Jovanotti e le quattro stagioni di un’infinita giovinezza

Quante vite ha già vissuto Lorenzo Cherubini: dal cappellino e i versi efferati alle poesie e le riflessioni sull’esistenza. Ora la rinascita dopo l’incidente. Nostalgia e ironia, dolore ed equilibrio. Note a margine di un concerto

Il suo penultimo viaggio in bicicletta Jovanotti lo aveva raccontato in un documentario delizioso, “Non voglio cambiare pianeta”, che era uscito nel 2020 e si può ancora vedere su Rai Play: sedici puntate con lui quasi sempre da solo in bicicletta sui saliscendi delle Ande peruviane (o, nel gergo motivazionale del redattore Rai: “Dagli Appennini alle Ande, 4000 chilometri fa. Musiche, parole, panorami, salite, discese e tanto sudore per condividere la sua avventura umana e sportiva”). J. aveva già passato i cinquant’anni (quindi si faceva chiamare ormai Lorenzo, ma qui adoperiamo il nome antico), e nel documentario – che non era il primo del genere, J. aveva già attraversato in bicicletta la Nuova Zelanda anni fa, filmandosi, ma era molto più lungo ed elaborato, cioè arricchito di musica, jingle ed effetti visivi – nel documentario avevo creduto di vedere un festoso congedo dalla giovinezza, l’ultima fuga prima della mezza età inoltrata (a casa c’è una moglie molto amata, una figlia adorata e adorante che ha avuto anche problemi seri di salute, una squadra di collaboratori che lavora soprattutto se lui lavora: era tempo di rientrare nei ranghi, di indossare la grisaglia).

Viaggio e documentario erano una cosa inaspettata ma non troppo, nel senso che erano molto intonati al personaggio. Non conosco altre pop star che lasciano tutto per settimane o mesi e finiscono a pedalare in Colombia senza troupe al seguito, solo con una GoPro sul manubrio. Di solito le divagazioni sono più comode: al massimo Daniel Day-Lewis va a fare il calzolaio a Firenze. Ma a Firenze, appunto, non sugli altopiani del Sudamerica; e – mi sono informato – era un calzolaio di lusso, le risuolature anche in pelli esotiche (ricordo che in città si favoleggiava di sottopiedi in zibellino, in elefante, roba da Carica dei 101) costavano come una magnum di Krug. Ma J. ha un animo autenticamente avventuroso, è un po’ un Alessandro Di Battista venuto bene, e dal videodiario risaltava, a parte una forma fisica invidiabile, soprattutto la sua prodigiosa capacità di legare con gli sconosciuti, in breve la sua simpatia, un tratto del carattere che sembra essere rimasto intatto dagli anni della post-adolescenza, quelli di 123 casino e Siamo o no un bel movimento, mentre quasi tutto il resto intorno a lui e in lui è cambiato.

Ma mi sbagliavo, Non voglio cambiare pianeta non era un congedo dalla giovinezza raminga e spensierata. Nell’estate del 2023 è ripartito, non proprio per una traversata impegnativa come quella andina ma per una vacanza sportiva nella Repubblica Dominicana, però sempre portandosi dietro la bicicletta. Ha sbattuto in un dosso, è caduto male, si è sfracellato una gamba e ha rischiato di morire per infezioni, setticemie, malasanità caraibica. Tornato tutto rotto in Italia, ha dovuto sopportare un anno e mezzo di interventi chirurgici, fisioterapia, ginnastica, riabilitazioni, massaggi, diete, ma ha anche trovato il modo e il tempo di scrivere un album nuovo – con anche un paio di canzoni che riflettono sullo scampato pericolo: “Quel giorno in ambulanza ho capito che si muore” – e soprattutto di ri-organizzare la tournée che avrebbe fatto a suo tempo se non ci fosse stato l’incidente, tourneé che è iniziata a marzo e finirà a maggio e che è ovviamente trionfale, un po’ perché c’è davvero del sovrumano, da pacifico Triumph des Willens, in un ultracinquantenne che, ancora mezzo fratturato, si mette a ballare e cantare per due ore e mezzo in un palazzetto dello sport (“Come stai?”. “Sul palco benissimo, durante lo spettacolo nessun problema. E’ il resto del tempo che è una tortura”), e un po’ perché lui è pur sempre lui.

