La raccolta di poesie “Le onde radio” di Domenica Segna è una crasi tra autobiografia e storia universale, tra traumi provati e credenze millenarie. Ogni verso ci fa slittare verso una realtà imprevista
Esistono rari poeti i cui testi stanno in piedi contro ogni supposta legge di gravità letteraria. Spesso sono insieme oracolari e aerei, pervasi da un’ironia ubiqua e quindi imprendibile, come un aquilone che fluttua qua e là non si sa se sfuggito di mano, o come una bolla di sapone materializzata da chissà che soffio. Questi poeti esprimono una razionalità quieta e folle, puntigliosa e sghemba. Sembrano fiori senza gambo, frutto di una reazione chimica impossibile da ricostruire: fanno pensare a una geometria non euclidea della poesia. È il caso di Domenico Segna, che oggi torna in libreria con “Le onde radio”, edito da AnimaMundi. Il prefatore Alberto Bertoni parla correttamente di una lirica “meditativa e gentile”, impastata di “umor nero” e ansia. È anche, una lirica tutta tramata di citazioni implicite. Nella raccolta precedente di Segna trovavamo chiese-personaggio o chiese-luoghi geometrici che definivano tutti i punti di una determinata fantasticheria nutrita da memorie personali, collettive e libresche. I nomi dei centri di culto diventavano cioè il liquido amniotico della biografia affettiva del poeta. Con procedimenti e in parte con riferimenti analoghi, ma con un più intimo strazio, l’autore riprende qui il discorso. Ne risulta una crasi tra autobiografia e storia universale, tra traumi privati e credenze millenarie, organizzata attraverso un catalogo naturalmente surrealista: “Sono bislacco, bislacco dono (…) Ebreo impenitente, cristiano romano, / musulmano suadente, di nuovo cristiano / e ancora ortodosso ebreo / colombe sul tetto pur di far dispetto / al giorno dopo senza di me. / Efialte a buon mercato d’uno specchio / ancien regime, fatwa bisestile / di me stesso per essere vero / al dicastero delle Termopili / resto la stanchezza di un mistero”. “Resto la stanchezza di un mistero”: ecco un verso finale quasi verlainiano, che potrebbe funzionare da emblema di civiltà per tutti noi.
Orientandosi col solo filo del subconscio, il poeta avanza sicuro tra elenchi caotici, associazioni foniche che producono inaspettate scintille di senso, assimilazioni del micro al macrocosmo, analogie che parificano dimensioni qualitativamente incompatibili, soavi slogature metriche. Tutte queste caratteristiche, frullate insieme, rendono la raccolta simile a un’ininterrotta acrobazia: ogni verso ci fa slittare verso una realtà imprevista. Ci sfilano davanti Emmaus, Cartagine, la “Serata di un cane in un’azienda agricola”, il lago di Tiberiade, una “Upupa di silenzio”. Chi scrive dice di tradurre “il sogno di un dogma” o “le consuetudini oscure / di un rassegnato gioco da tavolo”: è “un impiegato visionario”, un figlio abbandonato dal padre in un silenzio indecifrabile, che riempie di continuo poeticamente come Sisifo. La sua difesa è un Assurdo decantato, strappato alla pesanteur dell’esistenza, in cui la crudeltà della vicenda famigliare si trasforma in una sardonica fiaba. Ovviamente questa tecnica ha un costo: magari quello di chiudere il proprio amore “con il suo veliero in una bottiglia di vetro”, come è detto in un verso che chiarisce bene il funzionamento dell’immaginazione di Segna.
Di solito, la storia sacra e la storia profana si affollano nello stesso quadro. In “Dopocena”, per esempio, si rappresenta la fine dell’“ultima” cena di un Gesù il quale, salutati gli amici, galleggia in un silenzio privo di eventi tra Downton Abbey e la lavastoviglie, mentre in una doppia allusione a Ensor e alla Ue le “Icone delle onde radio di ieri / raccontano della sua entrata a Bruxelles”. Segna è un cattolico di frontiera, psicologicamente protestante, che con la sua parte ebraica esorcizza la dissoluzione di uno spazio religioso rigorosamente delimitato. Nel suo mondo lo Spirito santo, qua e là in forma di onda radiofonica, sfiora tutte le figure di tutti gli immaginari, riunite in una compresenza eterna che ha un simbolo terreno noto: quella Roma in cui l’autore è cresciuto. La Roma dei comunisti gramsciani, dei cimiteri acattolici, delle basiliche. Una città che ci ripropone sempre la stessa domanda: tutto è sacro, o tutto è surrealista?