Storia politica, familiare di Galeazzo Bignami, il più duro dei duri di Giorgia Meloni

La nomina a capogruppo di FdI, lo scontro in Aula con il vicepresidente Mulè, gli anni di Bologna, la tragedia del padre Marcello gambizzato. Cinquant’anni di destra in una famiglia: i Bignami

È figlio del piombo, dello spavento e dell’offesa, è figlio di Bologna, delle ristrettezze e degli spari: Galeazzo Bignami, il “duro” di Giorgia Meloni, è figlio di Marcello. “E mi chiamano ancora Marcello, al telefono, Ignazio La Russa, Maurizio Gasparri. Pronto? Marcello? Per loro incarno il loro amico Marcello Bignami, mio padre, scomparso, il dirigente storico della destra bolognese. Marcello”. Quando è morto? “Il 9 luglio 2006, il giorno della finale di calcio Italia-Francia nelle ore del silenzio. La nazionale giocava e Bologna era vuota, desolata. Il suo corpo era ormai troppo debole, fragile”. Venne ferito il 7 marzo del 1974, gambizzato, da Nuclei armati proletari, con sette colpi di pistola. Cinque andarono a segno. “Riuscì a sopravvivere ma non era più lo stesso. Gli tolsero un rene per insufficienza. Dopo l’attentato lo ricoverarono all’ospedale Rizzoli ma per impedire che venisse curato, che gli venisse somministrata l’eparina, i sindacalisti della Cgil organizzarono i picchetti. Da ragazzo recuperai le cronache di quegli anni e decisi un giorno di chiamare uno di loro. Cercai sulle Pagine Bianche il numero di telefono e chiesi, ingenuamente, perché l’avesse fatto. Perché impedire anche le cure?”. Le rispose? “Mi disse ‘non ricordo’, salvo poi aggiungere che erano anni in cui si facevano tante cazzate”. Dunque ricordava? “Ricordava”.

Sul web si può trovare ancora un articolo dell’Unità dal titolo “Colpi di pistola a Castenaso. Oscuro attentato a un neofascista, il “gerarchetto” Marcello Bignami”. A Giorgio Almirante che si era precipitato a Bologna, a fare visita, dopo l’attentato a Bignami, i comunisti impedirono fisicamente di accedere in ospedale, alle infermiere consigliato, per strada, di dimenticarsi di quel paziente. “Morì poi, a 63 anni, da consigliere regionale eletto, a metà mandato, la sua prima volta, il suo primo grande incarico politico dopo una vita da dirigente dell’Msi e di An. Gli subentrò un collega di partito che aveva iniziato a festeggiare quando il corpo di mio padre era ancora nella cassa”. Il funerale? “Avevo trent’anni e sul mio conto corrente c’erano solo 10 euro e 98 centesimi. L’eredità, la pochissima che possedevamo, era bloccata perché il conto bancario era intestato a mio padre”. Si offrirono di aiutare i Bignami, La Russa e Gasparri, gli amici di sempre perché, diceva Marcello al figlio, “quando non sai cosa fare, quando sei in difficoltà, segui sempre Maurizio e Ignazio. Solo che prima di morire non mi indicò cosa fare nel caso in cui Maurizio e Ignazio si fossero separati. E si separarono”. Il capogruppo di FdI alla Camera, il primo partito di centrodestra, cammina oggi scortato per minacce dell’estrema destra (“sì, dell’estrema destra”) l’ex viceministro dei Trasporti, oggi capogruppo di FdI, che in Aula sfida anche il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè (“mi sembra che lei abbia alzato la voce, ma glielo lasciamo fare, presidente” ha detto Bignami) ascolta musica classica. E’ quella la scena, lo scontro con Mulè, che rivela Bignami all’Italia, un video di sette minuti e quattordici secondi, un duello verbale che fa il giro delle chat, dei siti d’informazione, l’invito di Mulè a Bignami ad abbassare la voce, la risposta del duro: “Presidente, lei tende a non guardare quello che succede da questa parte dell’emiciclo”. Da “duro” si fa ruvido e la voce rasposa ma poi l’abbassa, come l’adagio in musica, perché, dice ora Bignami, “ho sempre apprezzato Mulè, il suo eloquio e come guida i lavori della Camera”. Usa con parsimonia la linea telefonica con Meloni perché “non si disturba un presidente del Consiglio, ognuno di noi sa cosa fare: non creare problemi e quando possibile risolverli”. E’ stato scelto al posto di Tommaso Foti e alla sua prima uscita da capogruppo raccontano che anche il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, rimase sbalordito da quel carattere, dal temperamento, dall’asprezza. Bignami ripete sempre “siamo quello che siamo stati”.