E cioè – chi? Dopo quasi quarant’anni di carriera (il primo singolo è del 1987), si potrebbe tentare un ritratto.

Intanto: continuità o discontinuità? E’ rimasto lo stesso o è diventato tutta un’altra persona?

Di solito, le star del pop sono individui continui, che trovano la loro voce un po’ dopo i vent’anni e la ritoccano e perfezionano senza stravolgerla nel corso della carriera: De Gregori era già in sostanza questo De Gregori ai tempi di Rimmel. Vasco Rossi era ovviamente questo Vasco Rossi quando bofonchiava Colpa d’Alfredo. E Baglioni, Califano, Cohen… Forse quella cosa così mal definibile che chiamiamo credibilità, in un artista pop, è soprattutto l’idea, l’impressione che nell’artista giovane sia contenuto in potenza l’artista anziano (e viceversa: che l’artista anziano sia l’entelechia dell’artista giovane) e che la maturazione avvenga secondo una linea di coerenza, di continuità, attraverso piccole riforme non rivoluzioni. Altrimenti vuol dire che si finge, e nel pop la finzione si accetta soltanto se l’io si oblitera nel personaggio, nella maschera, com’era il caso del giovane Bowie, oggi forse di Lady Gaga.

Visto da fuori, J. è un caso diverso, a cominciare dal nome. Quelli cresciuti nel Novecento lo chiamano ancora Jovanotti, il nomignolo scemo/divertente che si era scelto quando ha cominciato a scrivere canzoni (dicono le agiografie che doveva essere Joe Vanotti, ma sulla locandina dell’esordio hanno sbagliato a scriverlo e poi era tardi per correggere), mentre per quelli venuti più tardi è Lorenzo Cherubini, o semplicemente Lorenzo. Essersi scelti, nell’entusiasmo della gioventù, un nomignolo scemo/divertente come Jovanotti è uno di quegli errori che avrebbe senz’altro stroncato la carriera di artisti meno solidi di lui: era difficile prenderlo sul serio, ragionarne senza sorridere, quand’era giovane, anche per colpa del nome; ed è stato difficile, dopo, ammettere che la qualità delle canzoni che faceva contraddicevano il pregiudizio negativo che il nome – Jovanotti anche a trenta, a quaranta, a cinquant’anni – proiettava sull’opera. Uno si fruga nella memoria per trovare altri esempi di pseudonimi malriusciti, o inidonei all’invecchiamento, e purtroppo peggio di “Jovanotti” sembra esserci soltanto “Pupo”.

E anche lasciando stare il nome e il nomignolo, quale unità o continuità, quale comune denominatore si può sperare di trovare in un percorso tanto sinuoso? A 22 anni De Gregori pubblicava Alice; lui a 22 anni metteva i dischi a Deejay Television, indossava un cappellino rosso con la visiera girata sulla nuca, un paio di boxer a strisce e una maglietta con la scritta GET OFF MY DICK, e pubblicava l’album Jovanotti For President, che contiene versi efferati come i seguenti (da Gimme Five): “It’s a new sensation / Really good vibration / Come on gimme five / Body stimulation”.

Passano trentacinque anni, e Lorenzo Cherubini è co-curatore di un’antologia di poesia otto-novecentesca per l’ottimo editore Crocetti (Poesie da spiaggia, 2022), e i supplementi culturali dei quotidiani se lo contendono per sapere che libri legge e che libri consiglia di leggere. Naturalmente si può liquidare la faccenda dicendo che non ci sono più gli editori e i supplementi culturali di una volta, ed è senz’altro vero; ma anche lui è molto cambiato, e non – come la maggior parte dei suoi colleghi – secondo la modalità ‘riforma’ ma secondo la modalità ‘rivoluzione’.


