Il Papa lancia un appello per il medio oriente, non parla di genocidio e rivendica il diritto di uno stato a esistere. Pare emergere, nella prudenza leoniana, il ruolo della Segreteria di stato, che ha sempre poco apprezzato commenti “forti” sulla questione
Roma. Al termine dell’Angelus di domenica scorsa, Leone XIV ha dedicato molto tempo a ricordare “il terribile massacro” avvenuto pochi giorni fa in Nigeria, dove “circa duecento persone sono state uccise con estrema crudeltà, la maggior parte delle quali erano sfollati interni, ospitati dalla missione cattolica locale”. Il Papa ha detto di pregare “in modo particolare per le comunità cristiane rurali dello stato di Benue, che incessantemente sono state vittime della violenza”. Solo poche parole, invece, per gli altri scenari di guerra nel mondo. Qualcuno s’attendeva che, sul sagrato di San Pietro, il Papa intervenisse in modo più diretto rispetto all’escalation fra Israele e Iran. E’ vero, Leone ne aveva parlato il giorno prima, quando al termine dell’Udienza giubilare aveva lanciato un appello “alla responsabilità e alla ragione”, sottolineando che “l’impegno per costruire un mondo più sicuro e libero dalla minaccia nucleare va perseguito attraverso un incontro rispettoso e un dialogo sincero, per edificare una pace duratura, fondata sulla giustizia, sulla fraternità e sul bene comune. Nessuno dovrebbe mai minacciare l’esistenza dell’altro”.
“E’ dovere di tutti i paesi – ha aggiunto il Papa – sostenere la causa della pace, avviando cammini di riconciliazione e favorendo soluzioni che garantiscano sicurezza e dignità per tutti”. Posizione di estremo equilibrio che tiene conto, e non poco, delle ragioni israeliane, senza al contempo giustificare la reazione del regime iraniano. Non era scontato, per diversi motivi. Innanzitutto perché l’Iran è da decenni in eccellenti rapporti con la Santa Sede – Mahmoud Ahmadinejad scriveva lunghe e melense lettere a Benedetto XVI in cui perorava le sue ragioni e illustrava al Pontefice la sua visione del mondo – in secondo luogo perché con il mondo sciita Papa Francesco aveva aperto un canale proficuo di dialogo che l’aveva portato a incontrare, in Iraq, il Grande ayatollah Ali al Sistani: le foto dell’incontro contribuirono a rendere storico quel viaggio, nel 2021. Non a caso, il cardinale arcivescovo di Teheran, mons. Dominique Mathieu, ha detto ad AsiaNews che il pontificato di Francesco “ha aperto molte porte” e ora “è arrivato il momento di organizzare lo spazio dietro a queste porte”. Come a dire che il lavoro di Jorge Mario Bergoglio non può né deve essere disperso. Il cardinale Mathieu ha mostrato il suo disappunto per l’azione ordinata da Netanyahu e il giudizio è confermato anche dal Custode di Terra Santa, padre Francesco Patton: “Alla de-escalation si è preferita l’escalation”. Toni ben diversi da quelli usati a Roma in questi giorni. Basti pensare che solo qualche mese fa, Papa Francesco si diceva favorevole – in un libro – a indagare sull’ipotesi di genocidio in corso nella Striscia di Gaza, scatenando l’immediata e scontata reazione da parte israeliana, con il conseguente ulteriore allargamento del fosso che dal 7 ottobre 2023 separa parte del mondo ebraico dal Vaticano. Pare emergere, nella prudenza leoniana, il ruolo della Segreteria di stato, che ha sempre poco apprezzato commenti “forti” sulla questione, comprendendo che prese di posizione audaci o al di fuori del consueto registro verbale della Santa Sede avrebbero prodotto più problemi che soluzioni. Leone, al momento, pare condividere tale convinzione, vuoi per temperamento vuoi per fiducia nel lavoro dei diplomatici. Anche per riannodare al più presto i fili del dialogo con le comunità ebraiche che a seguito delle dichiarazioni di Francesco hanno messo in discussione le relazioni sviluppatesi dopo le grandi aperture conciliari.