I cardinali chiusi a chiave per impedire ingerenze nell’elezione del Pontefice. Quante volte i potenti hanno detto la loro, da Carlo Magno a Trump
Li chiudevano a chiave perché non la tirassero per le lunghe. Li isolavano perché non subissero ricatti, lusinghe, pressioni dall’esterno. Potevano discutere, litigare, fare e disfare compromessi, ma solo tra di loro. Vietato, sotto pena di scomunica, ricevere scritti o altre comunicazioni da fuori. Trascorsi tre giorni senza che si accordassero sul nome del successore, ai cardinali veniva concessa una sola pietanza al giorno. Trascorsi altri cinque giorni venivano addirittura messi a pane e acqua.
Conclave. Clausi cum clave. Chiusi sotto chiave, per garantire alla scelta l’indipendenza da pressioni di famiglie, cordate, consorterie, potenze straniere. Il meccanismo con cui verrà scelto il successore di Papa Francesco è grosso modo immutato da quello che aveva portato al soglio pontificio Gregorio X, nel 1271, poi da lui codificato tre anni dopo nella Costituzione apostolica Ubi periculum. Le ultime modifiche, da parte di Giovanni Paolo II nel 1996 e di Benedetto XVI nel 2007, sono marginali.
Gregorio X codifica nel 1274 il meccanismo che lo aveva portato al soglio pontificio nella Costituzione apostolica “Ubi periculum”
La prima reclusione forzata dei cardinali succedeva a Viterbo, dove era deceduto il predecessore Clemente IV. I cardinali allora erano solo diciannove. Per sollecitarli a scegliere, il popolo aveva cinto d’assedio il Palazzo papale. Poi avevano persino scoperchiato il tetto della sala in cui erano rinchiusi. La ragione: ostacolava la discesa dello Spirito santo che li avrebbe dovuti ispirare. Infine gli avevano tagliato i viveri. Non era bastato a evitare che continuassero a discutere senza giungere ad alcuna conclusione per 1.006 giorni, quasi tre anni. La Pars Caroli (filofrancese e filoangioina, o guelfa che dir si voglia) poteva contare su 7-8 cardinali. Alla Pars Imperii (filogermanica, o ghibellina che dir si voglia) facevano riferimento una decina di cardinali. Ma due di questi morirono durante le votazioni. Erano ulteriormente divisi in almeno quattro fazioni diverse. Alcuni facevano capo alla famiglia Annibaldi, altri alla famiglia Orsini. La scelta cadde infine su un frate degli ordini minori, Tedaldo Visconti, che all’epoca non era nemmeno prete, e si fece chiamare Gregorio X. Al momento in cui fu eletto non era neppure presente. Si trovava in Palestina, al seguito del re d’Inghilterra. Dovette rientrare di corsa. Di corsa, a quei tempi, significava metterci un anno.
Il problema erano le ingerenze. Ciascuno tirava per un Papa che fosse dalla sua parte. Le grandi famiglie di Roma si odiavano e si scannavano tra di loro. Roba questa dei tempi che furono. Per fortuna gli eredi dell’aristocrazia nera, quelli dell’“Aridatece il Papa re” (dei cui esilaranti deliri ci ha raccontato su queste colonne Michele Masneri la scorsa settimana), contano ormai poco o nulla. Contano invece ancora molto le pressioni dello scacchiere internazionale. Verso la fine del 1200 a pretendere di dire la parola decisiva sull’elezione dei nuovi Papi erano i francesi. A bloccare così a lungo l’elezione del successore di Clemente IV era stato Carlo d’Angiò. I francesi si erano impossessati con un colpo di mano militare della Sicilia (da cui poi sarebbero stati sanguinosamente cacciati dalla rivolta dei Vespri). Avevano sconfitto e ucciso Manfredi, figlio dell’imperatore tedesco Federico II, poi avevano fatto decapitare sulla piazza del mercato a Napoli il nipote di Federico, l’appena sedicenne Corradino di Svevia. Aspiravano al dominio sull’intera penisola. Per questo gli era indispensabile un Papa che stesse dalla loro parte.
