Il passato oscuro di Jay Gatsby, il lato umano e l’amore per la libertà dei criminali, da Bonnie & Clyde a Billy the Kid. Il Padrino e il carisma che prevale sulla moralità. Così letteratura e cinema hanno anticipato qualcosa della vita reale
Ormai da diverse settimane mi capita ripetutamente di dover giustificare la scelta di vivere in America e spiegare che quanto sta avvenendo non rivela l’intima realtà di questo paese, ma il suo tradimento. “Questo periodo buio passerà come è passato il Maccartismo”, ripeto, ricordando che anche quel momento storico rinnegava l’idea stessa di America pretendendo invece di esaltarla. Non c’è nulla da fare, però, quanto sta avvenendo ha scatenato in molti interlocutori un liberatorio sentimento di disprezzo, e solo in alcuni sconcerto e angoscia nei confronti di un paese che ha rappresentato un modello. Con una persona particolarmente aggressiva ho argomentato che non si può mettere in discussione la gloria della storia tedesca per il fatto che abbia avuto il nazismo, salvo poi pentirmi, il paragone l’aveva resa felice. L’antiamericanismo odierno non è diverso da quello che gli antichi romani definivano odium imperii e appare sempre più difficile prendere le parti degli Stati Uniti, mentre è facile, per chi non li ha mai amati, dare sfogo ad attacchi caratterizzati da rozzezze e semplificazioni non troppo differenti da quelle che vengono imputate al paese. Ho assistito come tutti con sgomento alla sequela di minacce, insulti, sarcasmo, annunci apodittici e retromarce sgangherate, promesse folli e menzogne spudorate dell’attuale amministrazione. Per non parlare delle immagini di immigrati clandestini ritratti in condizioni umilianti, l’espulsione di chi ha espresso pareri negativi sul presidente, l’arresto di un giudice che si è opposto ai suoi ordini esecutivi, l’esaltazione dei “patrioti” che hanno profanato Capitol Hill e una serie di pretese inaudite, nella sostanza e nella forma: “Abbiamo bisogno della Groenlandia”. Ogni giorno mi sembra di assistere al martirio dell’idea di America basata sull’accoglienza e sembrano appartenere a un’altra epoca i versi di Emma Lazarus ai piedi della statua della libertà: “A me date i vostri stanchi, i vostri poveri / le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi / i rifiuti miserabili delle vostre spiagge affollate. / Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste…” E’ quella l’America che amerò sempre: un paese pieno di contraddizioni, che si è macchiato come ogni impero di mostruosità, ma che ha dato speranza, opportunità e libertà a milioni di persone di ogni parte del mondo.
Qualche sera fa, mentre ero assorto in questi pensieri, mi è capitato di passeggiare vicino all’Empire State Building illuminato di verde. Non riuscivo a capirne il motivo, e mentre ammiravo questo straordinario edificio a pochi isolati dalla meraviglia del Chrysler Building, mi sono ricordato che entrambi i grattacieli sono stati costruiti nel pieno della Grande Depressione. Ho provato un momento di orgoglio: ciò che rende unica questa città è come sia in grado di scommettere sul futuro nei momenti di maggiore difficoltà. Sono stato testimone di come sia rinata dopo l’11 settembre, la crisi finanziaria del 2008 e dopo la pandemia, che l’ha ferita più di qualunque altra capitale: nessun’altra metropoli è fondata in ugual misura sull’idea di sfida, potenza ed energia. Insieme all’America rischia di morire l’idea di occidente, mi sono detto, e persino un luogo di eccellenza come la Columbia University ha chinato il capo di fronte all’ennesimo diktat del presidente. Harvard però ha tenuto la schiena dritta, ho pensato, ricordando quali siano i princìpi sui quali è fondato il paese: l’America che difende la libertà di pensiero, anche il più estremo, anche il più sbagliato, non è scomparsa.