Provando a periodizzare, mi pare sia cambiato soprattutto due volte.

La prima stagione, quella del cappellino e dei versi efferati, che dura dai suoi 18 anni ai suoi 23-24, a me piaceva parecchio. Non ricordo se avevo il coraggio di dirlo ad alta voce, all’epoca, probabilmente no. Ho cinque anni meno di lui, ero al liceo, vivevo, vivevamo in quella bolla di simulazione che è l’adolescenza: a me La mia moto metteva tantissima allegria (“Sei come la mia moto / sei proprio come lei / andiamo a farci un giro / fossi in te io ci starei”), ma erano tempi in cui in cui si veniva guardati male anche solo se si ascoltavano i cantautori italiani, e non mi pare esistesse quella modalità d’ascolto ironica che oggigiorno permette di digerire un po’ tutto (“È brutta ma mi piace”), o non per me. Per i compagni di scuola più esperti, J. era – per dirla gentilmente – derivativo, un clone sfiatato dei Run DMC e dei Beastie Boys: ma allora tanto valeva ascoltare gli originali che – oltre a non articolare versi tremendi come “So come on you participate / It’s now the time to celebrate / Par-par-party check up this beat / Now boys and girls get on your feet” – erano anche selvatici come il codice del rap dell’hip hop richiedeva allora, mentre lui aveva, oltre agli altri, il difetto della carineria. Così, credo di aver fatto come si faceva coi giornali porno, ho nascosto le sue canzoni in mezzo ai nastri di David Sylvian, Siouxsie and the Banshees, Jim Croce e altre cose raffinatamente depressive che però si portavano molto nei corridoi del Liceo Ginnasio Massimo D’Azeglio.

Verso il 1990 – ha detto J. in un’intervista recente (Belve) – il personaggio-Jovanotti ha cominciato a stancare: “Quel personaggio che era esploso nell’immaginario di tanti, ragazzini soprattutto, non funzionava più perché quei ragazzini crescevano, quindi ti rifiutavano. Mi sono sentito perso, non sapevo più chi ero, a chi parlavo. Quindi mi sono messo a lavorare”. Il lavoro deve averlo fatto sulla voce (J. non aveva la tecnica, da ragazzo, ma un po’ l’ha imparata, e adesso è bravo senza essere Sinatra: nello spettacolo che porta adesso in giro per l’Italia a un certo punto tiene una nota lunghissima, tipo cantante d’opera, poi si volta verso le coriste e commenta: “Voi che siete cantanti vere, mica male no?”; ma anche lui ormai è un cantante vero), sulla competenza musicale, gli strumenti (mi pare che abbia sempre avuto il dono impagabile di certi grandi cantautori, che trovano melodie semplicissime ma perfette anche senza essere musicisti provetti), ma soprattutto sui testi, che dai primi anni Novanta – maturando lui – si fanno più maturi.

Jovanotti (foto Ansa)

Ora, di questa seconda fase – che è la fase che lo consacra, trasformandolo in pop star molto amata e rispettata, da prodotto cecchettiano per teen-agers che era – io non sono un ammiratore. Cioè: riconosco che ben poche canzoni degli anni Novanta suonano ancora nuove e originali e moderne come Sono un ragazzo fortunato o L’ombelico del mondo o Penso positivo (in particolare il coro di voci giovani a due terzi del pezzo: “La storia la matematica l’italiano la geometria / la musica, la la musica: / la fantasia”), e sono magnifiche quando vengono cantate e inscenate (è il verbo giusto) dal vivo. Quel suono! Sono gli anni in cui, all’università del pop, J. prende i suoi due master in (1) canzone romantica, anche da battesimo (Per te) o da matrimonio (A te); e, soprattutto (2) canzone che si balla da soli, agitandosi disordinatamente, una cosa che si esegue con la voce ma anche col corpo: un genere nel quale mi pare che ancora adesso non abbia rivali (ed è chiaro che tra i suoi talenti c’è stato quello di essersi saputo circondare di collaboratori prodigiosamente bravi nella composizione, nell’arrangiamento: Saturnino Celani, sin quasi dagli esordi, Michele Centonze, Riccardo Onori, e oggi per esempio un tastierista capace come Franco Santarnecchi – ormai ha un repertorio tale che funzionerebbe anche da solo in modalità unplugged, ma metà del piacere, ascoltandolo dal vivo, viene dal virtuosismo dei musicisti e dalle coriste che lo accompagnano).

