Dodici anni che hanno sconvolto ritmi, liturgie e tradizioni. Intuizioni, colpi di scena e terremoti. Chiamato a mettere ordine, ha aperto tante porte che alla sua scomparsa restano spalancate verso un futuro ignoto
Francesco è morto. Ha regnato sulla Chiesa cattolica per dodici anni, da quella piovosa serata del 13 marzo 2013, quando apparve alla Loggia delle Benedizioni della Basilica vaticana con un inedito “buonasera”, chiedendo al popolo lì presente di pregare per lui e su di lui, vescovo di Roma che presiede nella carità le altre Chiese dell’orbe. Il primo gesuita a divenire Papa, il primo non europeo da più di mille anni. Preso dalla fine del mondo per ribaltare la Chiesa, riformarla e fors’anche rivoluzionarla, come richiestogli da chi l’aveva votato sorprendendo molti esperti di questioni vaticane che lo escludevano dalle short list di “papabili”, non cogliendo che invece quella candidatura già forte nel Conclave del 2005 non era affatto tramontata, tutt’altro.
I porporati, scossi dalla rinuncia di Benedetto XVI e tramortiti dalla sequela di scandali che avevano accompagnato il declinare della breve stagione ratzingeriana, volevano un uomo risoluto che in cuor suo detestasse almeno un po’ la curia romana, che non amasse apparire davanti alle telecamere, in convegni e simposi, che non frequentasse cene di gala e vernissage. Figurarsi i concerti, soprattutto quelli di musica classica. Jorge Mario Bergoglio era perfetto, si convinsero. Anche perché ben pochi di loro lo conoscevano. E lo dissero perfino gli americani, quelli delle culture war che si organizzavano in proprio le conferenze stampa per rimarcare una distanza con i torbidi e corrotti riti romani, convinti di avere parecchie carte in mano da spendere davanti agli eminentissimi colleghi. “E’ arrivato il vento di primavera”, annunciò l’honduregno Óscar Rodríguez Maradiaga, sassofonista per passione e per un po’ vicepapa prima che chiacchiere e scandalucci in patria s’abbattessero pure su di lui, quando gli fu chiesto di commentare l’elezione dell’amico bairense. “Abbiamo eletto un mistico”, confessò sorridente e gaudente un cardinale con patentino da ratzingeriano indomito. E in effetti il profilo di questo gesuita austero che non rideva mai veniva interpretato come l’emblema del distacco da quelle liturgie d’Oltretevere che sovente si mescolano a intrighi e a volteggiar di corvi. Gesuita purissimo che non bada a fronzoli e “carnevalate”, che metterà in riga tutti e caccerà i mercati dal tempio, commentavano i navigati esperti di affari vatticani sulle due sponde dell’Atlantico. Il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, ai giornalisti radunati davanti a lui spiegava d’aver percepito la presenza dello Spirito santo nella Sistina e di aver capito che il Paraclito illuminava proprio lui, Bergoglio. Si dimenticava di aggiungere che nelle congregazioni generali del pre Conclave lui, Schönborn, era stato fra i più attivi in parole e opere nel sostenere il nome del futuro eletto. Deludendo qualche vecchio amico che aveva già annoverato il voto del cardinale austriaco nella tabella pro Scola.
Bastò meno di una settimana a Francesco per rendere inutili i peana e i ritratti, soprattutto quelli che l’avevano definito il “Ruini d’Argentina” per la sua pubblica opposizione all’aborto e l’invito rivolto alle suore affinché pregassero per ricacciare all’Inferno quel diavolo che portava a varare leggi contro la vita. Pochi giorni dopo quel buonasera ci fu il “buon pranzo” all’Angelus, con tanto di lodi a Walter Kasper, teologo di rango sì, ma non proprio ruiniano né ratzingeriano e tantomeno mistico. Qualche porporato volto si fece d’un tratto pensieroso se non cupo: non sarà che non avevamo capito nulla?