“Festeggiamo i cento anni del Grande Gatsby”, mi ha spiegato un portiere dell’Empire State Building, dando per scontato che capissi il riferimento alla luce verde del faro sulla baia che separa Gatsby da Daisy: la natura di questa città continua a combinare la cultura allo spettacolo, ho pensato, e anche questo resiste. Poi mi sono chiesto perché il capolavoro di Fitzgerald abbia una dimensione mitica: ne sono state realizzate quattro versioni cinematografiche, due spettacoli di prosa e un musical, mentre non è successo nulla di simile con Tenera è la notte, non meno bello. Insieme alla struggente storia d’amore, la ragione è da cercare nel protagonista, decisamente più carismatico del mesto e alcolizzato Dick Diver, e non a caso interpretato da star quali Robert Redford e Leonardo DiCaprio: Jay Gatsby è un uomo dal passato opaco se non addirittura criminale, che è riuscito a diventare ricco e potente. E’ un self made man mitizzato dal narratore e da chi frequenta le sue feste leggendarie, che continua a essere considerato con snobismo dall’establishment, che vede in lui un new money. Ho cercato di resistere al paragone con l’attuale inquilino della Casa Bianca: le differenze sono superiori alle somiglianze ed è difficile immaginarlo come eroe romantico, ma è rimasto l’interrogativo sul fascino americano nei confronti di questi personaggi, specie nel cinema. Uomini che raggiungono il successo attraverso scorciatoie e reati che vengono dimenticati, perdonati e addirittura giustificati. E che stravolgono le istituzioni a propria immagine e somiglianza quando riescono a impadronirsene. Ho volutamente parlato di uomini, perché le donne hanno quasi sempre un ruolo ancillare, e anche questo rappresenta un motivo di riflessione.
Il gangster movie è un vero e proprio genere, del quale fanno parte numerosi capolavori, a cominciare da Bonnie & Clyde, nel quale la simpatia di Arthur Penn va tutta ai criminali, raccontati come eroi liberi e romantici: provate a riguardare la scena finale, nella quale i due protagonisti, che hanno il carisma e la bellezza di Warren Beatty e Faye Dunaway, si scambiano uno sguardo pieno di tenerezza prima di essere ammazzati. Penn non arriva a teorizzare con Brecht che svaligiare una banca è meno criminale di fondarne una, il suo racconto è tutto all’interno del capitalismo: i due banditi hanno semplicemente scelto una delle possibili strade per avere successo, e loro libertà, come la loro bellezza, non è diversa da quelli della Rabbia giovane di Terrence Malick, anti-eroi che in questo caso cercano la celebrazione del loro individualismo. Per quanto possa commettere dei reati orribili, nel cinema americano il criminale è sempre libero: è questa una delle ragioni principali del suo fascino, a cominciare dai personaggi efferati e irresistibili di Quentin Tarantino sino a Scarface, ispirato ad Al Capone. Questo vale per il classico di Howard Hawks e ancor di più per il remake di Brian De Palma: è difficile non tifare per Tony Montana (Al Pacino) quando risponde in maniera strafottente ai poliziotti e nella scena in cui spara con un bazooka ai suoi assassini dicendo “say hi to my little friend”. Il fatto che in entrambi film venga ucciso sotto la scritta “the world is yours” non viene letto come un monito morale, ma genera una perversa identificazione. Non c’è film in cui Al Capone non trascini il pubblico dalla sua parte, sebbene venga mostrata la sua violenza bestiale: negli Intoccabili, l’eroe positivo è Elliott Ness, ma ricordiamo tutti quanto gli urla il bandito: “Sei solo chiacchiere e distintivo”, e la battuta è entrata nel gergo quotidiano.
