Odiando California

Mentre continuano gli scontri a Los Angeles, lo scontro tra Trump e il governatore Newsom è il simbolo di una relazione sempre più complicata

Ti sogno California, sì, ma ti odio pure. Mentre continuano gli scontri tra i manifestanti e le truppe trumpiane dell’Ice (che non è il vecchio Istituto del Commercio estero ma l’ Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale responsabile dell’immigrazione) la California cacciata dalla porta rientra dalla finestra come nemesi e campo di battaglia anche identitario dove si combatte quello che potrebbe essere l’inizio di una guerra civile (a noi sembra strana, una guerra civile a giugno, ci conosciamo tutti, e poi con questo caldo, ma quelli sono un popolo belluino, e fa più freschetto).



O forse i rastrellamenti di immigrati e le proteste e la guerriglia proprio nel giorno del compleanno di Trump, oggi, sono solo un’arma di distrazione di massa mentre le vere guerre si combattono fuori, altro che la sua promessa elettorale di “risolverò tutti i conflitti in 24 ore”, tralasciando quelli di interesse. La California insomma volenti o nolenti è sempre lì, al centro dell’America che aveva consacrato altri pezzi di Paese a Case Bianche estive e d’inverno, e il vicino Texas come nuova Silicon Valley versione macho, insomma qualunque posto non fosse quello stato di pericolosi fricchettoni che da solo sarebbe la quinta potenza economica mondiale. Dipinta come una sorta di Capalbio globale, tutta materassini da yoga, diritti Lgbt, immigrati e avocado toast, tutto ciò che dispiace al Tiranno. “Me ne vado dalla California” in questi anni è stato il mantra di ciascuno, siliconvallici pentiti e appalachiani scaltri (à la Vance), a cui talvolta veniva contrapposto un altro canto: e chi te trattiene? (detto con accento romano à la Sordi). Tanti andavano in Texas, giù le tasse, gente più alla buona, strade più larghe, però certo se la California è Capalbio il Texas è Pescia Romana ma neanche, proprio Montalto di Castro, con centrale elettrica inclusa… e poi manca tutto quel mistone di intelligenza diffusa, bellezza, fricchettonismo tra università “top” e diritti anche bottom da cui poi non vengono solo fuori le Black Panthers ma anche le Google e le Apple e tanto tanto gettito e pil. Perché poi torna sempre, questa stramaledetta California. Se Musk urlando “me ne vado” (e chi te trattiene!) si è spostato appunto in Texas, in California casualmente rimane e sboccia quella che è la “next big thing”, cioè l’intelligenza artificiale, col nuovo Steve Jobs dei tempi nostri che è Sam Altman, fondatore di ChatGpt, nemico intimo di Musk, e che simboleggia e raduna insieme tutto ciò che è californiano. E’ un nerd, è vegetariano, è gay, ha i figli surrogati, è ambientalista, cambierà il mondo forse in meglio o forse in peggio ma mai in giacca e cravatta. Qualche settimana fa è stato protagonista di un classico “lunch with the FT” cioè l’intervista che il Financial Times fa a personalità di spicco portandole a colazione al ristorante, e riferendo poi le portate e i prezzi, per il lettore impossibilitato a partecipare. Ma l’intervistato ha detto: no, venite voi a casa mia, che cucino io. Così la giornalista è stata invitata nella casa di campagna nella Napa Valley, cioè la Franciacorta siliconvallica, dove Sam Altman ha cucinato una pasta aglio e olio con tantissimo aglio, e delle carote biologiche stufate, mentre il marito spupazzava il bebé surrogato (il Ft, ingrato dei risparmi, ha poi criticato l’eccesso d’aglio nella pasta). Ma tutto questo era un quadretto magnifico e precisissimo della California, nello specifico di Nord California in purezza: salutismo (non va al ristorante perché vuole vedere lui cosa c’è nella ricetta), diritti, visionarietà, tutto a km zero. Adesso Altman ha rilevato la startup di Jonathan Ive che è un inglesotto ma californiano d’adozione, un designer che tra le varie inezie ha definito l’estetica Apple per 30 anni, e insieme progetteranno ora il nuovo aggeggio di cui non si sa ancora nulla tranne che sostituirà anche come desiderabilità e rilevanza culturale il telefonino Apple, insomma un telefono o qualunque manufatto con l’Ai dentro. Tutto questo, di nuovo, non a Mar a Lago o Houston o sugli Appalachi ma nel raggio di 50 chilometri da dove stanno Facebook, Google, Instagram, e tutte le altre fabbriche dei sogni tecnologici che continuano a formare o deformare il nostro immaginario e la nostra vita pratica, a San Francisco. Una città che è diventata negli ultimi anni il nemico pubblico numero uno, l’abbiamo scritto un sacco di volte ma tanto oggi si dimentica tutto: è stata trasformata, prima dalla stampa di destra e poi da tutta, nella “capitale degli homeless” anche se i tassi di senzatetto (come quelli dei reati) sono più bassi che a Miami e nella trumpiana Florida. Le esperienze di cronisti basici e turisti pigri confermano perché se li trovano sotto l’hotel (ma non sanno che gli homeless stanno tutti downtown, dove ci sono solo gli hotel e nessun sanfranciscano, ricco o povero, ha mai abitato), quindi la narrazione di città “doomed”, finita, è piaciuta tantissimo a tutti anche se non è vera (perché rovinare una bella storia con la verità, diceva una frase attribuita a un giornalista adottivo californiano, Mark Twain).