Chi è stato Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio? Che cosa ha rappresentato nella bimillenaria storia della Chiesa cattolica? Il suo pontificato non è stato lungo ma è come se in questi dodici anni si fosse riversato mezzo secolo di storia. Fin dalla pubblicazione del suo programma di governo, l’enciclopedica esortazione Evangelii gaudium, si sarebbe dovuto capire che un’èra s’era chiusa e un’altra si era aperta. Con chiarezza adamatina, lì c’era scritto tutto. Tutto quanto sarebbe avvenuto, ora più lentamente ora con più velocità, nei giorni, nei mesi e negli anni successivi. Altro che stabilità, altro che “mettere le cose in ordine”: Francesco ha ribaltato ogni cosa, e mai con la delicatezza che il ruolo gli imponeva. Forse era necessario che accadesse così affinché la Chiesa restasse viva e non si riducesse a museo o ad asettico locale ove adorare ceneri. Ha mandato a processo cardinali intervenendo a cambiare le regole del gioco mentre gli imputati erano alla sbarra, ha squassato movimenti ecclesiali e congregazioni religiose, ha rivoluzionato il Collegio cardinalizio promuovendo vescovi di sperdute isole con un manipolo di cattolici e trascurando arcivescovi di sedi popolose e di grande tradizione. Nulla sarà più come prima, la riforma deve essere profonda, andare alle radici perché non si possa tornare indietro. Lo assicuravano, quasi imploranti, i fidatissimi porporati promossi a scudieri del Pontefice: se vogliamo che Cristo quando tornerà trovi ancora la fede su questa Terra, bisogna cambiare, svoltare. E senza badare troppo alle forme. Francesco ha lavorato d’accetta, provocando consapevolmente lacerazioni che non potranno essere suturate in poco tempo, qualunque cosa esca dal Conclave ormai alle porte.
Il mondo tradizionale, minoritario ma tutt’altro che desolato, si è considerato perseguitato: si vieta, dicono da quella realtà, “la messa di sempre” e nulla si dice sugli show di preti che trasformano l’altare su cui celebrano in palcoscenici per dare sfogo alle loro paturnie, alle frustrazioni di una vita forse irrealizzata. Tra barzellette durante l’omelia e playlist dei “Ricchi e Poveri” intonata con sacri paramenti ancora indosso. Tutte cose che Francesco ha sempre biasimato, lui che celebrava con volto sfingeo, mai un sorriso né una battuta. Che elevava l’ostia davanti alla croce come si faceva una volta, per interminabili secondi, dando sacralità al momento. E pazienza se rinunciava al recto tono: il gesuita nec rubricat nec cantat, disse in principio del pontificato padre Federico Lombardi, spiegando altresì che il Papa aveva problemi nell’intonare a causa d’antichi malanni ai polmoni. Ha creato un ristretto circolo cardinalizio che lo consigliava e lavorava alla grande e attesa riforma della curia: una volta presentata, questa è stata subito superata dagli aggiustamenti papali, fino al punto da nominare governatore della Città del Vaticano una suora, quando la costituzione da lui promulgata prevede che per tale incarico serva un cardinale. Gesti eclatanti, appunto: le donne a capo dicastero, annunciate in tv da Fabio Fazio, cui si rimandava pure al termine dell’Angelus domenicale, prima del consueto “buon pranzo”. O l’apertura della Porta santa a Bangui, nella Repubblica centrafricana scossa dalle tensioni religiose, quando tutti gli dicevano di non andarci, ché era pericoloso. O, ancora, lo storico abbraccio con il Patriarca Kirill, fratello lontano per mille e più anni, a Cuba, in una saletta aeroportuale. Ha aperto alla Cina, sogno del gesuita missionario, firmando un epocale accordo segreto relativo alla nomina dei vescovi nel grande paese orientale, potenzialmente quello con più cristiani sul pianeta. Ha guardato sempre di traverso la superpotenza americana, lui che da vecchio argentino nato negli anni Trenta mal sopportava l’egemonia yankee. Dapprima ha individuato nella Russia putiniana il contrappeso a Washington, quindi ha ripiegato senza troppo successo su Pechino.