Questo meccanismo di identificazione si può applicare a decine di altri personaggi, il cui carisma, e in alcuni casi la simpatia, prevale sulla moralità. Un personaggio ricorrente è l’amabile truffatore, come nella Stangata di George Roy Hill, che si fregia degli stessi interpreti di Butch Cassidy. In questo western Paul Newman e Robert Redford immortalano un’adorabile coppia di svaligiatori che diventano eroi quando vengono uccisi da un numero spropositato di soldati: non li vediamo morire, però, il film si chiude con un fermo immagine nel quale, bellissimi, vitali e ancora una volta liberi, continuano a sparare. E’ un finale simile a quello del Il mucchio selvaggio, nel quale la morte viene celebrata al rallentatore in un balletto di sangue che rende la scena un tableau vivant alla maniera di Théodore Géricault. Con questa celebrazione estenuata, Sam Peckinpah ci dice che coloro che perpetrano il massacro sono moralmente peggiori dei banditi che muoiono salvando il proprio onore. La critica americana ha colto subito la qualità di questa opera rivoluzionaria: mentre nel resto del mondo si lanciavano farneticanti accuse di fascismo, Pauline Kael scriveva un saggio dal titolo eloquente: “The nihilist poetry of Sam Peckinpah”. E’ questo il motivo per cui, in un altro film straordinario, le simpatie di questo grande poeta nichilista vanno al bandito che rimane tale fino alla fine (Billy the Kid), piuttosto che a quello che è passato dalla parte della legge (Pat Garrett).
Il cambiamento di prospettiva che porta a identificarci con i criminali è alla base del successo artistico e commerciale del Padrino, non a caso accusato di offrire un quadro romantico della mafia. Lo sguardo di Francis Ford Coppola è umanista, e quando immortala Don Vito che danza con la figlia nel giorno del matrimonio, non vediamo un criminale, ma solo un padre, e lo stesso vale per sua moglie che canta e le manda un bacio dicendo “figlia bella”. Nella costruzione di questa identificazione hanno un’indubbia importanza battute che chiunque vorrebbe pronunciare come “è un offesa alla mia intelligenza”, e persino affermazioni che denunciano la natura criminale dei protagonisti: “Gli ho fatto un’offerta che non può rifiutare” o “lascia la pistola, prendi i cannoli”. Anche in questo caso non esiste personaggio moralmente migliore dei Corleone, e l’ambizione di diventare rispettabili è una ragione ulteriore per essere dalla loro parte: quando Don Vito si rammarica con il figlio Michael che non sia diventato un senatore o un governatore, accettiamo anche che si lamenti di non avere avuto tempo per aver reso lui legit la famiglia, come se ciò potesse emendarne i crimini. In un’altra scena, Michael fa notare alla moglie, la wasp Kay, quanto sia ingenua a ritenere che le persone rispettabili non commettano reati gravissimi: il film ci mostra senatori, imprenditori e poliziotti corrotti, e la strada del crimine sembra un itinerario iniziatico per diventare americani di successo. Ancora una volta la cultura statunitense privilegia l’individuo rispetto all’istituzione, e a un senatore che tenta di estorcergli denaro, Michael risponde: “Siamo due facce della stessa ipocrisia”.
David Mamet, autore della battuta “sei solo chiacchiere e distintivo” ha realizzato molti film sui truffatori, ed è evidente che sia affascinato da personaggi nei quali non è possibile scindere il carisma dalla brutalità. In Glengarry Glen Ross, tradotto ideologicamente in Italia con Americani, compare un personaggio (Alec Baldwin) che porta alle estreme conseguenze il cosiddetto discorso motivazionale: “Vedi questo orologio? Lo vedi? Questo orologio costa più della tua macchina. L’anno scorso io ho fatto novecentosettantamila dollari. Tu quanto hai fatto? Questo è quello che sono io. E tu non sei nulla”. In mezzo a una lunga serie di altri insulti, tra i quali “falliti” –quanto di peggio si possa dire a un americano – spiega che il primo premio per i dipendenti è “una Cadillac El Dorado, il secondo è un set di coltelli e il terzo è il licenziamento”. Anche Martin Scorsese subisce il fascino di personaggi di questo tipo, ma in realtà per cercare la luce dove è più grande la tenebra. In Wolf of Wall Street, il pubblico preferisce il disonesto e seducente agente di borsa (Leonardo DiCaprio) all’onesto e grigio procuratore che lo incastra (Kyle Chandler). Nel suo cinema sono numerosi i criminali che arrivano a commettere efferatezze compiaciute e gratuite, ma anche a Scorsese interessa un itinerario nel quale l’obiettivo finale non è il successo mondano, ma la possibile grazia e redenzione. La costruzione dell’epica americana ha un fondamento etico, e un altro elemento fondamentale è il rapporto con la pena: assistiamo sempre a un inevitabile redde rationem, come nel finale del Padrino parte seconda, nel quale Michael, dopo aver fatto uccidere il fratello Fredo, ricorda un momento di serenità familiare persa per sempre.
