Le armi, le pere e le mele. Quanti miliardi ne servono?

Per portare le spese militari al 3,5% del pil, come chiede la Nato, serviranno 30-40 miliardi in più a regime. Sono tanti soldi, non c’è bisogno di esagerare sparando cifre da 450 a 700 miliardi

Si dice che la matematica non è un’opinione, ma non in politica, dove tutto è interpretazione. Il caso più evidente è quello dell’aumento delle spese militari fino al 5% del pil deciso dalla Nato. Dalle parti del governo si ridimensiona lo sforzo richiesto, mentre dal lato delle opposizioni ognuno dà i numeri che gli pare. È un’escalation: a ogni dichiarazione c’è chi risponde aumentando il conto: 70, 175, 350, 445, 700 miliardi e così via.

C’è da dire che l’ambiguità è già tutta nell’accordo siglato all’Aia. In quell’accordo tutti i paesi membri della Nato hanno stabilito di portare, entro il 2035, le spese per la Difesa al 5% del pil, come richiesto da Donald Trump. Innanzitutto perché questo 5 non è proprio 5, ma 3,5+1,5. Che matematicamente è la stessa cosa, ma politicamente no. Bisogna, cioè, portare al 3,5% del pil le spese militari e aggiungere l’1,5% di spese per la sicurezza (difesa delle infrastrutture critiche come ferrovie, porti, reti informatiche, etc.). Ciò vuol dire che questa quota potrebbe essere coperta da spese già esistenti.

Resta, quindi, il 3,5% del pil. Ma anche su questo c’è un alone di incertezza. La Spagna di Pedro Sánchez, ad esempio, ha detto che si fermerà al 2,1% del pil. “Si è ribellato a Trump”, dice Elly Schlein. “Macché, abbiamo firmato lo stesso accordo”, replica Giorgia Meloni. Chi mente? Nessuna delle due. Sánchez ha detto che ha fatto fare i conti ai suoi generali e può comprare le cose chieste dalla Nato con il 2,1% del pil anziché con il 3,5%. Mark Rutte, segretario generale della Nato, ha risposto che anche lui ha fato i conti ed è “assolutamente convinto” che la Spagna dovrà spendere il 3,5%.

Hanno tutti ragione, d’altronde è solo l’indeterminatezza che ha consentito di raggiungere un accordo in cui Trump può dire di aver ottenuto il 5% e Sánchez il 2,1%. L’ambiguità fa bene anche all’Italia, che avrebbe molte difficoltà a passare dall’attuale 1,5% al 3,5% di spese militari. Quest’anno, informa il governo Meloni, l’Italia passa al 2% di spese militari sul pil, circa 10 miliardi in più, senza spendere un euro in più. Un’operazione matematicamente impossibile, ma contabilmente facile: basta aggiungere alcune spese come Guardia costiera, Guardia di Finanza e cybersicurezza che prima la Nato non accettava, ma su cui ora pare disposta a chiudere un occhio.

Si tratta, quindi, verosimilmente di passare dal 2% al 3,5% del pil in dieci anni. Ovvero, a regime nel 2035, tra i 30 e i 40 miliardi in più (in base a quanto crescerà il pil). Per arrivarci lo sforzo dovrà essere, quindi, di un decimo l’anno: 3-4 miliardi da trovare in ogni manovra di bilancio. I conti delle opposizioni, invece, sono diversi e seguono una matematica tutta politica.

Schlein, ad esempio, ha detto in Parlamento che l’obiettivo del 5% vuol dire “87 miliardi in più all’anno e 445 miliardi in più in dieci anni”. A parte che c’è un evidente errore algebrico, perché 87 per 10 farebbe 870, quasi il doppio di 445. Ma l’errore ripetuto di Schlein è quello di considerare l’aumento cumulato di spesa nel decennio (figurarsi quanto sarebbe la cumulata di un incremento annuo di 87 miliardi!).

È un metodo che non si applica a nessun altro provvedimento strutturale di spesa pubblica. Il governo Meloni, ad esempio, ha tagliato 17 miliardi di cuneo fiscale: nessuno si sogna di dire che ha tagliato 170 miliardi di tasse ai lavoratori in dieci anni. Quando nell’ultima legge di Bilancio è stato reso strutturale il taglio del cuneo, sebbene fosse stato necessario trovare nuove coperture, le opposizioni dissero che il governo non metteva un euro in più nelle tasche dei lavoratori. Ma che senso ha contare l’aumento cumulato delle spese militari e fermarsi dopo dieci anni? Nel 2035 non finisce il mondo, almeno si spera, di certo non finisce per le proiezioni di bilancio: se si usa questo metodo, allora è chiaro che l’aumento di spesa è infinito.

Il mago di questa arte contabile, Giuseppe Conte, ha detto alla Verità che i da lui presunti 445 miliardi di spesa in più in dieci anni “equivale a 15 finanziarie” ed è “pari a tre volte la spesa sanitaria annuale e cinque volte la spesa per l’istruzione”. L’ex premier paragona, cioè, una spesa cumulata decennale prima alla variazione annuale del bilancio e poi alla spesa strutturale di sanità e istruzione. È come paragonare le mele con le pere e con le pesche. Così però si fa la macedonia, non il bilancio pubblico.

È chiaro che l’intento dell’opposizione è quello di mostrare che lo sforzo chiesto dalla Nato è grande, ma non c’è bisogno di esagerare: 30-40 miliardi in dieci anni, cioè 3,5 miliardi in più ogni anno non sono affatto pochi. Basta vedere le difficoltà del governo nel trovare, in ogni manovra, 3-4 miliardi per la sanità e altrettanti per ridurre l’Irpef. O, per stare agli ultimi giorni, la difficoltà di tutti i governi a trovare da sei anni 300 milioni per eliminare definitivamente la Sugar tax.

Alzare la spesa militare al 3,5% del pil sarà complicato, d’altronde l’Italia arriverà al precedente target Nato del 2% solo grazie a un trucco contabile.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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