Perché stavolta il team Venturini-Michele non ha funzionato

In congedo per malattia il ceo di Valentino, non si esclude l’uscita del designer, i conti affondano. Non si tratta solo di crisi del mercato. Ragioni di un fallimento

L’ultima volta che ho incontrato Jacopo Venturini, ceo di Valentino prossimo all’uscita dopo che l’operazione-Alessandro Michele ha portato a un crollo dei fatturati ma ufficialmente in congedo per malattia e, pur volendo rispettare la sua privacy, non è la prima volta che questo avviene e speriamo in bene, era la fine di gennaio e la maison presentava la prima collezione couture firmata dal nuovo direttore creativo a Parigi. Recandomi all’incontro post-sfilata con il designer ai piani superiori del vecchio Palais Brogniart, sede dell’antica Borsa, incrociai la venditrice di un’area geografica storicamente molto ricettiva con le collezioni Valentino, non dirò quale perché in azienda il clima risulta molto teso, che si confessò molto preoccupata perché “almeno il trenta per cento delle clienti” aveva preferito declinare l’invito, nel timore di dover fare acquisti. Nella couture, le clienti più importanti, signore che spendono dai due milioni di euro all’anno in su, vengono infatti invitate a Parigi a spese dell’azienda e partecipano non solo alla sfilata, ma a cene riservate, visite, colazioni con l’autore delle collezioni ma anche con attori e celebrities ingaggiate per l’occasione, conducendo insomma quella che ormai viene definita, banalmente ma imprescindibilmente, una “experience”. Essere invitate senza ordinare alcunché, che significa anche fare prove e dunque investire tempo e denaro ulteriore, nel caso specifico a Roma, non è ovviamente possibile e dunque, pur di non essere messe nelle condizioni di dover spendere una montagna di denaro per abiti che non avrebbero voluto indossare, le clienti dell’area geografica alto-spendente rimasero a casa. O, forse, accettarono l’invito di qualcun altro visto che da Armani dovettero organizzare addirittura due sfilate e da Dior non cadeva uno spillo a terra.

Come scrivevo poche settimane fa, i tempi difficili che il pret-à-porter sta vivendo adesso si sono infatti rivelati invece ottimi e interessanti per l’alta sartoria, alla quale è tornata a rivolgersi quel genere di clientela stanca di pagare mille euro per una maglietta con quattro ricami a macchina attorno alla scollatura riprodotta in migliaia di copie, ma ancora ricca abbastanza da desiderare un capo ben fatto, esclusivamente per sé. Incrociando Venturini all’ingresso del salone dove Michele non sarebbe riuscito a trattenersi dal confessare che le première gli avevano fatto vedere i sorci verdi per mesi, testando di continuo la sua – peraltro e onestamente dichiarata – incompetenza sartoriale, gli rivolsi una di quelle gentili frasi fatte che chiunque si aspetta di ricevere dopo un debutto così importante, e lui rispose che era solo l’inizio. In realtà era, e tuttora pare che sia, la fine.

Due settimane fa, Michele ha “rilasciato”, pessima traduzione del verbo inglese “to release” che significa diffondere ma che l’ambiente della moda traduce letteralmente, la collezione per la prossima primavera, nei tempi, con i modi e nello stile dello scorso anno e in realtà della stessa collezione inverno presentata lo scorso marzo a Parigi, che entrerà nella storia come “la sfilata nei bagni rossi” (per inciso: come sia stato possibile che l’Institut du Monde Arabe abbia accettato di ospitare quella presentazione, nonostante il potere della controllante di Valentino, il fondo sovrano del Qatar Mayhoola, è ancora un mistero). In ogni caso, sulla mail di qualche decina di migliaia di persone, durante le sfilate uomo di Parigi è atterrata una bella presentazione digitale, devo dire genialissima nella forma (le ragazze sono riprese buttate sui letti, leit motiv di stagione) ma identica nella sostanza alle decine di collezioni di Michele che abbiamo visto dal suo debutto come direttore creativo in Gucci, nel gennaio del 2015, a oggi. Dovunque vada, con qualunque archivio abbia a che fare, questo cinquantenne più vicino a uno stylist o a un costumista che a un designer continua infatti a proporre gli zoccoli col logo a vista, le scarpine di vernice alla bébé, gli abitini corti col collettone, le bandane, le borse a tracolla, gli occhialoni Sixties, le calze ricamate. A Michele continua insomma a piacere quello che piace a Michele, il che va benissimo se, come accadde negli anni di Gucci, si ha la ventura di poter applicare la propria estetica, il proprio gusto, a un momento storico-sociale favorevole e ricettivo. Quando questo non accade, come in Valentino dove la clientela non si accontenta di una cintura e vuole il “core”, cioè bei vestiti donanti – è perfino tornato di moda il bustino, il cafonissimo matrimonio Sanchez-Bezos era tutta una strizzatura – il risultato è un fatturato in calo del 22 per cento, qualche voce interna dice che la percentuale sia addirittura superiore. A queste voci – che volete Roma è in fondo una città piccola – se ne aggiungono altre che parlano di dissapori interni, di un clima escludente per chi non faccia parte del team, numeroso peraltro, che Michele ha fatto assumere al suo arrivo, di rapporti difficili con uno dei fondatori, Giancarlo Giammetti, che poche settimane fa, sul seguitissimo account modaiolo Fashion Cricket, ha risposto con un post risentito a un’osservazione pubblica del designer sul tema della bellezza.