L’ingerenza, la lotta ai coltelli avvelenati tra francesi, tedeschi e spagnoli sarebbe andata avanti per decenni, secoli. Avrebbe diviso l’Italia, tra città e città, e poi all’interno di ciascuna città, tra guelfi e ghibellini, e tra fazioni contrapposte all’interno di ciascuno dei partiti. Tal che “non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra”, per dirla con i versi dell’invettiva che Dante mette in bocca al mantovano Sordello (Purgatorio, VI, 82-84).
La ricerca dell’indipendenza nell’elezione del Papa non era disinteressata. Non era questione di teologia. C’era in ballo il potere e c’erano in ballo le rendite ecclesiastiche. Tra gli studiosi c’è persino chi ha provato a costruire modelli matematici sulle ragioni economiche per cui le élite locali preferivano stare con una parte piuttosto che con l’altra, e un sistema di successione al soglio papale piuttosto che un altro (ad esempio, Benjamin W. Bauer, Where Danger Lies: The Economics of Papal Elections, una carrellata mozzafiato tra molti secoli, dove il danger, pericolo del titolo si richiama appunto all’Ubi periculum di Gregorio X).
C’è persino chi ha provato a costruire modelli matematici sulle ragioni economiche per cui le élite locali sceglievano il proprio candidato
Non era cominciata lì. La disputa su chi e perché influisce sull’elezione dei Papi risale alle origini, e si estende ai giorni nostri. Figura, questa di Gregorio X, che affascina da sempre gli studiosi. Il medievista Glauco Maria Cantarella dedica a un altro Gregorio, Gregorio VII, un intero lemma nel suo brillantissimo Inventario medievale. Percorsi, storie e protagonisti dell’età di mezzo (Carocci, 2023). Ritiene che fosse uno dei Papi più importanti della storia della Chiesa. Fu, scrive, allo stesso tempo restauratore e rivoluzionario. Fu il Papa che, giostrando tra le pressioni dei vescovi e quelle dell’imperatore, si era proposto di “rendere generale e uniforme il sistema di norme e procedure”. Tra parentesi, fu anche il Papa che “mostrò spessissimo di avere una forte coscienza dell’arte della comunicazione”. Inventò l’ortodossia, il principio per cui i vescovi non potevano fare di testa propria, secondo il desiderio degli imperatori, dei re e dei prìncipi di riferimento. La proposizione per cui “non sia da ritenere cattolico chi non è d’accordo con la Chiesa di Roma” non fu enunciata per pochi addetti ai lavori ma inclusa in ben due repertori di predicazione, di modo che venisse annunciata ai quattro venti e tutti potessero ascoltarla. Non per niente Cantarella è anche il massimo studioso della annosissima, secolare, “disputa delle investiture” (a chi, al Papa o all’imperatore, spettasse nominare i vescovi), che “si concluse con un compromesso che salvava tanto il Papa quanto l’imperatore (facendo uso di veri e propri giochi di parole)”.
Naturalmente, non sarebbe finita lì. I potenti della terra continuarono a tirare i Papi da una parte e da quella opposta. Continuarono a brigare perché a ogni morte di Papa gli succedesse uno che stava dalla loro. Lo fecero con tutti i mezzi di persuasione possibili, violenza compresa. Anche dopo la fissazione delle regole dell’Ubi periculum, ci fu tutta una serie di antipapi, conclavi sotto tutela, addirittura di sequestri della sede papale spostata in altri paesi (Avignone).
