Cosa resta di serio della visita di Trump in medio oriente. Appunti sull’Iran

L’accordo sul nucleare iraniano (che però resta vago) e gli accordi con i paesi del Golfo: ecco la nuova strategia di Washington. Il presidente americano rilancia l’asse con Riad, ma Israele resta ai margini e affronta da sola la minaccia Houthi

Tel Aviv. Con l’ultimo incontro ad Abu Dhabi si è conclusa la visita del presidente americano in medio oriente. Il viaggio ha mostrato quali sono le priorità di Donald Trump nell’area: “Garantire un’alleanza di tipo sia economico sia diplomatico con i paesi più influenti della regione, per consolidare un asse Washinton-Riad e limitare lo strapotere di altri attori”, commenta al Foglio Shmuel Rosner, tra i maggiori esperti nei rapporti Stati Uniti-Israele, analista presso lo Jewish People Policy Institute. “Non si tratta di una novità – continua Rosner – Dal secolo scorso il medio oriente è stato per gli Stati Uniti il campo di battaglia privilegiato per mantenere un equilibrio tra le forze internazionali”.

“Un tempo erano i paesi leader dell’Europa, poi l’Unione sovietica, e oggi la Cina. Trump è venuto qui per fare, prima di tutto, gli interessi del suo paese, per quanto alcuni dei risultati ottenuti potrebbero avere, nel lungo periodo, conseguenze positive anche per Israele”. Che però, dopo 590 giorni di guerra, almeno in questo momento si sente abbandonata da Washington. Eppure, lo stesso presidente ha cercato di tranquillizzare sia gli israeliani sia il premier Benjamin Netanyahu, confermando che l’accordo sul nucleare iraniano farà anche gli interessi di Tel Aviv.



“Il problema principale – aggiunge Helit Barel, ex funzionaria del Consiglio di sicurezza nazionale israeliano, esperta di relazioni Stati Uniti-Israele – è che, ora come ora, non sono stati ancora annunciati i dettagli di questo accordo, che potrebbe, di fatto, non risultare poi così dissimile da quello che era stato siglato dall’Amministrazione Obama”. Come spiega Barel, il Jcpoa – Joint Comprehensive Plan of Action, firmato nel 2015 tra l’Iran e il cosiddetto P5+1 (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina + Germania), prevedeva già limitazioni nei confronti dell’utilizzo dell’uranio, e un regime di ispezioni da parte dell’Aiea (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) al fine di garantire il rispetto degli impegni da parte della Repubblica islamica, in cambio di un’eliminazione progressiva di molte sanzioni economiche, specie da parte di Onu, Ue e Stati Uniti. Tuttavia, fino a oggi, queste ispezioni non si sono sempre svolte in modo rigoroso. Cosa che, già nel 2018, aveva spinto Trump, nel corso del suo primo mandato, a ritirarsi unilateralmente dall’accordo, reintroducendo dure sanzioni contro l’Iran che, da allora, ha continuato a violare, progressivamente, i limiti imposti, appoggiandosi principalmente all’alleanza con Cina e Russia, e lasciando l’economia iraniana sotto i colpi di una fortissima pressione internazionale.



Secondo l’analista, nonostante i successivi tentativi di rilanciare il Jcpoa sotto l’Amministrazione Biden abbiano ottenuto fino a oggi solo risultati limitati, la complessa situazione economica e diplomatica in cui si trova l’Iran ora potrebbe spingere Teheran ad accettare dei nuovi criteri imposti da Washington, portando alcuni benefici anche a Israele, primo paese a rischio, per via della sua prossimità geografica. “Resta il fatto che, almeno per ora, siamo rimasti fuori dai giochi. Non solo riguardo l’accordo sul nucleare ma anche riguardo alla normalizzazione dei rapporti diplomatici nell’area del Golfo, che per ora comprende solo accordi tra Stati Uniti e Arabia Saudita e con gli Houthi dello Yemen, che continuano a colpirci quotidianamente con missili balistici. Israele è stata esplicitamente esclusa dal tavolo dei negoziati, non ci sono dubbi. Ma questo viaggio – continua Barel – è stato fondamentale per mostrare come a Trump interessi consolidare un rapporto di fiducia tra i leader del Golfo e gli Stati Uniti. Questo potrebbe avere effetti benefici anche per noi”.



“E non dimentichiamoci – conclude Rosner – di come, storicamente, gli Stati Uniti abbiano sempre tenuto un piede in due scarpe, proprio per aver maggior possibilità di manovra a nostro sostegno. Se nel secondo dopoguerra non avessero mantenuto stretti rapporti diplomatici con il Cairo, nel 1979 Begin e Sadat non sarebbero giunti a firmare il trattato di pace tra Israele ed Egitto. Oggi si tratta di fare i conti con il Qatar, se questo è il prezzo da pagare per garantire, su amplia scala, la sicurezza dell’intera regione”.

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