Di fronte alla minaccia degli ayatollah riecco la sinistra del “sì, però”

L’arsenale atomico iraniano non le fa paura, né sembra turbarla l’antisemitismo globale. Ma ora due simboli diversi della cultura progressista hanno rotto il muro dell’ipocrisia. La storia e la voce di un tenore dissidente e il monito del Nyt

C’è una sinistra, in Italia e nel mondo, che continua a chiudere gli occhi su una tragedia non meno grave della tragedia che sta vivendo Gaza, e quella sinistra, in Italia e nel mondo, che sceglie di non chiamare le cose con il loro nome, che sceglie di girarsi dall’altra parte, che sceglie di muoversi assumendo pose simmetriche ai signorotti del terrore globale è la stessa sinistra che ogni volta che si ritrova a parlare di due drammi della nostra contemporaneità, l’antisemitismo globale e la minaccia atomica degli ayatollah iraniani, è lì che tergiversa e che gioca con il “ma anche”, con il “sì, però”, con il “ma il problema è un altro”. No, il problema non è un altro. Il problema, di fronte alla possibilità che in medio oriente si faccia strada un regime teocratico dotato non solo di proxy utili a incendiare il mondo ma dotato anche di un arsenale nucleare con cui minacciare il pianeta, e di fronte alla possibilità che, in giro per il mondo, si faccia strada, lentamente, una nuova intifada globale, è rifiutarsi di guardare la realtà per quello che è, provando a minimizzare, ridimensionare, contestualizzare, persino giustificare.

Negli ultimi due giorni, a rompere, in modo diversi, il muro dell’ipocrisia, da sinistra, su questi due temi terribilmente intrecciati l’uno con l’altro, sono stati due simboli diversi della cultura progressista. Il primo caso, da elogiare, si trova in Italia ed è un caso rappresentato plasticamente dalla Repubblica guidata da Mario Orfeo, che ieri ha valorizzato una storia che meriterebbe di essere volantinata nei gruppi whatsapp di tutti i partiti del campo largo, che nelle ultime ore, dinnanzi all’attacco difensivo israeliano contro gli arsenali iraniani, hanno mostrato solidarietà più nei confronti del regime degli ayatollah che nei confronti di un paese che da decenni viene minacciato da quel regime di meritare di essere spazzato via dalle mappe geografiche. Repubblica, due giorni fa, ha raccontato la storia formidabile di Ramtin Ghazavi, un famoso tenore iraniano, l’unico ad aver mai lavorato alla Scala di Milano, che da oltre 10 anni non può più tornare nel suo paese natale per via delle sue posizioni dure contro il regime di Teheran. Ghazavi, che ricorda spesso che dopo la rivoluzione del 1979 in Iran l’unico teatro d’opera venne chiuso e l’opera fu vietata, durante la Prima della Scala 2023, indossò la maglietta con lo slogan “Donna, vita, libertà”, divenuto il simbolo delle proteste iraniane dopo l’uccisione di Mahsa Amini. Oggi Ghazavi, parlando di Iran, del suo Iran, dice scandalosamente quello che gli utili idioti occidentali degli ayatollah spesso non riescono a dire. Primo: “Vivo questa nuova guerra come tanti connazionali, la considero l’unica soluzione per liberarci del regime, lo dico a malincuore e con tanto dolore perché i miei genitori e i miei amici sono ancora in Iran”. Secondo: “Il regime è già indebolito e non si aspettava un attacco così forte. E se cadrà la testa del serpente, anche la gente si ribellerà. Io ho visto le bombe, ho vissuto nei rifugi, ho fatto le code per il latte, so cos’è la guerra. Quello che sta accadendo è doloroso ma necessario”. Ghazavi dice anche di arrabbiarsi “quando sento persone qui in Italia che parlano senza conoscere la nostra situazione” e nel farlo paragona senza paura il suo Iran alla Corea del Nord, “un regime totalitario che controlla uno dei paesi più ricchi del mondo”. Ghazavi, nel suo piccolo, spiega da anni, non solo da giorni, che fare tutto il necessario per combattere contro il regime degli ayatollah dovrebbe essere una battaglia progressista, dovrebbe essere la battaglia di tutti coloro che sono impegnati per difendere, nel mondo, la libertà, i diritti civili e umani. E in un certo senso, lo stesso concetto, seppure in un modo ancora più poderoso, è quello che ha scelto di mettere a tema ieri la grande portaerei del pensiero progressista mondiale: il New York Times.

Cosa ha fatto il New York Times? Semplice. Ha scelto di lanciare un appello a tutti i progressisti americani per smetterla di giocare con i diversivi quando si parla di antisemitismo. Gli Stati Uniti, ha scritto il Nyt, stanno vivendo la peggiore ondata di odio antiebraico degli ultimi decenni. A Boulder, in Colorado, un uomo ha dato fuoco a manifestanti pacifici che chiedevano il rilascio degli ostaggi israeliani. Meno di due settimane prima, una giovane coppia era stata uccisa a colpi d’arma da fuoco mentre usciva da un evento al Museo ebraico di Washington. A ottobre, un trentanovenne residente di Chicago era stato colpito alla schiena mentre si dirigeva verso la sinagoga. Gli ebrei americani, scrive sempre il Nyt, si sentono ormai in dovere di nascondere i segni della loro fede. Le sinagoghe hanno assunto più guardie armate per accogliere i fedeli. Le scuole ebraiche hanno assoldato guardie per proteggere bambini e insegnanti. I progressisti, negli ultimi anni, hanno mostrato di voler fare di tutto per combattere molte forme di odio, ma in troppi in questi anni e in questi mesi hanno mostrato di tollerare l’antisemitismo. I problemi, riconosce il Nyt, si trovano anche a destra, dove la xenofobia, il complottismo, il nazionalismo sprigionano energia utile ad accendere i ventilatori dell’odio di ogni tipo. Ma a sinistra è successo qualcosa di più grave. E per spiegare il perché il Nyt cita le famose tre “D” di Natan Sharansky, ex dissidente sovietico, ex vicepremier israeliano che anni fa suggerì un test “tridimensionale” per individuare quando la critica a Israele scceronfina nell’antisemitismo. Le D sono delegittimazione, demonizzazione e doppi standard. E la retorica progressista, conclude il Nyt, ha regolarmente fallito questo test negli ultimi anni. E non capire che il nuovo antisemitismo ha esposto gli ebrei a un rischio maggiore di essere vittime di crimini d’odio rispetto a qualsiasi altro gruppo significa non capire un problema tutto sommato simmetrico a quello che si trova al centro della guerra difensiva combattuta da Israele contro la teocrazia atomica: fare tutto il necessario, anche a sinistra, per non mostrare complicità con chi ha scelto di trasformare l’essere ebrei, l’essere sionisti, l’essere uno stato ebraico in un peccato mortale, da abbattere con la forza, con la violenza e nel caso dovesse essere necessario persino con una soluzione finale. E chiunque non riesca a denunciare l’antisemitismo con lo stesso inequivocabile tono con cui denuncia correttamente altri tipi di tragedie non sta facendo altro che muoversi da utile idiota della principale centrale del terrore globale e dell’antisemitismo universale: l’Iran degli ayatollah.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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