Odiavano la violenza, ma hanno combattuto per estirpare il germe della sopraffazione. Camus, Weil e gli europei di oggi
Quando avremo speso gli 800 miliardi del piano di riarmo europeo, e ogni paese dell’Unione avrà rinnovato il proprio esercito con carri armati, aerei, droni, missili, radar, navi, portaerei, elicotteri, una questione decisiva rimarrà ancora irrisolta, la questione probabilmente più importante, quella che nessun governo potrà decidere dal centro del suo potere, con i soldi, la pianificazione, la forza delle norme, la più terrificante: chi imbraccerà le armi che compreremo, se sarà necessario? E in nome di cosa? Con quale spirito?
Sono necessari 800 miliardi per potenziare la difesa europea. Ma chi imbraccerà le armi che compreremo? In nome di cosa? E con quale spirito?
In un libro che sta facendo discutere la Germania, un giovane giornalista e scrittore di nome Ole Nymoen, 27 anni, ha il merito di nominare chiaramente il problema, nel paese che è il cuore dell’Europa e del riarmo continentale, a differenza di molti pacifisti italiani che girano intorno al punto, usando un sofisma dietro l’altro: l’esercito europeo, i fondi di coesione, la spesa sanitaria. Lui almeno proclama apertamente che no, per nessuna ragione al mondo metterebbe a repentaglio la sua vita per proteggere la nazione in cui è nato e cresciuto. Warum ich niemals für mein Land kämpfen würde (Perché non combatterei mai per difendere il mio paese) è il titolo del libro: un’invettiva contro la classe dirigente tedesca, colpevole di aver avviato una torsione miltarista dello stato, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, arrivando ad infrangere il tabù che aveva retto dalla fine del regime nazista in poi: mai più armi per la guerra.
Oly Nymoen, giornalista di 27 anni, scrive che per nessuna ragione metterebbe a repentaglio la sua vita per proteggere la nazione in cui è nato
Mi sono chiesto: e io combatterei per difendere il mio paese? E’ inevitabile quando si scopre che la posizione dell’autore non è affatto isolata. Al contrario, solo il 19 per cento dei tedeschi tra i 18 e i 29 anni dichiara che sarebbe pronto a difendere la Repubblica federale. Secondo un altro sondaggio, il numero sarebbe ancora più basso: il 5 per cento. In entrambi i casi, è chiaro che non importa quante armi potremo comprare, se niente di ciò che regge i nostri paesi pacifici e abbienti è ritenuto abbastanza degno da essere difeso. Se la Germania venisse occupata da un paese straniero, scrive Nymoen, “preferirei cercare di scappare che essere costretto a uccidere”.
Anche se l’invasione venisse da una potenza illiberale che cancellerebbe la sua libertà e quella degli altri? “Lo dico in tutta franchezza: il diritto di esprimere la mia opinione non vale certo la mia vita”. L’autore riconosce la differenza tra un paese democratico e uno autoritario, “ma non sono disposto a morire per questa differenza. Perché in caso di guerra la conseguenza sarebbe la stessa: molto probabilmente perderei la vita”. Meglio vivere o essere liberi? L’esistenza o la dignità? L’incolumità o la giustizia? Sono domande a cui nessuno di noi che viviamo in Europa può dare oggi una risposta che non sia astratta, teorica. La verità è che bisognerebbe trovarsi faccia a faccia con il pericolo di venir privato della libertà, della dignità e della giustizia, per scoprire se si è disposti a combattere per difenderle. Bisognerebbe trovarsi di fronte al pericolo della morte, a tu per tu con il terrore, per capire che decisione prenderemmo. Fino ad allora, si può tentare di immedesimarsi nelle vite di alcuni di coloro che di fronte a questa scelta ci si sono trovati nel passato prossimo e hanno scelto cosa fare, raccontando la propria scelta agli altri.
Per esempio, Albert Camus. Aveva ventotto anni, un anno in più di Ole Nymoen, quando nel 1943 decise di combattere contro le truppe naziste che avevano invaso il suo paese, la Francia, due anni prima. La guerra aveva già procurato molto dolore alla sua vita. Suo padre era morto durante la Prima guerra mondiale, quando lui non aveva neanche un anno. Premio Nobel per la letteratura nel 1957, negli anni di lotta all’occupazione nazista maturò alcune delle idee centrali della sua vita, molte delle quali composero la trama del suo saggio L’uomo in rivolta. Le scrive in quattro lettere destinate a un amico tedesco, un amico che s’immagina stesse dall’altra parte della barricata, ovvero nell’esercito di Adolf Hitler. Argomenta che c’è un’enorme differenza tra i due schieramenti, tra lui che resiste all’invasione e l’amico che dall’altra parte la conduce, tra “noi” e “voi”, dal momento che i nazisti si sono preparati lungamente alla guerra, l’hanno desiderata e scatenata per conquistare la loro supremazia sull’Europa e ora la conducono come se fosse l’attività più naturale del mondo.
