Francesco, un Papa dritto al cuore di chi non ha ancora perso il suo cuore

“Non fatevi beffe” della fede semplice. Un Papa per chi non sa più chi era Gesù. La profezia di una canzone di Tricarico, il ritorno all’abc del cristianesimo, la fede del popolo. E tutto il resto non è importante

Meglio iniziare dalla fine e poi tornare all’inizio, disobbedendo al comando del Re al Bianconiglio. Del resto Jorge Mario Bergoglio un pauroso non è stato mai, e sotto l’abito fin troppo bianco ha sempre preferito il suo nero di gesuita, di prete callejero. “Nella mia fine è il mio principio”, diceva del resto anche Eliot, chiudendo in un solo verso tutto l’andirivieni della Verità. E la fine, intesa come ultima fatica, del pontificato di Papa Francesco è una fine che torna dritta al Principio di tutte le cose e si chiama Dilexit nos, “Ci ha amati”.

La quarta enciclica, dedicata “all’amore umano e divino del Cuore di Gesù” pubblicata nell’ottobre scorso è passata quasi sotto silenzio, anzi snobbata. Non solo dal mondo laico, che non vi ha trovato appigli per le sue solite diatribe sul progressista o il conservatore; ma anche dai cattolici, così “mondani” da non capire che senza quella attrazione affettiva, quel cuore cui corrispondere, non c’è fede che regga. Invece in quel finale Dilexit nos, “Ci ha amati”, c’è tutto quello che Francesco ha vissuto e insegnato. Una fede all’altezza di tutti, il contrario di una perfezione morale e irraggiungibile. A partire, ha scritto, dall’unica cosa che conta, la capacità di accorgersi che la nostra vita “sta perdendo il cuore”. “Il nostro cuore è fragile ed è ferito”. L’adultera, il cieco nato, la samaritana: c’è un cuore nuovo per tutti, come dice il profeta Osea che Bergoglio citò per la Quaresima dello scorso anno: “La Quaresima è il tempo di grazia in cui il deserto torna a essere il luogo del primo amore”. E questo forse i teologi di scuola non lo capiscono, ma i bambini sì. Si può essere peccatori, malati, poveri, criminali. Forse la sua confessione più sincera è tutte le volte che ha detto dei carcerati “perché lui e non io?… E’ un mistero che mi avvicina a loro”. E che gli ha fatto varcare, alzandosi in piedi, la Porta Santa di Rebibbia.



Così, tornati all’inizio, c’è questo. All’inizio non c’è quel “buonasera” di cui parleranno tutti. All’inizio c’è “Miserando atque eligendo”, “lo guardò con misericordia e lo scelse”, il commento di Beda il Venerabile all’incontro con Matteo il pubblicano, che volle per suo motto episcopale già a Buenos Aires.



E anche questo “miserando”, magari per la curiosità di un paradosso, lo capiscono tutti. Tempo fa Giuseppe Frangi, che allora dirigeva il magazine Vita, ricordò un episodio incredibile.



Era il 2012, ancora lontana la renuntiatio di Benedetto XVI: “Eravamo usciti con un numero di Vita con un titolo strano, per dar voce a una imprevista intuizione: ‘Qui ci vuole un Francesco’. Era l’auspicio che un tipo umano ‘nuovo’, non moralista, innamorato degli altri, si facesse largo e diventasse fattore contagioso”. Non era una profezia, lo spunto era una canzone di umanità dirompente uscita anni prima, Io sono Francesco, “che invitava bambine e bambini a non lasciare annegare la scintilla, perché ‘il mondo può essere diverso / tutto può cambiare la vita può cambiare’”. La canzone di Francesco Tricarico. “Buongiorno buongiorno io sono Francesco”. Ci voleva un Francesco: “Il tipo umano ‘Francesco’ è un tipo umano che ama il mondo, che resta incantato dalla sua varietà e bellezza pur vivendo con le mani impastate di realtà, anche della realtà ferita, segnata dai risvolti bui”. Poi la realtà di quella sera piovosa del 13 marzo 2013 sorpassò le aspettative, un Francesco era arrivato davvero. 
La profezia di Tricarico, a parte averci salvato dai cascami di un ratzingherismo ormai avvizzito, aiuta semplicemente a capire questo: il papato di Francesco è stato l’avvento di un tipo umano diverso. Non più santo o meno santo, più capace o meno capace di guidare la Chiesa (“Ho sempre saputo che la Barca della Chiesa non è mia”, disse Benedetto XVI nell’ultima udienza). Ma un tipo nuovo. Il papato di Jorge Mario Bergoglio è stato, tentativamente, un ritorno all’essenziale della fede, per chi ha voluto guardare. Alle preghiere semplici della tradizione, ai sacramenti, alla confessione. Una fede popolare nei gesti del popolo. L’immagine della Salus populi romani sempre al fianco. Niente devozionalismo, niente “Madonne postine”, ma il richiamo diretto di un temperamento, il suo, più mistico che spirituale. Ha riportato al centro l’annuncio a uomini e donne che di Gesù non sanno più nulla: lo guardò e ne ebbe misericordia. I bambini da battezzare sempre, senza badare alle regolarità famigliari (lo faceva già in Argentina), le donne da perdonare subito, per via ordinaria, nei casi di aborto. I “chi sono io per giudicare?”, se nemmeno Gesù ha condannato. L’abc del cristianesimo. Nella lettera “sul ruolo della letteratura nella formazione” ha citato Eliot: “Il poeta a cui lo spirito cristiano deve opere letterarie che hanno segnato la contemporaneità, ha giustamente descritto la crisi religiosa moderna come quella di una diffusa ‘incapacità emotiva’. Oggi il problema della fede non è innanzitutto quello di credere di più o di credere di meno nelle proposizioni dottrinali. E’ piuttosto legato all’incapacità di tanti di emozionarsi davanti a Dio, davanti alla sua creazione, davanti agli altri esseri umani”. Molti hanno scambiato la sua semplicità per inadeguatezza. Invece era scelta di far passare l’annuncio cristiano in un mondo definitivamente secolarizzato, in cui la maggioranza delle persone non sa più nemmeno fare il segno della croce. La conoscenza cristiana, per Bergoglio, è una conoscenza affettiva.