Nei film di qualità il fascino per il male è accompagnato sempre dagli anticorpi, come nel Terzo uomo dell’inglese Carol Reed: non c’è dubbio che Harry Lime (Orson Welles) sia più seducente dell’onesto amico Holly Martins (Joseph Cotten), ed è difficile non godere di una battuta come: “In Italia sotto i Borgia, per trent’anni, hanno avuto assassinii, guerre, terrore e massacri, ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e che cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”. Tuttavia la sua condanna morale è evidente al punto che lo vediamo morire nelle fogne. “L’America è l’unico paese al mondo passato direttamente dalla barbarie alla decadenza” mi ha detto uno degli interlocutori di questi giorni, ma la battuta di Georges Clemenceau ignora le glorie artistiche americane, l’audacia di sigillare nella Dichiarazione di Indipendenza la ricerca della felicità, e l’entusiasmo con cui lo spirito di frontiera viene interpretato ogni giorno, a prescindere dai risultati già ottenuti: sono gli elementi che consentono di avere un orizzonte più vasto e la possibilità di affermare che il limite è il cielo. E’ quello che pensa Noah Cross, indimenticabile villain di Chinatown, nel quale Roman Polanski racconta l’indagine di un detective privato (Jack Nicholson) sull’omicidio del responsabile del dipartimento delle acque di Los Angeles: il mandante è Cross, suocero della vittima (John Huston), un miliardario che ha fatto cambiare il corso di un fiume per irrigare terreni di sua proprietà, gettando nel lastrico centinaia di agricoltori. Quando scopre la verità, il detective gli chiede perché lo abbia fatto, dal momento che ha già tutto ciò di cui ha bisogno. “Il futuro”, risponde questo criminale larger than life, ispirato a William Mulholland, un uomo a cui è intitolata una delle strade più importanti della città sebbene sia stato responsabile del crollo di una diga che ha causato 431 morti e della deviazione del fiume Owen che ha prosciugato il lago omonimo, rendendo arido il territorio di Pacific Palisades: l’impossibilità di far fronte ai recenti incendi nasce da quella sciagurata decisione. La scelta di intestargli una delle principali arterie cittadine è un triumphus memoriae, e ho ripensato alla risposta di Noah Cross quando il detective gli dice che è una persona rispettabile: “Certo che sono rispettabile. Sono vecchio. I politici, gli edifici pubblici e le puttane diventano rispettabili se durano abbastanza a lungo”. Sebbene sia un personaggio di finzione, appartiene alla stessa categoria Harrison Van Buren (Guy Pierce) in The Brutalist. E’ l’ennesimo miliardario con un passato opaco che ha anche l’energia epica e la vitalità del grande paese, e ne è in qualche modo un simbolo, anche grazie alla sua vision, il talento di anticipare il futuro e poi forgiarlo secondo la sua intuizione.