Albert Camus aveva un anno in più di Nymoen quando decise di combattere contro le truppe naziste che avevano invaso il suo paese
Per Camus e i suoi compagni, invece, la guerra è stata oggetto di una tormentata battaglia interiore, una necessità durissima da accettare. “Abbiamo dovuto superare il nostro gusto per l’umanità – scrive – l’immagine che avevamo di un destino pacifico, questa profonda convinzione che nessuna vittoria paga, mentre ogni mutilazione dell’uomo è senza ritorno. Abbiamo dovuto rinunciare sia alla nostra conoscenza sia alla nostra speranza, alle ragioni che ci spingevano ad amare e all’odio che alimenta ogni guerra”. In questo c’è la differenza più grande con l’amico tedesco. “E’ cosa da poco saper correre al fuoco quando vi si è preparati da sempre e quando il correre è più naturale del pensare. E’ molto, invece, avanzare verso la tortura e la morte, quando si sa con certezza che l’odio e la violenza sono cose vane per sé stesse”. E ancora, il passaggio decisivo: “E’ molto battersi disprezzando la guerra, accettare di perdere tutto conservando il gusto della felicità, correre verso la distruzione con l’idea di una civiltà superiore”.
Dal punto di vista di Ole Nymoen, e di molti altri pacifisti italiani ed europei, la guerra è sempre e solo un’imposizione che viene dall’alto, dal potere dello stato: non può essere una scelta che nasce da dentro, dalla coscienza di un individuo che si rivolta contro l’arroganza di chi vuole imporre la legge del più forte. Sta di fatto che quando queste lettere vengono pubblicate in Italia, il primo dei paesi in cui escono tradotte – in un volume dal titolo Lettere a un amico tedesco – Camus scrive una prefazione in cui avverte il lettore che quando nel testo leggerà “voi” non dovrà intenderlo come “voi tedeschi”, bensì come “voi nazisti”. E quando leggerà “noi”, non deve intenderlo come “noi francesi”, ma come “noi europei liberi”. Sono le due patrie per cui Camus ha combattuto: la Francia e l’Europa libera. A entrambe, Camus dichiara il suo amore. Non un amore cieco e incondizionato, come quello dei nazisti. “Amo troppo il mio paese per essere nazionalista” scrive. Il suo è un amore che esige dal proprio oggetto alcune virtù. “Se a volte sembra che preferiamo la giustizia alla patria – scrive – è perché non abbiamo voluto amare la patria se non nella giustizia, come abbiamo voluto amarla nella verità e nella speranza”.
A un certo punto della sua vita Simone Weil, scrittrice e pensatrice enorme del Novecento europeo, aveva smesso di credere a questa possibilità. A differenza del giovane scrittore tedesco che non combatterebbe mai per il proprio paese, lei – a ventisette anni – si era precipitata in Spagna per difendere il paese altrui dal fascismo, arruolandosi volontaria nella formazione anarchica Durruti, che combatteva i franchisti nella guerra civile spagnola. Ustionata gravemente alla gamba dall’olio bollente usato per cucinare nel campo, venne rispedita in Francia dai suoi compagni, contro la sua volontà. Desiderò per molto tempo tornare al fronte, ma lentamente la sua idea sulla guerra cambiò. “Compagni, fatevi una domanda: c’è forse una guerra che possa portare nel mondo più giustizia, più libertà, più benessere?”. Ciò che le aveva fatto mutare punto di vista fu la consapevolezza che la guerra di Spagna era diventata una guerra tra stati: la Russia, la Germania, l’Italia. In più c’erano le notizie che le giungevano dal fronte e le confermavano l’idea che le necessità belliche fanno dimenticare presto lo scopo iniziale della battaglia, costringendo chi le combatte a trascurare il desiderio di giustizia, di libertà e di umanità che ha fatto intraprendere quella stessa guerra. “Le necessità prevalgono sulle aspirazioni che si vorrebbero difendere per mezzo della guerra civile”. Ragione per cui era arrivata ad auspicare che si ponesse fine alla guerra a qualunque costo. “La sconfitta non è una catastrofe peggiore di una guerra vinta” scrive in una lettera. E poi arriva a formulare un pensiero scandaloso, addirittura una dottrina della resa preventiva: “Cosa ci impedirebbe, ogni volta che un conflitto diplomatico effettivo o latente minaccia di trasformarsi in guerra, di concedere all’avversario gli obiettivi confessati o segreti, simbolici o reali che si propone di raggiungere con una vittoria militare?”. Difficilmente, pensa Simone Weil, le concessioni potrebbero “arrivare a costare quanto una guerra”. Ma si sbagliava.