Nella capitale si dà infatti per molto possibile e prossima anche l’uscita del direttore creativo; dopo di che, si suppone, sarà il diluvio. Se molti, a fine maggio, avevano notato l’assenza di Michele alla cena di celebrazione dell’apertura di PM23, la fondazione intitolata a Giammetti e Valentino Garavani che si affaccia sulla stessa piazza della maison, a differenza dei suoi predecessori Pierpaolo Piccioli e Maria Grazia Chiuri, quasi nessuno sa, invece, che Venturini viveva chiuso dapprima nell’ufficio milanese, e ora a casa, da molti mesi. Spiace molto, assistere a una parabola discendente così veloce in una casa di moda che nell’immaginario mondiale è sostanzialmente sovrapponibile alla stessa idea di Made in Italy, e fa specie vedere come la riproposizione delle stesse dinamiche sia impossibile da un anno e da un brand all’altro: la ricostituzione del dream team Michele-Venturini che, escluso il ceo Marco Bizzarri, aveva caratterizzato l’ascesa irresistibile di Gucci alla metà dello scorso decennio, si è rivelata infatti fallimentare in Valentino, e questo nonostante per Venturini si trattasse della terza assunzione nella maison fondata sessant’anni fa. Perché? Per molte ragioni, non solo social-culturali e nemmeno legate esclusivamente al momento di crisi della moda. Gucci nasce come casa di accessori e come tale viene tuttora vissuta; ed esclusione del periodo Tom Ford, le sue vendite sono sempre state determinate da borse e scarpe, non dall’abbigliamento; Valentino, al contrario, è la maison che vestì Jackie per il matrimonio con Aristotile Onassis con un abito riprodotto tuttora, che ha dato vita a una sua sfumatura di rosso Pantone e che, dopo un intenso lavoro di riposizionamento presso la fascia più giovane, era tornato ad essere oggetto di desiderio delle diciottenni.

Al momento del “rilascio” della prima collezione di Michele, sul “Foglio della Moda” scrivemmo che se in Valentino pensavano di generare fatturato con le mollettine per capelli e le calze di pizzo non avevano proprio capito il contesto: non basta tutta la community di Michele, tanto interessante e alternativa, per coprire la mancanza delle ricche dell’area geografica alto-spendente che non salgono sull’aereo neanche pregate, e il successo sui social non si traduce automaticamente in vendite. Quando Piccioli, ora nominato direttore creativo di Balenciaga nel compiacimento generale, venne allontanato da Valentino, nel marzo del 2024, i risultati erano leggermente in perdita ma le prospettive ottime. Anni di lavoro competente sulle collezioni e di comunicazione attenta avevano moltiplicato il valore della maison al punto che, nel luglio del 2023, Kering se ne era assicurato il 30 per cento per 1,7 miliardi, con l’impegno ad acquisire tutto il resto del capitale entro il 2028, per una cifra che adesso pesa intollerabilmente sulle strategie del gruppo in crisi in cui è appena stato nominato come ceo l’ex numero uno di Renault Luca de Meo, si dice con una forte pressione da parte del governo francese. I conti ora dovranno essere rivisti, così come “il prodotto”, come si dice in gergo. Che le cose andassero, anzi vadano, molto male, si è capito quando, per la prima volta nella storia, le vetrine della storica boutique di piazza di Spagna sono state allestite con sole borse. Secondo indiscrezioni, a Venturini potrebbe succedere Riccardo Bellini, ex amministratore delegato di Chloé e Maison Margiela, entrato in Mayhoola lo scorso gennaio, ma è chiaro che anche questa nomina dovrà passare per l’approvazione di Kering.

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