Tra la fine e l’inizio, uniche cose essenziali, ci sono dodici anni di pontificato in cui l’inessenziale, il superfluo, la fuffa mediatica e non solo hanno riempito molto – del resto è il mondo in sé a essere dominato dalla fuffa. Dalle chiacchiere con Scalfari ai messaggi a Sanremo, ma soprattutto gli interventi alla viva il parroco su argomenti su cui non è apparso sempre preparato: l’ecologia, la geopolitica, la “pace un po’ alla buona”, come cantava un altro Francesco, Guccini. Grazie anche al poco o punto aiuto che gli è stato fornito da una curia Selección-Seleção tra le più sgangherate degli ultimi secoli. Nemmeno Dio sa cosa pensano i gesuiti, del resto. Ne parleranno altri, ma sono cose totally unnecessary, mi limito a dire che l’esito peggiore, negli ultimi anni, è aver incrinato malamente il rapporto con l’ebraismo, lui che fu caro amico del rabbino di Buenos Aires, e segnatamente per non aver mai voluto condannare apertamente l’antisemitismo violento islamista. (La prudenza dopo il caso di Manuele II Paleologo, sì. Ma up to a point).
Un passo prima dell’inizio. Era arrivato dopo che un bel film aveva preconizzato la rinuncia di un Papa per mancanza di tenuta psichica (non di Ratzinger: il tema era la fede in sé). Invece Francesco ha dimostrato che si può stare bene nei propri panni di povero cristiano, per dirla col Francesco di Silone, nelle proprie scarpe ortopediche grosse e nere. La miglior risposta a chi, persino molti cristiani, ritiene che la fede sia una questione più che altro psichiatrica. Tornando a quell’inizio come “alla prima Galilea”, a quella sera piovosa di marzo, c’era il sorriso negli occhi di tanti che lo conoscevano, o ne avevano sentito parlare da amici e testimoni fidati. C’era un’attesa confidente del “tipo umano Francesco” che per molti in questi anni è stata compagnia, per molti altri un rifiuto. Certo, un pontificato non è solo questo, ci sono un sacco di impicci di governo: ma riguardano quel che sta in mezzo e il giudizio sulla storia degli uomini. Anche degli uomini di Chiesa.



Ma in quell’inizio e in quella fine ha brillato per molti una scintilla. Un Papa che nella sua ultima enciclica ha voluto scrivere: “Chiedo, quindi, che nessuno si faccia beffe delle espressioni di fervore credente del santo popolo fedele di Dio, che nella sua pietà popolare cerca di consolare Cristo. E invito ciascuno a chiedersi se non ci sia più razionalità, più verità e più saggezza in certe manifestazioni di questo amore che cerca di consolare il Signore che non nei freddi, distanti, calcolati e minimi atti d’amore di cui siamo capaci noi che pretendiamo di possedere una fede più riflessiva, coltivata e matura”. Se l’avvento di Francesco è stato aria nuova per tutti – tranne che per i “clericali clericali” e per “i clericali laici”, come li chiamava Péguy – è perché è stato un ritornare all’inizio di una fede semplice: “Scendi, voglio venire a casa tua” disse Gesù a quel pubblicano di cui ebbe misericordia. Finché ci saranno persone che sentono di non bastare a se stesse, il “tipo umano Francesco” è un tipo umano per il quale nessuno è mai perduto, persino in un mondo che non sa più neanche chi era quel tale che “si faceva chiamare Gesù”, e al massimo può avere la fortuna di incontrarlo per strada. “Buongiorno buongiorno / io sono Francesco”.

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  • Maurizio Crippa
  • “Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini”

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