Si può temere che la fine della guerra sia ancora molto lontana, ma si deve anche immaginare che sia prossima, e alle condizioni peggiori. I governanti ucraini dovranno affrontare problemi enormi, che riguardano anche i loro errori, a cominciare dall’eccessiva concentrazione di poteri nella ristrettissima cerchia di Zelensky
Rendendo onore, nel nostro 25 aprile, a “Zelensky e la resistenza di Kyiv”, Lorenzo Cremonesi, che per il Corriere ha attraversato la guerra della Russia all’Ucraina con uno straordinario impegno, ha ricordato che “oggi il paese è stanco, gli ucraini temono per il loro futuro, il governo di Kyiv ha commesso tanti errori e mancano volontari per il fronte”. Ieri, il sindaco di Kyiv, Vitali Klitschko, all’indomani della nuova strage di civili nella capitale, ha detto alla Bbc che per ottenere la pace l’Ucraina può dolorosamente accettare una cessione “temporanea” di territori. Non è il primo, ma non era ancora successo fra i notabili più in vista del paese. A lungo, le divergenze nella leadership ucraina hanno accettato un rinvio dei conti fino a guerra conclusa. Una rivalità personale fra Klitschko e Zelensky è d’altronde notoria. E questo, della combutta fra Putin e Trump, è per gli aspiranti al dopoguerra il momento di presentare le proprie credenziali.
Si può temere che la fine, o l’interruzione, della guerra sia ancora molto lontana, ma si deve anche immaginare che sia prossima, e alle condizioni peggiori. I governanti ucraini dovranno affrontare problemi enormi, primo fra tutti il ritorno dei veterani, che chiederanno conto della corruzione e di qualcosa come la vittoria mutilata. I militari avranno un peso tanto maggiore quanto più debole sarà la società politica, e ancor più la religiosa. I prepotenti stranieri vorranno avere voce in capitolo attraverso loro quisling.
Quali sono stati i “tanti errori” del governo ucraino? L’elenco è fin troppo facile, dopo tre anni di una guerra così diseguale, e così disegualmente sostenuta dagli alleati dell’Ucraina, fino al capovolgimento di fronte di Trump. Un punto cruciale sta senz’altro nella progressiva concentrazione di poteri nell’informale e ristrettissima cerchia di collaboratori di Zelensky, in cui il capo dell’ufficio presidenziale, Andrij Yermak, solo da poco ha occupato un primo piano pubblico guidando la delegazione incaricata del negoziato con gli americani. Volodymir Zelensky ha lasciato, se non voluto, che il suo ruolo personale, decisivo dalle prime ore dell’invasione russa, coincidesse col destino del paese. E’ comprensibile che avvenga così in condizioni di estrema necessità: Ho Chi Minh guidò per un quarto di secolo il Vietnam in tre guerre successive, contro giapponesi, francesi e americani (stette però attento a non epurare il generale Giap). Zelensky sta giocando una partita difficilissima, come quella in cui il boss del casinò gli ha comunicato che “non ha le carte”. Non ha creduto che annunciare di non volersi ricandidare a guerra finita gli rendesse le mani libere, gli riguadagnasse la fiducia dei cittadini, disarmasse la malevolenza di Washington e gli oltraggi del Cremlino. Oggi evidentemente temporeggia, badando a non apparire come il sabotatore del fantomatico negoziato, e insieme a sottrarsi al ricatto mafioso della resa su tutto il fronte. Un gioco di equilibrismo, quando anche il terreno del sostegno dei “volontari” europei gli frana sotto i piedi.
Una frase sulla Crimea – del tutto ragionevole, se vuole dire che all’Ucraina non si può chiedere di ratificare formalmente l’appartenenza della Crimea alla Russia, altra cosa dall’accettare uno stato di fatto provvisorio, imposto dai rapporti di forza – è bastata a Trump per imputargli il sabotaggio del negoziato. Paradossalmente, la bravata dei bulli Trump e Vance alla Casa Bianca ha procurato a Zelensky una brusca risalita (forse sopravvalutata) nel consenso degli ucraini. Avrebbe potuto essere l’imprevista occasione per rafforzare il proprio mandato presente in cambio della rinuncia alla ricandidatura futura, molto più difficile da proporre in una condizione di crollo della popolarità. Sembra puntare all’opposto.
Che cosa può proporsi Zelensky da una dilazione, oltre che un azzardato e imprevedibile svolgimento delle cose che incrini il muro dell’ostilità e del disprezzo americano? Non certo un’inversione nell’andamento delle operazioni militari. La straordinaria riuscita ucraina della produzione e dell’impiego dei droni vale a ridurre le perdite umane, non a rovesciare le sorti. Forse qualcuno a Kyiv crede davvero che l’offerta di fare degli armamenti e dell’esercito ucraini il nerbo della famosa difesa europea, una riedizione delle milizie svizzere nel ’500… La principale cosa cui viene da pensare è che Zelensky immagini di riempire una dilazione con la tenuta delle elezioni presidenziali, vincendo le quali metterebbe la propria carica al riparo dalle delegittimazioni esterne (e congiunte, di Putin e di Trump) e dai rivali interni. Dovrebbe smentire quanto è stato sostenuto finora, con argomenti fortissimi, sulla difficoltà di far votare un popolo di milioni di rifugiati all’estero, di sfollati, di combattenti, sotto le bombe, e in violazione della Costituzione che vieta le elezioni in vigenza della legge marziale. Ma le difficoltà, e le stesse leggi, sono fatte per essere superate da una forza maggiore. Se un simile contesto fosse reale, significherebbe comunque una camminata sul filo, senza rete.