La forza che trasforma tutto in materia da plasmare ha cancellato ogni stabilità e certezza. Nel ciclo incessante tra creazione e dissoluzione, anche l’identità finisce per consumarsi
Nel nostro linguaggio la parola “consumismo” ha sempre una torsione negativa. Non vi è praticamente nessuna bocca da cui questa parola non esca con un soffio di stantio moralismo. Si dice, ovviamente, che i consumi sono necessari per lo sviluppo economico e per la crescita, che la funzione della produzione è soddisfare la domanda e che il consumo è il solo fine e il solo scopo di tutta la produzione. Non si ascolta mai, invece, una difesa del perché consumare, nel senso più ampio del termine, sia in realtà qualcosa che fa tutt’uno con la vita. Figuriamoci, poi, nell’era del climatismo e di una sorta di pagano ritorno a una celebrazione della natura e del buon selvaggio, quanto si possa non capire questa semplicissima realtà.
Consumare è, paradossalmente, il primo atto creativo. Attraverso la consumazione di ciò che vi è, infatti, è possibile ricreare e dare vita ad altro. Consumare è tutt’uno con l’atto di trasformare. Come quando si pialla un legno per creare un tavolo, come quando si scalpella il marmo per trarne fuori una statua. Lo stesso avviene, in modo ancor più esemplare, con l’energia. Consumando diamo vita, creiamo nuovi ordini, permettiamo di generare nuove cose che a loro volta andranno ad alimentare questo ciclo creativo-distruttivo. E in questo percorso di consumo e creazione qualcosa va sempre disperso. Se c’è qualcosa di cui, come uomini, possiamo essere certi è che siamo esseri finiti, il che non significa semplicemente mortali, ma che siamo fatti di tempo. Se c’è una stoffa, un tessuto ultimo che tiene insieme l’umano, quel tessuto è proprio il tempo. Quantitativamente il tempo non è altro che la misura di tutto ciò che si consuma. Tutto ciò che noi conosciamo lo conosciamo esclusivamente come temporale. Non vi è possibilità di pensare se non nel tempo e attraverso il tempo. Persino l’eterno, ciò che sarebbe strutturalmente senza tempo, non riusciamo a non pensarlo se non attraverso una interminabile temporalità. Ma se ciò di cui siamo fatti è appunto tempo, sappiamo già da sempre, ossia dall’inizio del nostro pensare nella mitologia greca, che chronos divora i propri figli. E se il tempo divora noi, che siamo tempo, noi stessi non siamo altro che potenza che consuma, dissipa, dissolve, ma non nullifica semplicemente bensì trasforma. La natura modella nel corso di milioni di anni, e infine dissolve. L’uomo, attraverso il proprio consumo, accelera il “tempo naturale”, brucia e crea in modo incomparabilmente più rapido. Così diviene egli stesso creatore, accelera l’evoluzione naturale, diviene egli stesso “natura” creatrice. Per farlo deve, però, consumare, deve cancellare-trasformare l’esistente, il dato, il “naturale”. La storia è questo processo in cui la natura viene presa in mano dall’uomo e viene insieme creata e consumata.
Ovviamente ciò non vale in alcun modo solo per “le cose”. In Hegel, la filosofia (il pensiero) viene vista come un agente corrosivo del passato e delle strutture date, come il fosforo: dà luce ma brucia. Questa opera dissolutoria, di consumo dell’esistente, operata dalla filosofia è ciò che fa la ragione: comprendendo sempre meglio il mondo, lo organizza in concetti che disciolgono, consumano, ciò che vi era prima. E così si procederebbe verso un “meglio”. Realtà o illusione? Poco importa, perché senza l’idea di questo accrescimento attraverso l’operare, attraverso il consumare, non ci sarebbe destino per l’uomo. Perché l’uomo è tempo che consuma, trasforma, accresce. Di tutto ciò il capitalismo è insuperabile rispecchiamento.
In questa grande opera di assimilazione e trasformazione che tutto consuma, che sottrae certezze e infine elimina ciò che appare dato da un qualche superiore e immobile ordine naturale, mutano (migliorano?), nel corso dei secoli, anche le strutture politiche. Dalla rigidità dei “dispotismi” si arriva fino alla democrazia liberale, che continuamente consuma se stessa attraverso divisione dell’opinione pubblica, dibattito, governi vecchi che cadono e nuovi che sorgono per poi ancora cadere, e in questa ciclicità tutto è sempre in crisi e allo stesso tempo vitale. Insomma, per non farla troppo lunga, l’accelerazione di questo consumare, di questo consumarsi dell’occidente e di tutto ciò che in esso era fisso, stabile, dato, è stato uno dei motivi essenziali del suo successo: distruzione creatrice, non solo delle cose ma anche dei concetti e dei dogmi, ossia di ogni certezza. Tutto si consuma precisamente perché lo riconosciamo come finito e trasformabile. Non vi è nulla di intoccabile. Così l’atto del consumare è l’atto creativo per eccellenza, libera spazio e così concede spazio al nuovo e all’inatteso. Ma questo consumare tutto, che è anche il lato drammatico della storia, è il cuore pulsante dell’occidente, ed è un cuore inevitabilmente e strutturalmente nichilista.
Questo processo di auto-consumo dell’occidente, e quindi del mondo che, via via, diviene interamente occidente perché diviene agente di consumo-trasformazione, sembra non potersi interrompere. Altrimenti si precipita in una stabilità mortifera. Se siamo tempo, infatti, non possiamo stare. Tuttavia non ci si può consumare all’infinito (proprio perché siamo strutturalmente finiti). Quindi, la domanda sarebbe, è possibile uscire da questo circolo di auto consumazione? O è, invece, necessario “compiere il nostro destino” portando la consumazione all’estremo?