Per la proprietà transitiva adesso il nemico numero uno di Trump è il governatore della California, Gavin Newsom, perfetto ritrovato di californietà, sembra fatto con un prompt dettato da un coro di signore di Palm Springs. Belloccione, molto in forma, perché essere democratici non vuol dire essere brutti, anzi. Nessuno poi è brutto, in California, causa esercizio fisico, aria pulita, ingredienti farm-to-table, luce giusta, anche un po’ stigma della bruttezza stessa, forse per questo Trump non si sente amato, come da Harvard. Newsom veste alla californiana cioè casual come il famoso centogrammi smanicato con cui accolse nel 2019 Mattarella in una visita di stato (che facendo impazzire il cerimoniale avvenne in una foresta di querce a Muir Woods, perché l’ambiente e gli alberi sono sacri al cuore dei californiani, non come da noi dove li abbattono perché rovinano la carrozzerie delle macchine). Insomma il bel Newsom, Trump sta cercando di farlo passare per un pericoloso comunista, con qualche difficoltà, va detto. Democratico sì, ma milionario, in quanto la sua famiglia ha sempre amministrato le ricchezze di casa Getty. Perché essere di sinistra in America è un’altra cosa, ricordiamoci sempre l’esteticamente simmetrico governatore democratico dell’Illinois, il roccioso JB Pritzker (famiglia che dà il nome al Nobel dell’architettura, ricconi di Chicago, possessori tra le altre cose della catena Hyatt) che l’estate scorsa parlando di Trump alla convention democratica, arringava così le folle: “Quello è un poraccio, lasciatevelo dire da un vero miliardario. Avete mai visto con che razza di aereo privato va in giro?”. Intendendo il catorcio nero-oro con cui Trump scorrazza da anni, riuscendo a sembrare ricco solo ai poveri, finché ora ricco è diventato davvero, e come tutti i ricchi non spende, e l’aereo nuovo se l’è fatto regalare.


Ma tornando a Newsom, un po’ Christian Bale in “American Psycho”, un po’ Michael Douglas in “Wall Street”, Douglas recentemente in una intervista ha detto che se lo girasse oggi, il film che proclamava che “l’avidità è giusta! L’avidità è buona, l’avidità salverà la disfunzionante società che ha nome America”, lo farebbe in Silicon Valley. Però Newsom mai metterebbe quei gessati, né aderirebbe al neo cafonalesimo che il trumpismo 2.0 sta imponendo oggi al paese e al mondo, l’estetica di maschi tutti Tony Effe, quella “energia maschile” che Mark Zuckerberg, fintosi per anni maschio beta, tutto cavolo nero e auto non inquinanti, ha tirato fuori ultimamente a ritmo di catenone d’oro e bicipiti guizzanti.