E’ tutta una storia infinita di pressioni e ingerenze. Passando per Carlo d’Angiò, dai Normanni di Roberto il Guiscardo, che ufficialmente erano venuti a Roma a proteggere il Papa, e invece la saccheggiarono con ferocia, ai lanzichenecchi del cattolicissimo imperatore Carlo V, protagonisti dell’efferato Sacco di Roma del 1527. Fino ai diritti di veto, al placet o ius exclusivae, ovvero il diritto di esclusione, nei confronti di candidati sgraditi. Era stato introdotto, su pressione del successore di Carlo, Filippo II. Alla morte di Sisto V, chiamato dai romani “er papa tosto”, perché teneva testa alle fazioni interne come a quelle straniere, il collegio era composto da 44 cardinali, 22 di questi erano spagnoli. Elessero rapidamente Urbano VII, che però durò appena 13 giorni (il papato più breve di tutta la storia). Alla sua morte per malaria, Filippo II proibì ai cardinali spagnoli di eleggere altri che i nomi in una lista di sette graditi a Madrid. L’ultimo a esercitare apertamente il diritto di veto è stato l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe (uno che ce l’aveva con l’Italia unita). Altri lo esercitarono in modo informale, come dire soft (come Hitler che tifava papa Pacelli, Pio XII, ritenuto più malleabile del suo predecessore Pio XI). Il Papa polacco, Karol Wojtyla, non piaceva ai duri dell’impero sovietico, ormai in stato comatoso terminale. Forse per questo cercarono di eliminarlo ricorrendo ai servizi di un sicario turco.
Alla morte di Urbano VII, Filippo II proibì ai cardinali spagnoli di eleggere altri che i nomi in una lista di sette graditi a Madrid
Roba d’altri tempi? Ho trovato in rete, sul sito francese Le Grand Continent, un saggio di Alberto Melloni (uno che se ne intende, è autore di autorevoli studi sul Concilio Vaticano II). E’ datato 22 aprile 2025. Ha per titolo: L’option carolingienne de J.D. Vance. Sostiene che la visita a Roma del vice di Trump, baby catholic di recente conversione, e la sua insistenza per essere ricevuto da Papa Bergoglio (c’è riuscito, giusto poco prima del decesso di Francesco), non sarebbero innocente devozione, ma una vera e propria “discesa su Roma”, alla maniera in cui Carlo Magno aveva insistito per farsi incoronare imperatore dei romani. Non è però un mistero che per Trump e i custodi dell’ideologia del Make America Great Again, papa Francesco fosse un avversario, anzi un nemico. Le sue idee sulla democrazia e sullo stato del mondo, sulla faccia feroce nei confronti degli immigrati e dei più deboli, sull’egoismo dei ricchi nei confronti dei poveri, sul principio per cui ha sempre ragione il più forte e ha sempre torto il più debole, facevano direttamente, vistosamente a pugni con la teoria e la pratica del trumpismo. L’ecumenismo, l’apertura a tutti di Francesco sono direttamente in collisione con l’Eccezionalismo americano, l’America al di sopra di tutti. Sono una spina nel fianco. Vance sarebbe venuto, anzi disceso su Roma per proporre a Francesco (e indirettamente ai cardinali che eleggeranno il suo successore) un deal: cessazione degli attacchi al Vaticano, anzi protezione dagli attacchi sempre più violenti ed espliciti di una parte del clero cattolico americano, oltre che da quelli della destra protestante, in cambio di un riconoscimento da Roma di un dato di fatto: dello spostamento a destra dell’America e di parte dell’Europa. Bastone e carota insomma, al modo in cui Carlo Magno aveva minacciato un sinodo scismatico a Francoforte, e offerto la protezione dei suoi franchi contro le minacce dei longobardi, in cambio del riconoscimento della sua supremazia imperiale.
L’idea di Melloni può essere discutibile. Anzi ha un vago, fastidioso sapore di affinità con le teorie cospirazioniste, tanto care alla destra americana (e pure nostrana). Vance, che le cose le dice fuori dai denti, intervenendo lo scorso gennaio alla conferenza Usa dei vescovi cattolici, li aveva accusati di sostenere gli immigrati clandestini per incassare i fondi destinati all’assistenza. Ma l’ala anti Bergoglio, per quanto molto attiva, resta in minoranza. Dei dieci cardinali americani che possono votare in conclave perché non hanno superato gli ottant’anni, sei sono stati nominati da Papa Francesco. Lo stesso Trump ha ammesso che le sue possibilità di influenzare nella direzione da lui auspicata la scelta del nuovo Papa sono molto “limitate”. “Mi piacerebbe essere Papa (I’d like to be pope). Abbiamo un cardinale che viene da un posto chiamato New York. Vediamo cosa succede…”.