E’ cresciuto nella città della “strage”, figlio di un “fascista” e a cena la domanda era: “E se poi ci inseguono”? A San Valentino i genitori della sua fidanzata temevano aggressioni e “le consigliavano di non uscire con me”. Bignami non fuma e non beve, “al massimo del lambrusco, ma in compagnia, mai da solo”, la sua prima auto è stata francese, una Citroën, “quella che potevo permettermi”. Il piatto? I tortellini. Il libro amato è “Le altissimi torri” di Lawrence Wright. Tifa Virtus Bologna. L’amico di una vita è Giovanni Donzelli “perché di Giovanni posso dire: gli voglio bene”, un altro è Marco Lisei, senatore di FdI. La casa a Roma la divide con un funzionario. Il luogo dove si rifugia è Forlì, la città della madre, Emanuela. E’ stato sposato, ha una figlia e l’accordo è che quando papà va ospite in televisione “si guardano i cartoni”, solo che l’ultima volta con Bignami collegato, “lei entra in stanza e mi dice: “Papà, papà, ho fatto c…. e allora ho sorriso”. I parlamentari dicono che è lui il più “duro dei duri”, dei loro, di FdI, e anche Virginio Merola, ex sindaco di Bologna, del Pd, deputato, che lo ha conosciuto in consiglio comunale, gli ha chiesto: “Da cosa ti difendi ancora? Ma perché alzi la voce quando intervieni? Guarda che rappresenti ormai un partito di governo, guarda che bisogna indurirsi senza perdere la propria tenerezza”. Bignami ha 49 anni e ha ricevuto 18 aggressioni, conserva una cicatrice sul volto che copre con una nuvola di ricci e che risale al febbraio 1993 quando faceva volantinaggio in favore della proposta di Mario Segni, con il nipote di Tatarella, Fabrizio Tatarella. Vengono picchiati dalla sinistra estrema e Bignami torna a casa, trova la madre, disperata, “ti hanno picchiato ancora”, si chiude in stanza, poi arriva il padre, Marcello, apre la porta, lo guarda e gli spiega: “Se le prendi, non le porti, ma le restituisci”.

Viene iscritto al Liceo Righi, una preside comunista, solo tre ragazzi di destra, in tutto il liceo, “e però restiamo in due perché il terzo di noi abbandona a metà anno. Oggi quello che ho subìto si chiamerebbe bullismo, ma allora era solo Bologna. Mi costrinsero, a scuola, a camminare a quattro zampe con il guinzaglio, come i cani. Durante la ricreazione mi prendevano il panino dalla cartella e lo passavano sul bordo del water. Un giorno chiedo a mio padre di poter cambiare istituto e gli confesso la ragione ma lui mi risponde che se avessi ceduto allora avrei ceduto per sempre. ‘Dunque ci resti’. E ci restai”. Ascoltava l’heavy metal, Iron Maiden, Guns N’ Roses, strimpellava il piano, ma aveva trovato un’isola nell’informatica. “A quei tempi non esisteva ancora la parola nerd. Oggi mi avrebbero forse definito un nerd”. Si laurea in giurisprudenza e dà diritto costituzionale con Augusto Barbera, voto 27, “ma non credo che si ricordi del mio viso”.

