“Non serve alzare la voce delle leggi, se restano mute le istituzioni che devono applicarle”, è l’opinione progressista. “Lo Stato deve lanciare un segnale chiaro: chi alza le mani su una donna andrà incontro a una punizione certa e più severa”, è l’opinione conservatrice
Il dibattito sulla legge per il contrasto al femminicidio si riaccende dopo l’annuncio del governo di voler aumentare le pene per reati come maltrattamenti, stalking e violenza sessuale. Mentre il ministro Nordio difende la riforma come “una necessità giuridica e morale”, molte giuriste e centri antiviolenza mettono in guardia contro l’illusione della “soluzione penale”. Questo dialogo tra un intellettuale conservatore e uno progressista mette a confronto due visioni non solo del diritto, ma dello Stato, della giustizia e della società.
Conservatore: Bisogna dire una cosa chiara: lo Stato ha il dovere di tutelare i suoi cittadini, e tra questi le donne che vivono sotto minaccia costante da parte di uomini violenti. Se la cronaca ci racconta ogni settimana di un nuovo femminicidio, allora è evidente che il sistema non funziona. E in questi casi, lo strumento più semplice, diretto e percepibile è l’inasprimento delle pene. Perché la paura della pena, se certa e severa, può dissuadere, può fermare il gesto. E’ il cuore stesso della funzione deterrente della giustizia.
Progressista: Se fosse così semplice, non ci sarebbero più reati. Eppure sappiamo che non è così. Ogni studio criminologico serio ci dice che ciò che davvero dissuade è la certezza dell’intervento, non la sua severità. Il punto è: i reati vengono scoperti? Vengono denunciati? Vengono presi sul serio? Le donne che chiedono aiuto ricevono protezione tempestiva? Se la risposta è no, puoi anche mettere l’ergastolo per lo stalking, ma non salverai una sola vita. E intanto continui a usare il carcere come foglia di fico per coprire l’inefficacia del sistema.
Conservatore: Ma qui non si parla solo di carcere. Si parla di mandare un segnale culturale, che oggi manca. Troppo spesso questi uomini si sentono impuniti, tollerati, giustificati. L’inasprimento delle pene serve anche a dire che lo Stato non accetta più ambiguità. Che c’è un prima e un dopo. Che chi commette certi reati non è un poveraccio da recuperare, ma un criminale da punire.
Progressista: E’ proprio questa visione retributiva che rischia di diventare ideologica. Non tutti i violenti sono uguali. E soprattutto non tutti sono già autori di reati: spesso la spirale della violenza comincia molto prima della denuncia. Se non investi in prevenzione, formazione, cultura delle relazioni, educazione al consenso, assistenza psicologica agli uomini e protezione alle donne, l’inasprimento delle pene arriverà – se arriva – sempre troppo tardi.
Conservatore: Ma la prevenzione esiste già. Ci sono i centri antiviolenza, ci sono i percorsi per gli uomini maltrattanti. Ma è evidente che non bastano. Allora bisogna rafforzare l’altro versante. E’ una questione di giustizia, non solo di utilità. Chi distrugge la vita di una donna merita una pena esemplare. Anche per rispetto verso le vittime.
Progressista: Le vittime, però, ci dicono altro. Dicono: “Avevo denunciato e nessuno mi ha creduta”. Dicono: “Mi avevano promesso che l’avrebbero allontanato, ma era ancora sotto casa”. Il problema non è che le pene sono troppo basse. Il problema è che l’intero apparato che dovrebbe rendere effettiva la tutela è lento, distratto, spesso impreparato. I magistrati non si coordinano, le forze dell’ordine non leggono i fascicoli. E allora inasprire la pena diventa un alibi, una scorciatoia.
Conservatore: Ma quindi? Facciamo finta di niente? Lasciamo che le leggi restino simboliche? Le donne chiedono sicurezza. E la sicurezza è anche punizione. I processi sono troppo lenti, dici? Bene, allora servono riforme per velocizzare i processi, non per mollare la presa. O vogliamo lasciare che chi ammazza una donna torni fuori in pochi anni con un permesso premio?
Progressista: Attenzione però. Perché da qui a fare della legge penale una forma di vendetta il passo è breve. E le riforme emotive, fatte sull’onda dell’indignazione, rischiano sempre di colpire nel mucchio e far danni collaterali. Il rischio è anche quello di leggi sbilanciate che colpiscono solo i casi più mediatici, lasciando intatte le disuguaglianze strutturali. Non dimentichiamoci che il diritto penale è una lama affilata: va maneggiato con cautela, o finisce per tagliare anche chi vorresti proteggere.
Conservatore: Va maneggiato, certo. Ma oggi è proprio troppo spuntato. Le pene devono tornare ad avere un senso, anche simbolico. E il simbolo, in questo momento, è dire: basta tolleranza per chi distrugge le donne. Lo Stato, almeno stavolta, non può più voltarsi dall’altra parte.
Progressista: Ma il simbolo, se non è sostenuto dai fatti, diventa propaganda. E il rischio è che lo usiamo per farci sentire forti, non per essere davvero efficaci. Serve meno retorica punitiva e più capacità di intervento concreto, quotidiano, capillare. Per non voltarsi dall’altra parte, servono più risorse, più formazione, più ascolto. E serve smettere di credere che una riga in più nel Codice penale possa sostituire tutto questo. A meno che, sotto sotto, non ci interessi più punire che prevenire. E lì, davvero, siamo nei guai.
Conservatore: Non è una scelta tra punire e prevenire. È una questione di equilibrio. Ma se oggi le donne muoiono, è perché troppe volte abbiamo sbilanciato tutto dalla parte dell’attesa, della comprensione, della gradualità. Ora serve anche fermezza.