Il negoziato impossibile fra India e Pakistan

Minacce incrociate, blackout e propaganda. Islamabad prima dice di voler trattare, poi fa intendere di voler attaccare. Il rischio escalation

Da quando martedì sera l’India ha lanciato l’Operazione Sindoor contro il Pakistan come ritorsione per l’attacco terroristico del 22 aprile nella regione del Kashmir amministrata dall’India, Delhi e Islamabad si accusano a vicenda, le dichiarazioni e le notizie sono confuse e spesso contraddittorie, si alternano minacce a segnali di de-escalation. Ieri alcune fonti governative hanno affermato che il Pakistan starebbe rinviando la sua risposta per “dare spazio alla diplomazia”, nelle stesse ore in cui a Islamabad arrivava il ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita per “calmare le tensioni”. Per il portavoce militare pachistano Ahmed Sharif Chaudhry invece il Pakistan non farà “alcun passo indietro”.

Anche il governo di Narendra Modi continua ad affermare che i colloqui non potranno esserci finché il terrorismo non sarà sconfitto “fino ai confini del mondo” – l’obiettivo dell’Operazione Sindoor. Ieri sera per il secondo giorno consecutivo a Jammu, nel Kashmir amministrato dall’India, e ad Amritsar, nel Punjab, sono state sentite esplosioni, seguite dal blackout: secondo Delhi sono attacchi di droni e munizioni lungo il confine, mentre Islamabad continua a negare e a minacciare un attacco in profondità. Nel caos di informazioni, l’India non ha ancora riconosciuto nessuna perdita di aerei, mentre il Pakistan afferma di aver abbattuto cinque velivoli, di cui due Rafale di fabbricazione francese.

Fonti francesi e americane hanno accertato l’abbattimento di almeno un jet, ma con il silenzio indiano si sono moltiplicate ipotesi e congetture, sui social cinesi la notizia è servita per elogiare la potenza militare di Pechino, che negli ultimi cinque anni ha fornito l’81 per cento delle armi importate dal Pakistan. Eppure secondo gli analisti è il Pakistan più di tutti a non potersi permettere una guerra, la sua economia sopravvive grazie ai sussidi di paesi come Cina, Arabia Saudita e Qatar, e di agenzie internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale: in caso di guerra prolungata rischia il collasso.

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