Non c’è mai stata pace in questi anni. Se la stagione ratzingeriana è stata accompagnata dalle note del pianoforte, quella bergogliana ha avuto come colonna sonora l’incedere ritmato dei tamburi promettenti battaglie, scontri e tempeste. Il Sinodo sulla famiglia, versione Prima e Seconda, con conte drammatiche all’ultimo voto fra cardinali favorevoli a riaccostare ai sacramenti i divorziati risposati e eminentissimi contrari. Le lettere di denuncia contro il colpo di stato imminente, il Papa che non decideva ma poi scriveva ai confratelli argentini che sì, bisognava fare come c’era scritto in una noticina in calce al testo, che quella era l’unica interpretazione corretta. I dubia cardinalizi rimasti senza risposta, le teste che rotolavano una dopo l’altra fra pensionamenti anticipati di prefetti curiali non allineati, appartamenti tolti a cardinali troppo invisi, promozioni di fedelissimi fino al punto da vestire di rosso sottosegretari di vescovi senza porpora. Senza un criterio apparente né una logica, se non quella dettata dall’impulsività, dalla reazione ai bastoni che la solita curia gli metteva fra le gambe. Perché Francesco non ha mai voluto mediatori tra sé e i fedeli: Yo y el pueblo, io e il popolo. Niente tramiti e guai a chi provava a interpretarne il pensiero, a giustificare un atto firmato o una dichiarazione fatta. Vadano via, il più lontano possibile, segretari eterni, “lecca calze” (cit.) e unti del Signore che si credevano eletti. Non è mai finita bene, per gli improvvidi esegeti del papale pensiero. Il popolo è sovrano, davvero: è lui al centro di tutto ed è per lui che si deve lavorare, pregare, faticare. Ed è al popolo di Dio, “infallibile in credendo”, che si rivolgeva quando interi episcopati gli si rivoltavano contro, come quello tedesco, che con il suo “Cammino sinodale” si avviava verso qualcosa – dixit – di “non cattolico”.
Esaurire in poche righe un pontificato è impossibile, men che meno dare un giudizio che spetterà solo alla Storia, una volta che di acqua – e pure tanta – sarà passata sotto i ponti romani. Francesco non è stato la continuità, come a tratti disperatamente intellò e scrivani assicuravano nei primissimi anni del pontificato, quasi temessero che la cesura rispetto a tutto quel che c’era stato prima spaccasse la Chiesa. In questo sono stati profetici. Francesco ha voluto rompere con consuetudini e prassi, ha fatto da propulsore alle scosse telluriche che in questi anni hanno fatto ballare più d’una volta la Chiesa. Tra fughe in avanti e rapide retromarce, come quando fece dire “no” alla benedizione delle coppie omosessuali e sette giorni dopo, in mondovisione, si scusò facendo capire che non era responsabilità sua e che avrebbe in qualche modo rimediato. Ed ecco “Fiducia supplicans”, il documento con la benedizione a tempo non delle coppie ma dei singoli che la coppia formano: la reazione degli episcopati di mezzo mondo lo hanno costretto a togliere il tema dall’ordine del giorno del Sinodo, spedendo il fidatissimo cardinal Fernández a spiegare meglio, a rettificare, a chiarire anche di quanti secondi debba essere siffatta benedizione. Furioso perché i vescovi, anche quelli da lui nominati, occupavano i social media prendendo le distanze dalla dichiarazione e un cardinale di peso come il congolese Fridolin Ambongo anziché X occupava, bagagli in mano, la hall di Santa Marta: “Non me ne vado finché non si cambia quel testo”, disse. “Fiducia supplicans” è stato un momento fondamentale del pontificato, perché ha chiarito che al di là dei romanzi confezionati ad hoc, la Chiesa era ed è divisa più che mai, anche in quelle questioni che si ritenevano ormai superate.
