’improvviso. Di colpo. O con un colpo solo.
“Stu carusu babbìa”, ripetè altre due o tre volte Nino Salvo, con solfeggio sempre più largo, quasi pucciniano. E quando Vittorio Nisticò, il direttore de L’Ora, gli rispose che l’autore dell’articolo non era affatto un ragazzo, “ma una persona seria, matura e responsabile”, il boss delle esattorie invertì immediatamente l’arpeggio mafioso e dall’avvertimento tornò alle note basse del risentimento. “Siccome nell’articolo c’erano scritte minchiate, cose prese a muzzo come i cavoli a mazzo, avevo pensato che si trattasse di un ragazzo. E lei lo sa che i ragazzi hanno sempre voglia di babbìare”, disse sfiorando il lamento. “Ma se è una persona seria… Una persona seria perché dovrebbe babbìare?”.
E sulla pausa di quel punto interrogativo, riprese ad agitare il foglio sudaticcio. Due a battere e due a levare.
Lo sbirro marcio. Il poliziotto Totuccio Cinquegrani – un poliziotto pistarolo – era l’incarnazione del mondo di mezzo. Originario dell’Acquasanta, faceva parte della Buoncostume ma non conosceva solo bottane e magnacci. Frequentava anche un boss di un certo calibro come quel Tano Galatolo, boss dei Cantieri navali, che fu sorpreso dai killer corleonesi mandati da Totò Riina, mentre cibava amorevolmente il suo cardellino. “Lo conosco da quando ero un piscialletto”, teneva a sottolineare Cinquegrani che, con morbida insistenza, amava frequentare giornali e giornalisti. Ogni tanto ci soffiava una notizia che in realtà era sempre mezza notizia. E se gli lampiavi una domanda ti dava sempre una mezza risposta: “Mi informo e ti farò sapere”. Non stava né di qua né di là. Si guappariava di avere confidenti – “addentellati”, li chiamava – in tutti i quartieri e in ogni taverna di vita e malavita. Ma se voleva farti capire che non era uno sbirro qualunque, raccontava di avere giocato a poker con Stefano Bontade quando nessuno ancora sapeva che “il Principino” era il capomafia di Santa Maria di Gesù e che il suo impero si estendeva fino a Falsomiele e Villagrazia. “E lo hai più visto?”, chiedevamo noi giornalisti. “Ogni tanto. Ma ci diciamo solo buongiorno e buonasera. Al massimo un caffè al Baby Luna e via”.
Nei giorni frastornati del sequestro De Mauro, quando al giornale eravamo tutti col groppo in gola, ci suggeriva piste e contro piste. Si era affezionato a quella del golpe Borghese e voleva farci credere che De Mauro fosse finito nella trappola limacciosa dei suoi ex camerati. Ma a noi quella cosaccia lì non ci convinceva: troppo vaporosa. Per noi, dietro il sequestro, c’era una sporca trama mafiosa. Un pomeriggio chiamò. Ma con la telefonata chiedeva per metà un’informazione: “Avete saputo di un cadavere che galleggia tra gli scogli di Sant’Erasmo?”. Per l’altra metà ci spingeva – e Dio solo sa con quanta forza – in una strada obbligata: quale cronista avrebbe potuto restare impassibile di fronte a una segnalazione come quella? Infatti saettammo come lucertole impazzite e dopo cinque minuti ci ritrovammo tra le discariche di Sant’Erasmo a cercare, tra scogli e monnezza, un cadavere galleggiante. Con me c’era Nicola Scafidi, il fotografo, con la sua Reflex e l’impermeabilino a tre quarti. Avevamo il cuore nero. Pensavamo a De Mauro: e se c’era lui lì, a sfarinarsi nell’acqua? Invece non c’era nessuno. C’erano solo due cani, bastardi e spelacchiati, incaprettati col fil di ferro, alla carcassa di una lavatrice. Latravano per non morire. Avevano già le pupille striate dal sangue, le coroncine degli occhi perfilate di blu, lo sguardo strabuzzato dallo spasimo. L’istinto era di soccorrerli. Ma gli occhi, i nostri occhi, furono di colpo distratti e rapiti dall’arrivo di due picciotti che, nonostante il freddo, avanzavano spocchiosi e ciondolanti. Tenevano il bavero dei giacconi alzato fino alle labbra – labbra annebbiolate dal respiro – e le mani insaccate nelle tasche che si perdevano tra la giacca e i pantaloni.
Venivano verso di noi. “Compà, ci siamo… stavolta ci siamo”, sibilò Nicolino battendo i denti. Credeva di annunciare la nostra sventura. Ma non ce ne fu bisogno. I due picciotti si avvicinarono ai cani. Li sputacchiarono e poi li finirono con pedate secche tra il collo e il cranio, lì dove il fil di ferro aveva già ulcerato pelo e pelle. Il segnale che erano già morti fu quella linea di bava che si affacciò e lentamente si adagiò sui loro musi sghembi e smorfiati.
Noi morivamo nell’attesa di sapere quale sarebbe stata la nostra sorte. Dopo i cani avrebbero ammazzato pure noi? Ci avrebbero ammazzato a pedate o avrebbero tirato fuori, da quelle tasche nascoste tra giacca e pantaloni, un coltello a serramanico o una pistola con la matricola abrasa della quale noi cronisti di nera avevamo scritto tante e infinite volte? Ci ammazzarono con due parole. Due paroline di avvertimento: “Così muoiono i cani che scrivono infamità”. Chiudemmo gli occhi per non vedere in faccia la morte che ci sembrava così vicina. Ma loro, i picciotti, sparirono dietro due montagnole di copertoni divorate a fuoco lento da un incendio invisibile.