La realtà si è evoluta, però i criteri con cui la interpretiamo sono rimasti incagliati al secolo scorso. Ci conviene interpretarla invece coi criteri del Seicento, forse del Cinquecento: i tempi delle guerre trascinate e dei signorotti capricciosi
Ora che sono passati venticinque anni, ovvero cinque lustri, ovvero un quarto di secolo, forse è tempo che qualcuno si alzi e dica: dobbiamo farla finita col Novecento. La realtà si è evoluta, però i criteri con cui la interpretiamo sono rimasti incagliati al secolo scorso, al capitalismo, al fascismo e al comunismo, alla società di massa. Siamo ancora vittime del luogo comune della fine della storia o, quanto meno, della tentazione di credere che la storia sia cambiata in modo decisivo e irreversibile dopo la Seconda guerra mondiale, raggiungendo un plateau che ci avrebbe garantito criteri di orientamento definitivi su politica ed economia. È l’inganno del progresso, un’illusione ottica per cui sembra che il tempo vada avanti verso il meglio. Guardate invece la foto di Trump e Zelensky a San Pietro: il loro colloquio ricorda Las lanzas di Diego Velázquez, il dipinto che immortala Giustino di Nassau a capo chino e Ambrogio Spinola che gli posa una mano benevola sulla spalla; era il 1635.
Lasciamo perdere il Novecento e riconosciamo che stiamo tornando ai tempi delle guerre trascinate e dei signorotti capricciosi, dell’economia improvvisata e delle rivalità personali, delle superstizioni aleatorie e degli avventurieri che si ritagliano il proprio potentato; stiamo insomma correndo verso il periodo che precede la creazione dello stato di diritto come l’abbiamo conosciuto – a seconda dei luoghi – per due o trecento anni. Per capire la realtà odierna, ci conviene interpretarla coi criteri del Seicento, forse del Cinquecento. Prossima fermata, il Medioevo.