Ma anche ammesso tutto questo, il problema è che il J. trentenne, il J. che cerca di emanciparsi da “Jovanotti”, in questa seconda fase creativa scopre anche l’impegno politico-sociale, come càpita in effetti a molti trentenni, soprattutto a quelli che vogliono farsi perdonare una giovinezza troppo spensierata, mentre forse il vero progresso sarebbe conservare la spensieratezza anche a trent’anni, e dopo. Ora, l’impegno politico-sociale nell’arte lo si perdona sempre a stento, e a fronte di risultati sommi; nell’arte pop non lo si perdona neanche a Dylan, anche perché nelle canzoni, lo spazio essendo poco, la fregola dell’impegno politico-sociale si manifesta attraverso il Messaggio, “quell’orrore degli orrori preso a prestito dal gergo dei riformatori quaccheri” (Nabokov).

Esempi: dopo il suddetto delizioso coro (“La storia la matematica l’italiano la geometria…”) si apre l’abisso di “Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa / che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa”; e il bel suono teso di Benvenuti nella giungla viene sprecato per un mini-pamphlet contro “i politici imbroglioni” e “gli sciacalli che hanno il potere”. E poi le mine anti-uomo, il lavoro minorile, gli spacciatori di droga, i bambini africani, i partigiani, la Nato che bombarda Belgrado… E canzoni a parte, sono gli anni del libro di viaggio leggermente (leggermente) dibattistiano Il grande boh, del libro fotografico coi primi piani intensi, delle interviste su don Milani, dell’amicizia con Fernanda Pivano. Era meglio “Mi chiamo Grinta: / a me la musica mi dà la spinta”, ma per davvero.

Ma poi…

Ma poi superato lo scoglio dei trent’anni, dei trentacinque, succede qualcosa. Il Messaggio si fa discreto, o addirittura sparisce. J. scrive testi atteggiati come elenchi incongrui o come flussi di coscienza (Salvami, Falla girare, Tanto); soprattutto, scrive canzoni che anziché raccontare, anziché tentare di persuadere, cercano soprattutto di descrivere uno stato d’animo indistinto, sfocato, e lo fanno con la tecnica degli impressionisti, mettendo l’una accanto all’altra frasi che, più che svolgere un discorso, evocano una visione: “Case di pane, riunioni di rane / Vecchie che ballano nelle Cadillac / Muscoli d’oro, corone d’alloro / Canzoni d’amore per bimbi col frac / Musica seria, luce che varia / Pioggia che cade, vita che scorre / Cani randagi, cammelli e re magi / Forse fa male eppure mi va / Di stare collegato / Di vivere d’un fiato / Di stendermi sopra il burrone/ E di guardare giù” (Mi fido di te).