Van Buren, come Noah Cross, ha un altro elemento prettamente americano di tutti questi personaggi: la solitudine, soprattutto nel successo. “Quando si perde la capacità di vivere i propri miti, si perdono anche i propri dèi”, scrive Fitzgerald, e mi sono venuti in mente i giganteschi occhi del poster di un oculista nel Grande Gatsby: un monito morale in un mondo nel quale la soddisfazione dei propri piaceri non contempla alcun limite etico e l’unica forma di venerazione è nei confronti del profitto a ogni costo. Per dirla con una battuta: “In gold we trust”. Mentre tornavo a casa ho provato a chiedermi se quello che stiamo vivendo sia un momento storico in cui si sono abbassati i livelli di tolleranza etica. Ho sempre pensato che non esista persona più immorale di un moralista, ma rimango sconcertato al pensiero che l’attuale presidente sia stato condannato nei 34 capi di imputazione del procedimento meno grave tra quelli a suo carico. Chissà se mai vedranno la luce i processi relativi a Capitol Hill e al tentativo di appropriarsi di 11.000 voti che gli avrebbero garantito la vittoria in Georgia nel 2020. Un tempo qualcosa del genere avrebbe distrutto la carriera di qualunque politico: nel 1974 Richard Nixon fu costretto alle dimissioni per uno scandalo di proporzioni minori rispetto a vicende di questo tipo. All’epoca l’opposizione lo dipingeva come un bandito con toni che anticipavano la supponenza che ha condannato ripetutamente la sinistra alla sconfitta. Era figlio di agricoltori, Nixon, e non era dotato di un aspetto affascinante, e nel 1972 i democratici ne stamparono un poster con scritto: “Compreresti mai un’automobile da una persona con questa faccia?”. Non si è trattato solo di un atto di protervia, ma di un errore che anticipa il deplorables usato da Hillary Clinton per definire gli elettori di Trump. Ripensandoci, mi sono chiesto come mai per alcuni valga la damnatio e per altri il triumphus memoriae, se in questi cinquant’anni si sia smarrito quello che qui chiamano il moral compass, e se coloro che avversano l’attuale presidente siano frastornati per la sconfitta, spaventati o addirittura affascinati. O se invece prevalga un’accettazione disincantata, come nel finale del film di Polanski, dove il moto di rabbia del protagonista è smorzato da un consiglio evocativo e sconsolato: “Lascia stare Jake, è Chinatown”.
Oggi si parla con troppa facilità di populismo, fenomeno che finora questa grande democrazia ha saputo debellare e che nel cinema ha trattato in Tutti gli uomini del re di Robert Rossen e nei profetici Un volto tra la folla di Elia Kazan e Network di Sidney Lumet. Del recente The Apprentice è significativo che tutti ricordino le regole per vincere che Roy Cohn insegna all’attuale presidente: 1) attacca, attacca, attacca; 2) nega tutto, anche l’evidenza; 3) dichiara sempre e comunque vittoria. Il film tuttavia è modesto e a me sembra più simile al protagonista dell’Uomo dei sette capestri di John Huston, nel quale un giudice, realmente esistito, esercitò la legge a modo proprio, arrivando ad assolvere un assassino perché non esistevano norme che contemplavano l’uccisione di un cinese. Anche in questo caso lo spettatore tifava per lui, interpretato dal bello, carismatico e libero Paul Newman. E’ stato proprio il presidente a teorizzare che la farebbe franca anche se uccidesse una persona in piena Quinta avenue, e mi chiedo quindi se sia giusto utilizzare categorie artistiche o culturali in un mondo nel quale linguaggio si è semplificato fino alla brutalità. Un suo tweet è estremamente più efficace di qualunque editoriale, e ha un talento impareggiabile nell’interpretare i desideri e i sogni di un mondo dimenticato da un’élite che ha pensato bene di insultarne i rappresentanti. L’elettore tende a preferire l’arroganza e il bullismo all’ipocrisia: in particolare nei momenti di crisi preferisce chi dice pane al pane, anche se in maniera volgare e violenta, e persino se quanto viene affermato è tutto da dimostrare.
A chi continua a elogiare, soprattutto ora, la superiorità dell’Europa, rispondo che se l’America è in declino, il Vecchio continente esaltato da Clemenceau ha perso la propria centralità da almeno cent’anni, e che la gloria della sua storia non ha impedito mostruosità di ogni tipo, a cominciare dall’Olocausto. Stiamo vivendo un momento terribilmente cupo, non solo per l’America, che tuttavia è destinato a terminare, e ritengo che, nonostante atteggiamenti, scelte e azioni gravi e impensabili, anche questo periodo storico appartenga all’eterno ritorno dell’identico: speriamo solo che la conclusione non sia tragica. Forse è questo il motivo per cui rivedendo la luce verde sul grattacielo costruito nel momento più buio della recessione mi sono chiesto se la sorte di chi vive oggi in America sia quella di cui scrive Fitzgerald nel finale del romanzo: “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.