Da adolescente portava i capelli lunghi “a fiammifero”. Come i fiammiferi Bignami è sottile e si avvampa, in Aula, per strada o a Forlì, il 23 gennaio del 2024, quando ebbe un’incomprensione con i sindacati di polizia, durante la visita di Ursula von der Leyen insieme a Meloni, quando ha protestato con uno dei dirigenti del servizio d’ordine perché, per Bignami, si lasciava eccedere nella protesta. E’ Bignami che, raccontano a Bologna, ha inventato la “citofonata” agli spacciatori, prima che Salvini la emulasse al quartiere Pilastro. Ha la mascella del duro, alla Jean Gabin, ed è tormentato perché “non riesce a lasciar correre” ma è romanticamente innamorato dalla stretta di mano fra rivali, cerca la pace di Bologna, la Striscia che colora i pensieri degli sbandati di destra e degli sbandati di sinistra.

A 14 anni entra per la prima volta, a vicolo Posterla, nella sede dell’ Msi di Bologna, si iscrive al Fronte della Gioventù, a 17 anni viene nominato segretario generale del Fuan. Nel 2009 si candida in consiglio comunale, eletto, nella prima giunta di destra, la storica, quella del “macellaio colto” Guazzaloca; nel 2009 è consigliere regionale con il Pdl; deputato, commissario regionale con Forza Italia. Resta con Berlusconi, con Annamaria Bernini, oggi ministro dell’Università, “una donna speciale”, ma non accetta l’adesione al governo Monti. Lascia Forza Italia nonostante Gasparri gli suggerisca: “Resta” e La Russa: “Torna”. In verità lascia, dice Bignami, dopo aver incontrato Berlusconi, che lo stimava, dopo averci parlato per “45 minuti, ma per 44 parlava solo Berlusconi, ed era giusto così, era Berlusconi, rimaneva soltanto un minuto per decidere e io, dopo quell’incontro, decido che era giusto tornare a casa, con Ignazio, con FdI, e con Giorgia”. Appoggia la candidatura di Meloni nel 2004, a Viterbo, al congresso di Azione Giovani, quello vinto contro Carlo Fidanza, il congresso della pacificazione interna, della ricostruzione perché “allora i grandi riversavano su di noi, che eravamo “i piccoli”, le loro divisioni, le ambizioni delle correnti. Ricordo ancora il momento dell’acclamazione di Giorgia a segretaria, ricordo le parole che ha usato: ‘Adesso c’è solo da ricostruire’ Le correnti hanno dilaniato la destra”.

E’ stato missino anche l’altro Bignami, il fratello Alessio, avvocato, iscritto al Fuan, morto improvvisamente a 49 anni, nel 2022, un altro lutto, uno ancora. Dice Gasparri che i “Bignami sono stati segnati dal dolore” e che lui stesso ha memoria di un incontro drammatico, a Bologna, con il padre Marcello, che voleva candidarsi alle regionali, nonostante le sue condizioni di salute fossero già difficili: “Gli domandavo: Marcello, ma ce la fai? E lui: ‘Ce la faccio, certo’. Non si è tirato indietro”. La sorella di Galeazzo Bignami si chiama Runa ed è nata dopo una minaccia d’aborto, dopo le preghiere del padre alla Madonna. La madre di Bignami, Emanuela, di Forlì, maestra elementare, conosce il padre di Galeazzo, grazie alla sorella, anche lei militante dell’Msi, e “da allora mia madre ha sempre vissuto in funzione di mio padre tanto che dopo la morte non ha mai più voluto rifarsi una vita. Per lei, c’era solo Marcello. Un amore totale”.