E’ il 2005, c’è ancora molto kitsch (c’è quasi sempre molto kitsch nelle canzoni pop: ma non è detto che disturbi, anzi), e infatti Veltroni sceglierà Mi fido di te come inno del PD, andando giustamente a sbattere. Poi J. compie quarant’anni, che sono l’età più bella, quella che viene dopo l’ingenuità ma prima del cinismo. Nel 2008 esce Safari, il disco che a me pare inauguri la sua terza fase, quella che lo fa diventare un po’ inaspettatamente – chi l’avrebbe detto, dell’autore di Gimme Five? – uno dei più interessanti cantautori della sua generazione, nonché il più facile da amare. Tre anni dopo, Ora conferma l’impressione. La struttura delle canzoni-elenco si complica, si perfeziona: resta ferma la tecnica di giustapporre frasi legate da nessi logici evanescenti, ma le parole (“I giornalisti – ha detto in un’altra intervista recente – con me vogliono parlare dei testi, che per me spesso non contano quasi un cazzo, soprattutto se estrapoli le parole dal contesto”: ma non è vero), le parole vengono scelte e assortite con un’intelligenza che prima non c’era. E’ con Safari che i testi di J. cominciano a trasmettere l’emozione caratteristica, tipicamente jovanottiana, di essere – lui e noi che ascoltiamo – una nota nell’armonia del cosmo, di appartenere a un Tutto fondamentalmente benevolo, senza però la patina new age che a volte rendeva stucchevoli le canzoni della seconda fase. In chiave elegiaca (Fango): “Io lo so che non sono solo / Anche quando sono solo / Io lo so che non sono solo / E rido e piango / E mi fondo con il cielo e con il fango”. Oppure in chiave euforica (Safari): “Ho diamanti sotto ai miei piedi / Ho un oceano dentro alle vene / Ognuno danza col suo demone / E ogni storia finisce bene”. Anche chi non crede al Tutto, e men che meno alla sua benevolenza, sente una corda vibrare.

Che cos’è cambiato, sulla soglia dei quarant’anni? Le illazioni fondate sulla biografia sono sempre sospette, perché che cosa mai sappiamo veramente delle vite degli altri? Eppure… Alla domanda (sempre Belve) sulle gioie e sui dolori, se siano state più grandi e intense le prime o i secondi, J. risponde come risponderebbe qualsiasi adulto intelligente: “Sono stati più intensi i dolori” (ma poi aggiunge che sono stati pochi; e le gioie meno intense, ma tantissime: e anche questo è giusto). Ha perso un fratello, morto cadendo con un ultraleggero; ha perso la madre, che secondo i suoi racconti era una donna inabile alla felicità nonostante i successi del figlio, ha visto sua figlia ammalarsi, ha sperimentato quello che nelle Confessioni sant’Agostino chiama “l’acre collirio del dolore”. Messo negli occhi delle rare persone sensibili, è un collirio che aiuta a vedere meglio, più chiaro, e forse anche a scrivere meglio, certamente in modo più maturo. Ma d’altra parte è anche vero che, negli anni Dieci, questa overdose di collirio ha generato soprattutto un’infilata di canzoni allegre, solari, che contano tra le più belle della storia del pop italiano: Le canzoni, Megamix, Il più grande spettacolo dopo il Big Bang, I Love You Baby, L’estate addosso, Il mondo è tuo, il capolavoro che è Se lo senti lo sai… Forse più del dolore ha contato la stabilità raggiunta, l’assestamento nella vita adulta, un equilibrio anche affettivo che ha liberato tutte queste energie positive. Mah.

E così adesso all’Inalpi Arena di Torino c’è quel pubblico multi – o pluri – generazionale che, arrivato a una certa età, qualsiasi artista sogna di avere, e che è rarissimo avere quando si cantano canzoni, perché il pop invecchia alla velocità del fulmine, e quello che commuove la generazione X fa sbadigliare i millennials, e viceversa. Ma non J. (come non Vasco Rossi, o Max Pezzali; ma – dicevo – loro rimanendo costanti nel tempo, lui cambiando pelle, musica, modo di scrivere: anche lui un giorno, presto forse, potrà fare un’Eras Tour).

