La Serie A decide di lasciare a metà la 33a giornata di Serie A dopo la morte di Papa Francesco

Le partite di Pasquetta rinviate a data da destinarsi per rendere omaggio al Pontefice. Un campionato che ripartirà con il Napoli che ha raggiunto l’Inter in testa alla classifica, nonostante le recenti ammissioni di presunta inferiorità di Antonio Conte

Quanto è stonato questo lunedì mattina senza più Papa Francesco. La Serie A decide di fermarsi a metà, niente lunch match, niente pomeriggio lungo né dolce serata di Pasquetta, per rendere omaggio al più celebre tifoso del San Lorenzo de Almagro: sarebbe piaciuto vederlo una volta in tribuna a Boedo, ma nel suo paese il celebre oriundo aveva deciso di non tornare mai, come pure di convocare un Concilio per mettere in atto la sua visione del cambiamento della Chiesa nel mondo. Con Karol Wojtyla giovane portiere, Jorge Mario Bergoglio è stato il primo pontefice che amava il calcio e il popolo che gli gira attorno: come tutti gli italiani d’Argentina, del resto, e non a caso la nonna faceva nome Sivori. Le lacrime collettive di oggi sono le stesse che Nuno Tavares ha pianto in Europa League appena rientrato e di nuovo infortunato senza data.

Chi piange nel torneo, invece, è chi si ritrova inopinatamente primo dopo questa mezza giornata. Il Napoli disunito da Antonio Conte approfitta dell’impasse dell’Inter a Bologna e raggiunge la vetta in coabitazione: un paradosso, per l’allenatore che nonostante le sue recenti ammissioni di presunta inferiorità, di ambizioni soffocate, di sconfortante accontentamento può davvero raggiungere l’obiettivo a dispetto di se stesso e della cessione di Kvicha Kvaratskhelia (che mostra miracoli in Champions). Ci risiamo, lo fa sempre: perfezionismo? Non solo. C’è qualcosa di imperscrutabile nella psiche di chi, raro tra gli allenatori italiani, riesce con la sua sola presenza a trasformare una squadra: o così, dicono le stesse tifoserie, è accaduto all’Inter e ora al Napoli del post scudetto. Di Gian Piero Gasperini, demiurgo di Genoa e Atalanta, non esistono sufficienti prove nelle big.


Questa è “La nota stonata”, la rubrica di Enrico Veronese sul fine settimana della Serie A, che racconta ciò che rompe e turba la narrazione del bello del nostro campionato che è sempre più distante da essere il più bello del mondo


Ma un grande allenatore non deve solo pretendere spese o che vengano trattenuti i grossi nomi: semmai inventarsi qualcosa, lanciare giovani del vivaio, sperimentare tattiche inedite. Altrimenti, alla meglio, diventa gestore di uomini: quelli come Fabio Capello prima e Massimiliano Allegri poi, vincenti sì ma spesso in virtù di organici faraonici. Troppo comodo così, quando all’estero si continua a studiare calcio anche una volta (Jūrgen Klopp) seduti sopra qualche trono importante. Antonio Conte andò via dalla Juventus dopo tre scudetti consecutivi perché non fu acquistato Juan Guillermo Cuadrado – sarebbe arrivato solo poi – o Juan Manuel Iturbe, chi lo ricorda; dall’Inter fuggì perché non la pensava adatta alla Champions League, poi sfiorata almeno una volta dal suo successore. Ovvero quel Simone Inzaghi che adotta proprio lo stesso modulo.

E quindi l’Inter, ultimamente sontuosa in quasi tutti i campi e forse perfino bella in coppa, cede. L’undici, definito “ingiocabile” dal suo Henrikh Mkhit’aryan agli ultimi fuochi, a Bologna cerca di portare in salvo un prezioso 0-0 ma non fa i conti con la forma atomica di Riccardo Orsolini, e con un’avversaria che ci crede sempre, al di là dei meriti di gioco. Memento anche per la finale di Coppa Italia, che gli emiliani sono quasi certi di raggiungere mentre l’Inter (e il Milan) ancora no. Dallo stadio Dall’Ara, però, i nerazzurri non escono ridimensionati nel loro standing internazionale: lasciarvi giù i tre punti va oltre la scaramanzia di chi ricorda lo scudetto svanito pochi anni fa, il team di Vincenzo Italiano oggi rende più difficile affrontarlo che non vincere in Baviera, o nutrire speranze per Barcelona. Non è che Conte, alla fine della fiera, in Europa ha paura di fallire?

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