Francesco ha dovuto frenare più d’una volta e quando l’ha fatto non ha mai celato il suo rincrescimento. Il suo programma, dopotutto, era chiaro: mettere la Barca in mare, lasciarla prendere il largo senza sapere la meta. Vedere dove va, fidarsi dello Spirito. Come chiese Gesù agli apostoli che non si sentivano a loro agio a navigare nelle acque agitate. Nella sua visione, la Chiesa doveva farsi ospedale da campo, aperto a tutti i bisognosi, specie ai più lontani. Cristo, in fin dei conti, disse che lui non era venuto sulla Terra per i sani, ma per i malati. Curare, sanare e suturare. Ecco la missione: basta dogmi e paletti, precetti e teologia. Il prete si faccia pastore con l’odore delle pecore, non stia in alto sul piedistallo a comandare e bacchettare. Neanche in confessionale, dove deve accogliere tutti e perdonare tutto. E’ il Francesco che a Buenos Aires battezzava chiunque glielo chiedesse, senza chiedere certificati o stati di famiglia. Todos, todos, todos. Soffriva chi a Roma gli spiegava che così non si poteva, che c’erano norme e regole, canoni e prassi: quando andava bene, li congedava. Quando andava male, li allontanava dalla curia. Non a caso, qualche monsignore scherzando ma neanche poi tanto, diceva che nell’èra bergogliana una cosa sola era fondamentale: rendersi invisibili. Aspettare, insomma, che la piena passasse. Un po’ come quei vescovi che entravano nel Palazzo apostolico per conferire con il Papa e al collo avevano belli croci dorate e poi dalle foto si vedeva che misteriosamente quelle croci, nel momento in cui si salutava l’augusto Pontefice, s’erano trasformate in metallo.
Francesco ha destabilizzato la Chiesa, per qualcuno fortunatamente e per altri sciaguratamente. I primi sono convinti che solo così essa si sia potuta salvare da un destino museale, i secondi pensano che l’abbraccio al mondo abbia contribuito a determinarne l’irrilevanza. Ambivalente è stato il giudizio sul piegarsi sulle ferite dei più vulnerabili, con la grande opera di pulizia circa gli abusi: Francesco ha fatto della tolleranza zero un mantra, colloquiando con le vittime, sostenendo pubblicamente le campagne votate alla trasparenza, anche quelle assai giacobine che non tenevano conto del principio del giudizio definitivo. Ma quando ha convocato i vescovi a Roma per un corale mea culpa, per la prima volta nella storia, ai lati del colonnato la folla chiedeva manette e agitava cappi. Il popolo non era interessato alla cenere che cospargeva il capo del Papa e dei cardinali: voleva solo vendetta e umiliazione.
Ha fatto di tutto per sottrarre la Chiesa alla sua comfort zone occidentale, al suo essere europea. Da qui l’afflato verso le periferie, geografiche e sociali, la scelta di guardare il mondo da un’altra prospettiva, inconsueta. “I grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalle periferie. Si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto”, diceva. Ecco allora, da Papa callejero, i viaggi a Lampedusa e nel Caucaso, a Timor Est e a Bangui. Niente capatine nelle grandi capitali, neanche quando si trattava di celebrare la riapertura di Notre-Dame: meglio andare mezza giornata in Corsica, fra quelli che mai hanno amato Parigi. La globalizzazione è buona, osservava, basta intendersi sul suo significato: “Se la globalizzazione è una sfera nella quale ogni punto è uguale, equidistante dal centro, annulla, non è buona. Se invece unisce, come un poliedro nel quale tutti sono uniti e ognuno conserva la propria identità, allora è buona e fa crescere un popolo”.
Francesco è stato il primo Papa a celebrare il funerale del predecessore dall’Ottocento, da quando Pio VII benedisse il feretro di Pio VI morto in esilio in Francia. Bergoglio ha coabitato con Benedetto nel recinto vaticano per quasi un decennio, andando a trovare di tanto in tanto il “nonno” silenzioso nel suo monastero. E’ riuscito ad aprire la Porta Santa del Giubileo della speranza, affannato e sfinito. L’ultimo atto del Papa mistico e poco avvezzo a schermi e telecamere, scherzi del destino, è stata l’apparizione al Festival di Sanremo. Di quel che sarà la Chiesa plasmata da Francesco nel turbinio di questo pontificato, lo dirà il tempo. Nessun altro.