Nel backstage, con ai piedi le scarpette rosse da ballo e un abito da mangiafuoco, J. racconta, tra divertito e scandalizzato, dei milioni di viewers che ha avuto in poche ore su TikTok un suo video in cui cucina delle uova al forno, e mentre racconta l’aneddoto SALTELLA sulle sue gambe maciullate, fermandosi un attimo soltanto per farsi la foto con qualche fan insistente che è riuscito ad arrivare fin qui. Un giornalista di una certa età si mette a raccontargli della SUA operazione alla schiena, che l’ha costretto a letto per diversi giorni, e per un attimo respiriamo tutti una deliziosa aria di irrealtà: “Ah, ti fa male qui? A me invece fa male qui”. E’ giusto, è umano sciorinare la propria cartella clinica, fare la gara degli acciacchi, solo che J. ha passato un anno e mezzo a letto perché si è polverizzato il femore, e adesso sta per salire su in palco di fronte a diecimila persone (nella quarta fase della sua carriera dovrà forse smetterla di agitarsi in questo modo, premere sul tasto intimistico-cantautorale piuttosto che su quello danzereccio, giocarsi la carta della profondità? Ma Jagger ha continuato fino a ottant’anni…).

Il concerto è la cosa più simile a una festa che si possa immaginare, e le feste non si descrivono bisogna esserci. Sullo schermo, i corpi di J. e della band si trasformano in altri corpi sotto i nostri occhi, a una velocità tale e con tali esplosioni di colori da dare, insieme al divertimento, un leggero senso di nausea (poi mi verrà spiegato che questo morphing in tempo reale è un’invenzione recentissima, che questa è la prima volta che viene usato in un concerto, e bla bla bla). La scaletta mette insieme sapientemente canzoni vecchie e nuove, ma non succede – come succede spesso ai concerti – che si aspettino ansiosamente le canzoni vecchie perché le nuove non si conoscono ancora, o sono mediocri: qui si canta tutto, e il presente sembra all’altezza del passato, e per esempio Un mondo a parte, dall’ultimo album, è un’eccellente canzone d’amore (quanto alle canzoni vecchie, per la mia consolazione J. ha tagliato la strofa di Penso positivo in cui salta fuori Madre Teresa). E naturalmente ci sono un mucchio di versi che ‘risuonano’ con le attuali condizioni psicofisiche dell’uomo che li pronuncia, e in quei punti la voce del pubblico giustamente si solleva di qualche decibel: E’ bello vivere ANCHE SE FA MALE, Se cado cento volte mi rialzo CENTOUNO…

Quanto a lui, infine, quanto al cantante-performer che si dimena sul palco, sembra impossibile ma compirà cinquantanove anni in autunno, e oltre ad essere uno dei rari artisti italiani viventi di cui m’interessano le opere e anche un po’ le opinioni, mi pare anche un uomo che ha saputo fare mirabilmente i conti con sé stesso: senza cambiare natura ma reagendo con intelligenza ai cambiamenti, come bisogna fare quando da giovani si è vocati a qualcosa, ma non a qualcosa di preciso, e la propria strada la si scopre a mano a mano che gli anni passano e si accumulano esperienze. Flaiano scrive da qualche parte che prima di giudicare la vita bisogna aver vissuto a lungo, e che lui ha cominciato a capirla, la vita, passati i sessant’anni. E’ difficile pensare a due esseri umani più diversi di Lorenzo Cherubini ed Ennio Flaiano, fa sorridere anche solo trovare i loro nomi nella stessa frase: l’innamorato dell’esistenza e lo spregiatore degli esseri umani. Ma valga l’augurio. Già adesso, così scavato e ieratico, J. ha l’aria del saggio di mezza età, uno a cui confideresti i tuoi segreti, le tue pene. Il decennio che viene potrebbe portargli consapevolezze inattese, da riversare in canzoni – miriamo alto – alla Battiato, alla Conte, alla Cohen. E insomma sarà interessante vederlo invecchiare, dopo tanti anni passati ad incarnare, splendidamente, l’idea italiana della giovinezza. E magari cambierà carattere, capirà che non c’è granché da sperare in un Tutto benevolente, che dalle crepe non passa nessun raggio di luce, si flaianizzerà: i vecchi sono cattivi.

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