La trattativa con Bruxelles è complessa, e quella che doveva essere la pista di lancio per il rush finale e la massimizzazione della spesa nell’ultimo tratto rischia di essere un clamoroso boomerang
Continua l’assordante silenzio del ministro per il Pnrr, Tommaso Foti, sulla revisione generale del Piano europeo, cui i ministeri stanno lavorando da cinque mesi. La trattativa con Bruxelles è complessa perché non si tratta solo di aggiornare l’elenco degli interventi, eliminando – secondo la prassi consolidata – quelli che non potranno essere conclusi ad agosto 2026 e sostituendoli con progetti più facili, ma anche di decidere le regole della rendicontazione finale e quale può essere il meccanismo più opportuno per far passare la linea su cui Roma e Bruxelles ormai concordano politicamente: reinvestire in nuove riforme una parte dei fondi che non saranno spesi entro i termini.
I 14 o 16 miliardi destinati alla competitività delle imprese, con o senza dazi, certo, ma anche la prosecuzione con nuovi strumenti finanziari e programmatici degli investimenti in settori prioritari come la casa, l’energia, le ferrovie. Non dimentichiamo che il “non speso” teorico potrebbe attestarsi fra 30 e 40 miliardi (molto dipenderà proprio dalla revisione del Pnrr). E’ sottinteso in questo confronto che ministri come quelli delle Infrastrutture o della Sanità, dell’Istruzione o dell’Università, venderanno cara la pelle prima di accettare un trasferimento dei propri fondi al ministero delle Imprese o, comunque, a soggetti diversi da loro.
Anche sul secondo punto, il più spigoloso – le regole per la rendicontazione – qualche progresso è stato fatto per trovare formule tecniche adatte a “salvare” il principio del pagamento di investimenti che producono beni fisici e servizi, senza scadere nella modalità tipica dei fondi coesione – inaccettabile per Bruxelles sul Pnrr – di rendicontare semplicemente la spesa effettuata. Passi avanti che si concretizzano, per esempio, nell’accordo, di sostanza e non ancora di forma, di “salvare” miracolosamente investimenti importanti come quello ferroviario del Terzo valico che certamente non arriveranno a conclusione. Si attesterà la realizzazione di gallerie e di chilometri di ferrovia, alla fine, magari in quota sul totale previsto.
Ma torniamo al silenzio assoluto sulla seconda revisione generale del Pnrr dopo quella dell’8 dicembre 2023. La revisione, prevista prima a febbraio, poi ad aprile, slitta ancora a giugno. Anche per le complessità dette sopra. Il punto è che quella che doveva essere la pista di lancio per il rush finale e la massimizzazione della spesa nell’ultimo tratto rischia di essere un clamoroso boomerang: dodici mesi per avviare e completare gli investimenti è una sfida ancora più complicata di quella attuale. Per questa ragione i ministeri più accorti sul tema Pnrr stanno forzando, nelle trattative con la Commissione europea, per inserire spezzoni di revisione già nell’assessment sulla settima rata. Non sfugge che via via nel tempo gli assessment della Commissione sulle rate da pagare sono diventate anche la sede per aggiustamenti in corsa, spesso molto significative, delle previsioni del Pnrr. Aggiusta di qua, sostituisci di là, il Piano europeo è diventato ad assetto mobile e le amministrazioni coordinatrici della spesa provano a forzare la mano mettendo dentro stralci, aggiustamenti procedurali e progettuali, nuove spese già nell’assessment e facendo magari comparire questi nuovi capitoli come “complementari” o “sostitutivi” dei titoli e delle etichette già presenti nel Pnrr.
Questo metodo ha anche un altro vantaggio: cominciare a lavorare alle nuove riforme, impostando a Roma il terreno per quando poi i cambiamenti saranno ufficializzati nella revisione generale che non arriverà prima dell’estate inoltrata, considerando che alla proposta italiana seguirà l’esame della Commissione e poi l’approvazione dell’Ecofin o del Consiglio.
Prendiamo un altro esempio dal ministero delle Infrastrutture che sulle innovazioni metodologiche del Pnrr è battistrada anche per altri ministeri. Una delle voci di spesa che più ha tirato è stato l’acquisto di materiale rotabile nuovo per gli Intercity e il trasporto ferroviario regionale. Su questo capitolo dovrebbero confluire parte dei fondi non spesi dal ministero su altre voci, di investimenti ferroviari e non. La proiezione in avanti, oltre il 2026, dei fondi Pnrr sarà però possibile solo se accompagnata da riforme profonde che marciano nelle direzioni volute dalla commissione (per esempio in chiave di maggiore concorrenza). Nel caso del materiale rotabile, c’è già accordo sulla costituzione di una società centralizzata controllata dallo stato che prenderà la proprietà di tutti i treni acquistati con fondi pubblici, europei e nazionali. E’ quella che nel mondo ferroviario internazionale si chiama Rosco (Rolling Stock Company), già presente nel modello privatistico inglese e in quello pubblicistico svedese. Una società a patrimonio destinato in cui dovrebbero entrare anche i treni Intercity acquistati finora con fondi Ue e statali e forse anche dei treni regionali (ma qui la resistenza delle regioni è fortissima nonostante siano diventate proprietarie del materiale rotabile grazie a fondi statali).
Quello che piace molto alla Commissione europea è che la centralizzazione del materiale rotabile nelle mani di una società statale renderebbe più facile l’accesso da parte delle imprese ferroviarie a un mercato concorrenziale per i servizi Intercity. Il possesso del materiale rotabile è la barriera più alta a un mercato concorrenziale europeo nel settore ferroviario.