E le donne? Una angosciata lettrice scriveva a Vanessa Friedman, la critica di moda del New York Times, il 12 maggio scorso, chiedendole come potersi vestire elegante e sexy senza però sembrare una “Maga girl”, cioè quel tipo di donna trumpiana che è “un mix tra una presentatrice della Fox e Miss Universo”. Cioè equipaggiata di “ciglia finte, zigomi e labbra da combattimento, tacchi a spillo”. Cfr. Melania, Ivanka, Lara e Tiffany Trump, ma anche Kristi Noem, la ministra dell’Interno. L’eccezione sarebbe la moglie del vicepresidente, Usha Vance, che con la provocatoria propensione a non tingersi i capelli e a non truccarsi confermerebbe appunto la regola. Sì, però, diciamo noi, dove è nata Usha? A San Diego, California! Mica sugli Appalachi come il marito (che invece si trucca gli occhi, sarà un uso appalachiano).


Comunque, in California, a parte il mondo del cinema, i parrucchieri costano talmente tanto che nessuno ci va, e dunque il capello spettinato è parte dell’estetica, insieme alle ciabattine infradito e allo smanicato e all’ubiquo tappetino da yoga. Poi c’è un mondo di mezzo, la donna mezza newsoniana e mezza trumpiana, come Kimberly Guilfoyle, ex moglie di Newsom, ex conduttrice Fox, e ora morosa o forse ex morosa di Donald Trump jr, figlio dell’Arancione (dovrebbe andare a fare l’ambasciatrice americana in Grecia, è una californiana con tubino, in transizione verso Maga girl).


Altre transizioni hanno messo in fuga Musk, appunto il figlio indotto a diventare figlia, e dunque via in Texas, ma per sconfiggere il rivale Altman ha messo su X.AI, una startup di intelligenza artificiale – di nuovo -a Los Angeles, mica a Houston tra i bovari. Purtroppo però i suoi tweet non li affida all’intelligenza artificiale californiana o texana bensì li gestisce personalmente. Con scarsi risultati, come nel repentino pentimento dopo la separazione burrascosa da Trump. Il quale, va detto, ha un repertorio di trovate ben più efficaci (avrà una Maga Ai che gli fa un’agenda di vaccate giornaliera?). L’ultima è stata quella di voler cancellare il nome di una nave della Marina militare intitolata a Harvey Milk, celebre attivista gay di San Francisco, assassinato nel ’78. Lo ha fatto naturalmente per farsi notare di più nel mese del Pride, insomma la solita trovata scuoti-coscienze a gratis, su cui probabilmente cambierà idea, e senza peraltro nessuna empatia, essendo stato sparato a sua volta anche lui da un malato di mente.


Milk non era solo un attivista ma anche un consigliere comunale, sparato da un killer con una mira migliore di quello che ha puntato Trump, e che poi se la cavò con pochi anni di carcere, perché dissero che, porello, era depresso. Ammazzò in quella sparatoria anche l’allora sindaco George Moscone, a cui è poi dedicato il famoso Moscone Center dove venivano presentati i prodotti Apple e magari verrà presentato il nuovo aggeggio Ai. Perché in California tutto si tiene, diritti e cavolo nero, startup e cinematografari e tecnologia e ciabattine.

Anche, pazzia, stranezza, culto del bizzarro e dell’inattuale. A San Francisco è ancora in vigore una legge che consente di andare in giro nudi per strada. Luogo inospitale, faglie pronte a muoversi, lande desolate senz’acqua, fauna predatoria, incendi, la California tecnicamente è inospitale e questo fa parte del suo fascino. La luce più forte del mondo, da cui la capitale mondiale del cinema, e a Nord la corsa all’oro dell’800 che richiamò a un certo punto tutti gli avventurieri del globo a cercar pepite (un bavarese ci provò con una tela resistente per i minatori, un certo Levi Strauss, mentre un altro bavarese, il nonno di Trump, andò invece nel Klondike). C’erano talmente tanti uomini che a un certo punto dovettero importare dal resto del mondo diecimila prostitute, per evitare l’estinzione della specie (dunque i californiani d’oggi sono tutti un po’ nipoti di mignotta). E’ un mondo di vecchi e nuovi avventurieri, nativi o inurbati come i Musk ketaminici, di giorno geni della fabbrica (con incentivo statale) e di notte twittatori presidenziali o anti presidenziali, e procreatori seriali di bebé (per i suoi 13 o 14 figli fatti con varie signore e tecniche c’è tutto un protocollo, milioni di dollari di pagamento cash più un mantenimento mensile di centomila, pare).