Nella storia dell’Europa arrivò qualcosa che le fece abbandonare il suo pacifismo radicale, un pacifismo i cui echi si sentono anche nella posizione di Ole Nymoen e di altri protagonisti anti riarmo europeo contemporaneo. No, non fu il Patto di Monaco, l’appeasement con Adolf Hitler e la Germania nazista. Anzi, Simone Weil accolse con sollievo la notizia che la diplomazia era riuscita a rallentare lo scoppio della guerra. Ma, quando sei mesi dopo, la Germania violò l’impegno di garantire l’indipendenza della Cecoslovacchia e le truppe tedesche entrarono a Praga, anche Simone Weil – come molti – dovette prendere atto che il pacifismo non aveva prodotto i risultati sperati. Sconvolta dalla notizia che una rivolta studentesca a Praga era stata repressa nel sangue dai tedeschi, elaborò un progetto di lancio di truppe e armi in Cecoslovacchia, credendo che si potesse sollevare la popolazione contro i tedeschi e soccorrere le persone imprigionate. Espose il suo piano a diverse personalità con la clausola che, se lo si fosse realizzato, anche lei avrebbe partecipato all’azione. Giurando a sé stessa che, se l’avessero realizzato senza di lei, si sarebbe gettata sotto un autobus.
Fu sconvolta dalla decisione di suo fratello, André, un matematico, di rifugiarsi con la famiglia in Finlandia per evitare la guerra che anche lui ormai considerava imminente nel suo paese, la Francia. André pensava che il dovere fosse un imperativo individuale e che il suo dovere fosse la matematica, non la guerra. Simone si considerò responsabile della decisione, credendo fosse stata lei a ispirargliela con il pacifismo estremo che aveva sostenuto negli anni precedenti. Colta dal rimorso gli scrisse più volte nell’autunno del 1939, alla vigilia dell’invasione tedesca, ma senza successo.
Simone Weil fu costretta a prendere atto, come Camus, che in alcune circostanze la guerra è un obbligo. Non imposto dall’autorità dello stato, ma dalla propria coscienza. Combattere la guerra, odiando la guerra. Paradosso tragico che impone di stabilire una differenza radicale dal proprio nemico. Non basta difendere un regime meno oppressivo dei regimi totalitari per essere nel giusto, dice Weil: “Bisogna essere immersi in un ambiente dove tutta l’attività sia orientata, in maniera effettiva, in un senso contrario alla tirannia”. Secondo Simone Weil, è l’idea stessa di grandezza della cultura occidentale a contenere il germe della distruttività e ad alimentare la guerra e la sopraffazione. Dal suo punto di vista, la guerra contro il nazismo avrebbe dovuto anche estirpare una certa concezione della forza ed edificare un altro modo di stare al mondo. “La brutalità, la violenza, l’inumanità hanno un prestigio immenso”, scrive. Ma per sconfiggere il nemico che le esercita occorre prima creare e poi incarnare delle virtù contrarie. “Chi è solo capace di non essere brutale, violento e inumano come il suo avversario, senza esercitare virtù contrarie, è inferiore a lui sia in forza interiore sia in prestigio, e non sarà in grado di resistergli”.
Per Simone Weil la guerra fu un obbligo. Pensava che combattere il nazismo significasse anche costruire un nuovo modo di stare al mondo
Sono necessari 800 miliardi di euro per potenziare la difesa e la sicurezza europea e costituire una credibile forza di deterrenza. Ma non bastano per dialogare con una generazione come quella di Ole Nymoen, in un continente che vive in pace da ottant’anni e si ribella all’idea che la pace possa essere minacciata anche dall’esterno, mentre nel Novecento è stata distrutta dall’interno, nella lunga guerra civile che è costata due guerre mondiali. Per cosa combattere? Con quale misura? Con quale idea di vittoria? Nessun continente al mondo più dell’Europa ha elaborato, accanto alla guerra più spietata, un’altra idea di guerra: una guerra anti-eroica, una guerra che si fa odiando la guerra e, mentre combatte il nemico, continua a credere nella sua umanità. Come Camus con il suo amico tedesco. E senza esaltare la forza. Come Simone Weil. Anche a questo, se non soprattutto a questo, bisognerebbe prepararsi, mentre il piano della commissione europea invita a essere pronti per il 2030.