Si viveva come voleva Marcello, professore di matematica, “l’intrepido Marcello” che non aveva mai paura di “fare quello che si doveva”, dice Gianfranco Fini, Marcello che aveva la casa piena di libri, quelli di Giorgio Pisanò e poi i classici, Marcello che consigliava cosa leggere e cosa era meglio non leggere, “Evola lo riteneva tossico, meglio Pareto, il filosofo dell’ottimo paretiano, del ‘siamo quello che siamo stati’ ”. Nel passato di Marcello Bignami c’è stato anche il carcere per ricostituzione del partito fascista, il soggiorno a Roma, in hotel, a sua tutela. “Periodicamente venivano a perquisirlo agenti di polizia. Si infilavano in bagno, in camera da letto seguiti sempre da mia madre che diceva: ‘Indicatemi cosa cercate e io vi apro i cassetti e ve lo porgo”. Non si fidava? “No. Temeva che lo incastrassero e che gli mettessero qualcosa per comprometterlo”. Andavano a dormire ogni sera così: “Con la paura che i Nuclei armati proletari venissero a incendiare casa. Mia madre per esorcizzare si inventò allora un gioco. Prima della buonanotte correvo a fare il gioco del panno bagnato. Riempivo d’acqua degli stracci e li poggiavo sotto l’uscio. Se i terroristi rossi avessero appiccato il fuoco, il fumo non sarebbe passato e noi ci saremmo salvati. Non saremmo morti d’asfissia. Un gioco. Per ben due volte abbiamo lasciato Bologna e siamo venuti a Roma, per volere di Almirante, all’hotel Quattro Fontane. Due volte, fino a quando mia madre disse: Marcello io però devo tornare, devo lavorare, non abbiamo più soldi”.

A casa Bignami non si esibivano busti di Mussolini ma “solo una lastra conservata nell’armadio con la scritta Fuan”. E allora perché il nome, Galeazzo? “Se fosse in memoria di Ciano dovrei ricordare che Ciano venne fucilato dai fascisti. I miei genitori lo scelsero in onore di Galeazzo, ma Visconti”. Gianfranco Fini racconta che negli anni Settanta era quasi un pellegrinaggio “andare da Marcello”, a Bologna, “da un eroe, gambizzato, dirigente dal coraggio indiscutibile, di carisma, e il carisma o lo ha hai o non lo hai. Marcello lo possedeva. Galeazzo ai tempi era un bambino”. Sempre lui, ancora, Marcello. Lo chiamavano, dice Fini, “Marcello Ho Chi Minh” perché era basso di statura, mingherlino, come Galeazzo, intransigente, severo, come Galeazzo, perché per Gasparri, valeva, e vale, a destra, la regola “meglio avere torto in gruppo che ragione da soli”.

Dormivano a casa di Marcello il giovane Fini, da inviato del Secolo, che portava in dono balocchi, per Galeazzo, mangiava a tavola di Marcello, Pinuccio Tatarella, “icona ed esempio”, perché i Bignami facevano parte dei tatarelliani, la destra che mordeva la modernità, la corrente Destra in movimento, Destra protagonista. Per una comunità intera nelle gambe dei Bignami resta conficcata cinquant’anni di emarginazione, la vita devastata ma dal 2016, a Bignami, il duro, rimproverano una “cazzata”, di cui si deve pentire ogni giorno, e si pente, strappano le sue foto sui palchi, lui che è nato a Bologna, la città dove si gambizzava con la polvere da sparo, la città dove “in quegli anni facevamo tante cazzate…”.

Dal 2016 solo Virginio Merola che dice “non rimprovererò mai a un mio rivale una fotografia sui social, mi interessa piuttosto come parla e cosa pensa”, solo lui, il nobile Merola, si è detto pronto a ricordare Marcello, il padre di Galeazzo Bignami, il duro. No. Grazie a Meloni un pezzo d’Italia irrisolto e sfigurato dal destino, a cui si chiede di abiurare la fiamma, che è lo scapolare della destra, prova a essere quello che non poteva essere. Grazie a Meloni, che prova a far suonare come violini gli ottoni, una comunità deformata dalla vita cerca l’intonazione giusta, il si bemolle. Sono i padri di destra che spiegano ancora la fatica della nostra destra, i suoi progressi, ma sono le donne e le madri, di destra, che la stanno liberando dal passato, le madri della Supplica di Pasolini, e di Bignami: “E’ difficile dire con parole di figlio / ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio”.

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio

Leave a comment

Your email address will not be published.