Alberto Melloni, a proposito della visita del vicepresidente Usa da Francesco, ha scritto di “opzione carolingia”. Idea discutibile
La cosa su cui non piove è che una parte dei cattolici americani, quelli che sono stati definiti per comodità “cattolici Maga” (cattolici del Make America Great Again) ce l’aveva con Papa Francesco, in particolare gli orfani del suo predecessore Papa Ratzinger. Gliela tiravano, come disse lui. Così come ce l’aveva una parte dei conservatori europei. Capofila il cardinale conservatore tedesco Gerhard Ludwig Müller. Ma anche cardinali del terzo mondo (il più duro di tutti il cardinale nero Robert Sarah, della Guinea). Era un’opposizione in apparenza dottrinale (la perdita della messa in latino, le timide aperture al sacerdozio alle donne, la benedizione delle coppie dello stesso sesso, le aperture, in nome di un’unica umanità, alle altre religioni, e persino ai non credenti). Nella sostanza è però un’opposizione politica, anzi geopolitica. E’ comprensibile che puntino a una rivincita. Lo fanno in nome dell’unità, per correggere un papa che secondo loro era “divisivo”.
La successione è sempre stata il punto più delicato e difficile, per tutti gli imperi e tutti i grandi partiti. Papa Francesco scherzava spesso nel riferirsi alla Chiesa come a un “partito”. La successione è il tema su cui Mao aveva scatenato la Rivoluzione culturale, una vera e propria guerra civile che fece milioni di morti. Stalin il problema successione l’aveva affrontato sterminando i suoi avversari interni. Aveva fatto fuori, fisicamente, metà del Comitato centrale che l’aveva eletto segretario generale del Pcus, e l’intera massima dirigenza. Aveva mantenuto saldamente il potere grazie al controllo dei “quadri intermedi”, spiegò una volta, in un raro accesso di sincerità, a Dimitrov. Insomma puntando sui semplici preti, piuttosto che sui cardinali. Ma era morto senza riuscire a indicare un successore. Un problema irrisolto di successione ce l’ha Putin, ed è una delle ragioni che l’hanno portato a scatenare la guerra in Ucraina. La successione è l’incubo dell’apparentemente intoccabile Xi Jinping. Irrisolta è la successione in Iran all’ayatollah Khamenei. La successione è il problema sul quale Erdogan rischia di trascinare la Turchia in una guerra civile. Tutte le guerre che insanguinano il mondo sono, a ben vedere, in un modo o nell’altro, anche guerre di successione.
Restando alla Chiesa cattolica, il problema di fondo del conclave è l’elezione sì di un successore che mantenga l’unità, ma abbia anche l’autorità necessaria a farsi obbedire da tutti una volta eletto. Per mantenere l’indipendenza dalle inevitabili pressioni e ingerenze esterne, dalle spinte centrifughe e dagli interessi di potere locali avranno bisogno di un Papa autorevole e autoritario. Si tratta di una democrazia all’antica, diversa dalle altre, che funziona con meccanismi diversi da quelli delle democrazie elettive. Tra questi, un sistema di formazione dei gruppi dirigenti (il collegio dei cardinali, la nomina dei vescovi), che mi verrebbe da definire “per cooptazione”, piuttosto che di elezione dal basso. Talvolta ha funzionato, talaltra no. Era quello in uso nel vecchio Pci, che – lo confesso – mi è più familiare delle procedure per l’elezione del nuovo Papa. Si cooptavano le personalità più capaci e più consone alla sensibilità di una o dell’altra delle diverse anime, o “correnti” che dir si voglia. Orribile finché si vuole, ma in fondo funzionale. E in effetti funzionò a lungo. Con risultati tutto sommato migliori di quelli intervenuti successivamente, delle promozioni dal basso o delle “primarie”, vere o finte che fossero. Gli Amendola, i Bufalini, gli Ingrao, persino i Secchia erano dirigenti con visioni molto diverse, ma tutti di notevole livello. Tenuti insieme dall’autorità del capo. Il sistema creò la democrazia costituzionale in cui viviamo, e riuscì a garantire anche una certa indipendenza – diventata poi rottura, più che “strappo” – anche dalla casa madre, l’Unione sovietica. Vogliamo chiamarlo, altra espressione orribile, centralismo democratico?