Non che Newsom-American Psycho sia privo di follia, adesso forse gli va bene che si pone come paladino della resistenza, e che Trump manda le truppe, ma subito dopo la vittoria dell’Arancione si buttò anche lui su certi podcast della destra, dicendo che insomma sì, abbasso il gender e i trans (questi poveri trans, colpevoli sempre di tutto!). Poi, appunto, ora gli è capitata ’sta fortuna delle rivolte, chissà se durerà. E chissà che farebbe un altro grande californiano di fuori, Ronald Reagan, che del Golden State fu governatore, prima che presidente, e la cui effigie Trump tiene vicino a sé nello Studio Ovale ormai dorato come la tavernetta di un Casamonica. Bistrattato in vita, celebre per le battute (“Tutti mi chiedono come si possa essere presidenti degli Stati Uniti con un passato da attori, ma io mi chiedo piuttosto come si possa fare i presidenti degli Stati Uniti senza essere stati attori”), seppe tenere insieme tutto, anche un certo esser reazionario con un pragmatismo inaspettato. Da Ronald a Donald, c’è una vecchia foto del 1987 che li ritrae insieme alla Casa Bianca, però certo uno proclamava ottimismo, erano gli anni Ottanta, anzi quello inventò gli Ottanta che dovevano venir fuori dalle cupezze del decennio precedente. Invece, oggi, quell’altro, un misto di sinistri avvertimenti, oscuri presagi, minacce, quotidiano shit show. Poi certo erano altri tempi, e se all’epoca fece scandalo la foto di Nancy Reagan seduta sulle ginocchia di Mr. T cioè il P.E. Baracus di “A-Team”, oggi Trump è P.E. Baracus. Anche Reagan aveva un’università che amava odiare, nel suo caso era la Berkeley culla delle proteste studentesche, e non la Harvard di oggi odiata in quanto simbolo (a costo zero) della fighetteria che fa ribollire il sangue degli analfabeti patrioti. Certo, lui preferisce la Florida, che è una California senza cavolo nero, vegetariani, università, ma coi cubani, tasse più basse e macchine più lunghe. L’odiata California è lo stato di Nancy Pelosi (ricordate quando il marito fu assalito a martellate da un Maga-go infervorato?); di Kamala Harris, di Newsom appunto.


Però adesso i californiani potrebbero anche stufarsi: se la Repubblica di California, simboleggiata dal tipico orso, durò solo un mese, da giugno a luglio 1846, e funziona soprattutto sulle magliette per i turisti, da sempre si parla di una secessione, e mai si fa. In 175 anni (in origine la California apparteneva al Messico, diventò nordamericana solo nel 1850) ci sono state ben 220 proposte di separazione. Il movimento “Calexit” torna fuori ogni tanto, tipo l’Alto Adige, che non vuole veramente abbandonare l’Italia, ma solo sentirsi speciale. Adesso però se ne torna a parlare, di questa Calexit: “i valori californiani sono completamente diversi da quelli del resto d’America”, dice il portavoce del movimento, Marcus Ruiz Evans. Dice che l’idea gli è venuta molti anni fa, nel 2007, quando vide come fu trattata sua madre immigrata in fuga dal Texas razzista, approdata nella accogliente e tollerante California. “Ogni quattro anni”, ha raccontato il calexiter, “dobbiamo avere questa paura di perdere accesso a aria e acqua pulita, a un ambiente non inquinato, e le persone trans e gli immigrati devono vivere nel terrore”.


Così arriva anche l’immancabile referendum: bisogna raggiungere il mezzo milione di firme e allora sarà possibile proporre, tra due anni, il quesito “la California dovrebbe uscire dagli Stati Uniti e diventare un paese libero e indipendente?”. Poi non sarebbe facile, serviranno comunque leggi apposite e una lunga procedura. Per le firme c’è tempo solo fino al 22 luglio. Speriamo solo che i democratici californiani non seguano quelli italiani. Sennò si fa prima a rifugiarsi sugli Appalachi, vabbè.


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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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