E’ stata ritrovata la sceneggiatura della pellicola incompiuta, “I predoni del Sahara”. La vicenda sarà illustrata martedì 17 giugno alla Biblioteca nazionale centrale di Roma
“Il viaggio di G. Mastorna” è il più famoso film non fatto, ma non è l’unico incompiuto di Federico Fellini. Vi s’aggiunge l’assai meno noto “I predoni del Sahara”, di cui il futuro regista ai primi passi nel cinema firmò la sceneggiatura con Vittorio Mussolini e Osvaldo Valenti, il divo dei telefoni bianchi fucilato con Luisa Ferida nell’aprile 1945. La vicenda della pellicola abortita per la guerra, col ritorno della troupe dalla Libia nel 1942, è riemersa di tanto in tanto tra ricordi nebulosi e circostanze sfumate. Ora la sceneggiatura è stata ritrovata dai ricercatori dell’Ismeo (l’Associazione internazionale di studi sul Mediterraneo e l’Oriente) nella “Biblioteca IsIAO”, dove confluirono gli archivi del Museo Coloniale.
La sceneggiatura testimonia anche il fil rouge tra Fellini e Emilio Salgari, autore del libro da cui venne tratta con le modifiche di personaggi e ambientazioni volute dal regime. Ed è acclarato che Fellini fu spedito a Tripoli per collaborare con Gino Talamo, cui era stata affidata la regia assieme a Valenti. La vicenda sarà illustrata martedì 17 giugno alla Biblioteca nazionale centrale di Roma da Lorenzo Declich, Carlo Modesti-Pauer e Felice Pozzo, decano degli studiosi del romanziere morto suicida nel 1911. Nato e vissuto a Vercelli, Pozzo ha lavorato “per ragioni alimentari” come impiegato parastatale, ma per buona parte dei suoi ottant’anni ha dedicato il tempo libero a Salgari e da questa passione non si è pensionato mai.
C’è affinità tra la visionarietà di Fellini e Salgari, tra la ricostruzione di mondi immaginifici al Teatro 5 o su un tavolino torinese, passando per l’esotismo casareccio de “Lo sceicco bianco”, che ricorda le illustrazioni riprodotte nel salotto di Alberto Della Valle per le opere salgariane.
Fellini in gioventù fu appassionato lettore di Salgari e perciò non mi stupisce che abbia accettato di lavorare a una storia ispirata a “I predoni del Sahara”. Il libro uscì nel 1903 per l’editore Donath ma la sceneggiatura, come tutte quelle tratte dai volumi salgariani, fu semplificata per riassumervi le avventure raccontate. Senza contare i riadattamenti dei personaggi e l’ambientazione in Libia, mentre nel romanzo le vicende si dipanano dal Marocco a Timbuctù.
Quale fu la fortuna di Salgari durante il fascismo?
Continuò a godere di straordinaria popolarità e fu utilizzato come bandiera degli scrittori quando si mise mano alla normativa sul diritto d’autore, perché Salgari era stato la vittima emblematica degli editori. Al contempo però, come rivela anche una lettera del figlio di Salgari, Omar, al direttore generale del Minculpop, Gherardo Casini, le ristampe dei romanzi erano oggetto di manomissioni. Il regime non gradiva certe storie di corsari e di strangolatori. L’ampia rivalutazione dell’opera salgariana avvenne a inizio anni sessanta e contò fra gli assertori Umberto Eco, Giovanni Spadolini, Oreste del Buono.
Fu un grande scrittore o uno scrittore popolare?
Se un autore ha successo trasversale, se su di lui si contano migliaia tra libri, convegni e tesi di laurea è riduttivo definirlo scrittore per ragazzini. Narrò come solo lui sapeva, con prosa fulminea che non lasciava tregua ed è leggibile tuttora, salvo qualche vocabolo in disuso.
Quanto piace ancora ai ragazzi?
Forse la maggioranza non sa nemmeno chi sia. Peccato che neanche sappia chi siano Kipling, Dumas e Verne. Salgari portava il mondo in casa, ora arriva in mille altri modi. Con una peculiarità: la tv e la rete fanno vedere tutto, ma senza l’esercizio dell’immaginazione.
Quando incontrò Salgari?
Tra gli otto e i nove anni lessi “I Misteri della Jungla Nera”. Come ricercatore cominciai nel 1961, quando si commemorò il cinquantenario della morte e uscì una caterva di articoli che proseguì l’anno seguente per il centenario della nascita. Mi procurai tutti i ritagli e notai moltissime contraddizioni e palesi sciocchezze. C’era ancora chi asseriva che fosse stato capitano di gran cabotaggio e chi diceva che per il romanzo “Cartagine in fiamme” avesse dato fuoco a casa. Per non parlare del numero delle opere: secondo alcuni erano 150. Così mi nacque la voglia di appurare la verità.
C’è qualcosa che ancora non si sa?
Sulle opere ormai no, sulla vita resta qualche zona d’ombra.
Fu davvero strozzato dagli editori?
Al culmine della carriera percepiva ottomila lire fisse da Bemporad. Alcuni pensano che fossero sufficienti per mantenere decorosamente una famiglia di sei persone, ma io credo di no, perché non sappiamo quanto spendeva per le cure della figlia Fatima, tubercolotica, e della moglie Ida, che prima dell’ultimo ricovero in manicomio ne aveva subiti altri. Le carte accessibili non rivelano quanto gli costarono.
Di quali scoperte va più contento?
L’attribuzione della paternità di “La vendetta d’uno schiavo”, uscito per Donath nel 1900 con lo pseudonimo di E. Giordano. Ho anche accertato che erano suoi i racconti pubblicati su riviste dell’editore Speirani con lo pseudonimo rivelatore di A. Peruzzi, cioè il cognome della moglie e l’iniziale di Aida, come la chiamava lui.
Quanti romanzi fece?
Ottantacinque. La confusione derivò dai tanti apocrifi postumi, scritti con l’assenso degli eredi o la loro collaborazione.
Il suo titolo preferito?
Il primo che lessi: “I Misteri della Jungla Nera”. Un capolavoro: con un colpo d’ala esotizza i temi dei romanzi d’appendice di Sue e Mastriani. Un’idea semplice, ma nessuno ci aveva pensato.
Quali affinità trovò un ragazzo di Vercelli con gli scenari salgariani?
Soltanto le zanzare