L’automobile del nostro scontento

Il ceo di Renault Luca De Meo lascia per dirigere Kering. Ma l’auto e il lusso sono due settori profondamente simili ormai, entrambi in crisi. Più facile produrre droni

Di sicuro non ama vincere facile. Dopo essere sopravvissuto all’èra del suo mentore Marchionne, con le trasvolate oceaniche notturne a base di sigarette, dopo aver navigato tra Toyota, Volkswagen e Audi, adesso ha rimesso in sesto Renault e ora si butta sul più disastrato marchio del più disastrato settore industriale che ci sia, la Kering di Pinault (il parente “povero” di Arnault). Ma le dimissioni del ceo Luca de Meo annunciate ieri non sono una cosa tanto da ridere perché il milanese ha dato non solo un addio al gruppo automobilistico, bensì all’intero comparto. I confini tra auto e lusso sono assai labili, del resto anche il suo ex dante causa John Elkann non ha mai fatto molto mistero di voler un giorno disfarsi dell’auto diciamo generalista per concentrarsi sui brand di fascia alta (ormai si definisce “Ferrari owner”) e di considerarli non automobili ma appunto beni di lusso. E magari fonderli un giorno lontanissimo con la Giorgio Armani, operazione di cui si vocifera da anni. Adesso vedremo se de Meo saprà risanare dopo ruote e portiere anche maglioncini e stiletti, soprattutto quella Gucci che era la Ferrari della moda e ora annaspa. Intanto la borsa segnala il peso di questo manager, Renault ieri ha chiuso in calo dell’8 per cento e Kering in aumento del 14.

Ma l’uscita di scena di de Meo non è solo una faccenda finanziaria. Gian Luca Pellegrini, direttore di Quattroruote e intellettuale non solo delle berline, ha scritto che l’uscita del manager è “un coup de théâtre che rivela qualcosa che nessun altro ha il coraggio di dire. Perché proprio ora, dopo aver ricostruito uno dei gruppi più logorati del continente, con un piano strategico applaudito dalla critica e confermato dai numeri, de Meo se ne va? Che bisogno c’era? Che fretta?”.

Si chiede, Pellegrini, se “De Meo si sia convinto che il sistema automobilistico europeo non si rialzerà più. Che l’automobile, come fenomeno sociale e industriale, sia stata esautorata dalle élite, umiliata dalla politica, sterilizzata dalla burocrazia. E che tutto questo si sia riflesso in un’irreversibile crisi esistenziale dell’intero sistema che ha come punto di partenza la delegittimazione dell’auto come simbolo. E senza simboli non c’è industria che tenga. In questo senso, il passaggio al mondo del lusso non sarebbe un tradimento, bensì un ritorno alla cultura. Perché la moda, il design, la bellezza — a differenza dell’auto — sono ancora autorizzati a parlare di sé senza colpa. L’auto no: deve giustificarsi, spiegarsi, scusarsi”.

In effetti i dati e l’osservazione empirica parlano chiaro: oggi prende la patente solo un giovane su tre, mentre un tempo soprattutto per i tapini come noi nati in provincia era un rito di passaggio ancor più fondamentale che fare il militare o il sesso. Oggi avere la macchina nelle aree urbane è invece una bizzarria che segnala anche proprio l’origine provinciale o borgatara, e districarsi tra ciclabili e Ztl e aree C e D richiede pazienza da bonzi zen. Chi ha il diesel è considerato peggio del mostro di Garlasco. L’auto è stata sottoposta insomma a micidiale character assassination e anche l’ultimo geometra del comune sa che “pedonalizzazione” è il mantra insieme a “rigenerazione”, urbana. Ma siamo sicuri poi che le orde di overtouristi che invadono le città, magari su autobus a due piani ed euro meno uno, e le sommergono con le loro cartacce delle focacce comprate nelle catene rese celebre da TikTok, siano tanto meglio? E le pedonalizzazioni stesse che favoriscono le mangiatoie turistiche dove non si può passare neanche a piedi? Magari founded by camorra, e con buttafuori e buttadentro esagitati (ma il sindaco di Capri ha appena emesso un’ordinanza a proposito)?

Intanto i piazzali delle concessionarie sono pieni di auto invendute, che peraltro con il settore del lusso hanno una caratteristica in comune: hanno raddoppiato i prezzi negli ultimi dieci anni, e non solo acca nisciun’ è fesso, ma nessuno tiene più una lira, e anche volendo chi se le potrebbe più permettere. Zeppe di elettronica probabilmente inutile, ingrossate come maggiorate fisiche, sono salite di costo come borsette di Hermès, e come queste ormai l’usato vale tantissimo, perché il nuovo chi mai se lo può comprare? Chi ha una Smart a benzina in garage e una Kelly nell’armadio oggi è come il baby pensionato degli anni 80, ha vinto tutto.

Però c’è poco da ridere: Volvo ha appena annunciato 3.000 licenziamenti; Nissan 20.000. Volkswagen nei mesi scorsi ha detto che chiuderà 3 delle sue 10 fabbriche tedesche abbassando del 10 per cento gli stipendi. Stellantis si sa. Insomma è un settore abbastanza defunto. C’è poi un fatto che forse ha contato pure qualcosa sulla scelta di de Meo: che, come in un film distopico, l’industria automobilistica europea pur di non girare a vuoto potrebbe riconvertirsi presto in industria bellica. Non è una previsione strampalata né un film. Il governo francese ha chiesto dieci giorni fa proprio a Renault di iniziare a produrre droni militari. “Al momento non è stata presa alcuna decisione”, hanno affermato da Renault, ma la richiesta del Governo è precisa. “Stiamo per intraprendere una partnership senza precedenti in cui una grande azienda produttrice di automobili francesi unirà le forze con una Pmi della difesa francese per produrre droni in Ucraina”, ha detto il ministro della Difesa Sébastien Lecornu al Monde. Dunque de Meo potrebbe aver deciso che l’auto è finita, o comunque diventare un produttore di armamenti magari non gli aggrada più di tanto, a questo punto meglio i vestitini.

Ma non c’è solo la Francia. In Germania l’Associazione Federale dell’industria della difesa (BDSV) ha proposto di riconvertire alcune fabbriche automobilistiche agli armamenti. Il colosso della difesa Rheinmetall AG starebbe comprando la fabbrica Volkswagen di Osnabrück da trasformare in impianto per veicoli militari come il carro armato KF41 Lynx. E così via. E’, anche, un tragico déjà vu: esattamente 80 anni fa nel ‘45 le industrie automobilistiche potevano finalmente, dopo la guerra, ritornare a fare macchine. Perché nel lustro precedente si erano trasformate in imprese di guerra, e facevano carrarmati. In America la produzione di auto civili durante la guerra scese da 3 milioni a 139 unità. In Europa fu lo stesso; molti marchi sparirono, e il 33esimo Salone dell’auto di Parigi che doveva aver luogo a settembre del ‘39 non si tenne mai. La Citroën 2 Cv che colà doveva esser presentata in gran pompa venne messa nel cassetto e tirata fuori 10 anni dopo, ecco il segreto del suo design rétro. Adesso, la Renault fa una R4 vintage, elettrica, costosissima, vedremo che succederà, se qualcuno la compra. Intanto, come diceva Alberto Sordi in un celebre film, finché c’è guerra c’è speranza.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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