Il dramma inascoltato dei detenuti è stato al centro dell’incontro a Palazzo Strozzi. L’auspicio è che i magistrati, alla vigilia dell’entrata in servizio, trascorrano un periodo in carcere, perché ci sia un’educazione alla giustizia fondata sull’esperienza
Il Gabinetto Vieusseux sta dentro Palazzo Strozzi, come un gioiello discreto dentro lo scrigno più sontuoso. Mercoledì: all’ordine del giorno c’è il progetto che i magistrati alla vigilia dell’entrata in servizio trascorrano un periodo in carcere. Suona come un carnevale, è un’idea perfino ovvia. Nel 1534 Thomas More fu imprigionato nella Torre di Londra: obiezione di coscienza. Alla vigilia dell’impiccagione scrisse: “Siamo tutti imprigionati nella prigione del mondo, condannati e soggetti alla morte […] Così, quando la prigione viene amata come se non fosse una prigione, in un modo o nell’altro la morte ci porta fuori da essa”. Sono parole capaci di risonare ai carcerati più indotti. A quelli che, magari giovani, magari con una pena breve o senza pena, provvedono da sé, e s’impiccano, un termosifone per patibolo. “In un modo o nell’altro la morte ci porta fuori da essa”. Di recente un giudice del tribunale di sorveglianza di Firenze aveva negato l’accesso ai cosiddetti benefici carcerari a un detenuto che aveva tentato di impiccarsi e non c’era riuscito: la prossima volta impara.
Nel 1948 Piero Calamandrei, intervenendo in Parlamento, disse: “Bisogna vedere, bisogna starci, per rendersene conto. Ho conosciuto a Firenze un magistrato di eccezionale valore – Pasquale Saraceno – che i fascisti assassinarono nei giorni della liberazione, il quale aveva chiesto ai suoi superiori il permesso di andare sotto falso nome per qualche mese in un reclusorio, confuso coi carcerati, perché soltanto in questo modo avrebbe capito qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi. Vedere! Questo è il punto essenziale”. Più passa il tempo più Calamandrei viene citato – a salve. (Anche dai magistrati che, osserverà Francesca Scopelliti, vanno in pensione e diventano di colpo più saggi). Del carcere si possono usare ogni volta di nuovo le stesse citazioni, con la sola accortezza di postillare con un: “Anzi, oggi è ancora peggio”. Sentite: “Se oggi è diventato un episodio ordinario di cronaca nera, che lascia indifferenti i lettori, il fatto di detenuti che soccombono alle sevizie inflitte nel carcere, si deve ringraziare ancora quel celebre art. 16 del Codice del 1930, che garantendo praticamente l’impunità agli agenti di pubblica sicurezza ‘per fatti compiuti in servizio e relativi all’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica’, costituiva una specie di tacita istigazione alla tortura”. Questo scriveva Calamandrei nel 1949, e non poteva figurarsi che nel 2025 una legge sveltina avrebbe surclassato quelle norme di impunità agli agenti per fatti compiuti in servizio (e fuori!). Calamandrei aveva un barlume di speranza in più: “Se nel 1904 – al tempo di Filippo Turati – gli uomini politici che avessero esperienza della prigionia si potevano contare nella Camera italiana sulle dita di una mano, oggi nel Parlamento della Repubblica essi sono centinaia; solo nel Senato siedono diverse diecine di senatori che hanno scontato più di cinque anni per condanna del Tribunale speciale. Mai come ora è stata presente nella nostra vita parlamentare la cupa esperienza dolorante della prigionia vissuta…”. Era il 27 ottobre 1948. Il 28 ottobre il ministro di Grazia e Giustizia, il liberale Giuseppe Grassi, gli rispose: “Ella, onorevole Calamandrei, mi ha invitato a fare una passeggiata insieme nelle carceri; ci verrò volentieri, ma un’inchiesta mi pare francamente esagerata”. L’inchiesta avrebbe riguardato “i metodi di investigazione adoprati dalla polizia per ottenere la confessione degli arrestati, sulle condizioni dei detenuti, sui metodi adoprati dai personale carcerario per mantener la disciplina tra i reclusi”. Dunque adesso è chiaro che non è uno scherzo. In tanti hanno via via ripreso l’auspicio. Così Bernardo Petralia, che era a capo del Dap a Capodanno del 2022: “A ogni magistrato farebbe bene una settimana in carcere”. A febbraio non era più a capo.
Intanto è già evidente una differenza fra due modi di immaginare il passaggio carcerario dei magistrati. In uno, entrano in carcere nella loro veste, frequentano gli spazi dei detenuti, parlano con loro e con gli agenti, e la sera rincasano. Il secondo modo è di entrare in carcere e viverci alla maniera dei detenuti, compresa la notte. La notte è la verità della galera. E’ l’esperienza ripetuta del terrore di essere sepolti vivi. “La notte si dorme, e c’è silenzio”. Niente di più falso, si stenta a dormire, ci s’impasticca e il rumore irrompe a tradimento. Di gente che sta male, che ha paura, che ha gli incubi, che è oppressa dal buio pesto o dal neon perenne. “Voglio morire!” “Fai domandina!”. Di gente che muore, che tenta di morire, che finge di dormire mentre il vicino – vicinissimo, crisi degli alloggi, diceva Calamandrei – è andato a tentoni alla turca, forse per pisciare forse per appendersi. Questo secondo modo è ulteriormente diviso: che si stia a tempo pieno, ma restando magistrati riconosciuti come tali, o che, come desiderava quel gran giudice Saraceno, da detenuti confusi con gli altri. Bisogna avere la faccia di Robert Redford, direte. Ma no, vanno bene anche facce qualunque.
L’iniziativa è dell’Associazione degli amici di Leonardo Sciascia, e della Fondazione Enzo Tortora animata da Francesca Scopelliti. Simona Viola legge quello che Sciascia aveva scritto sul Corriere nel 1983, nemmeno tre mesi dopo l’infame arresto di Tortora: “Un rimedio… sarebbe quello di far fare a ogni magistrato, una volta superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere tra i comuni detenuti. Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Ci saranno altri incontri, il prossimo a fine mese a San Vittore. Firenze ha i titoli per ospitare il primo. Sono suoi i nomi che hanno segnato l’impegno per l’umanizzazione delle carceri italiane: Mario Gozzini, Sandro Margara, per dire di quelli che non ci sono più e di cui fui amico. E i presenti di oggi. Emilio Santoro, filosofia del diritto, si occupa da sempre di carcere. Una settimana o due da trascorrere in galera, dice, offrono una preziosa selezione per merito dei futuri magistrati. C’è il presidente del tribunale di sorveglianza, Marcello Bortolato. Avevo annotato qui una sua intervista, a proposito della scuola francese che “spedisce” i futuri giudici in galera. “Anche da noi, quando presidente della Scuola Superiore era Valerio Onida, i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla… Molti magistrati del penale, ben più di quelli che si possa immaginare, non hanno mai fatto ingresso in un carcere se non nella piccola saletta degli interrogatori. I cancelli raramente sono stati oltrepassati, anche solo per curiosità”. Mi aveva colpito quel: “Anche solo per curiosità”. Ribadisce il favore allo spirito della legge proposta. Perplesso sui 15 giorni per tutti, sulla notte, e sul rischio che includere nella formazione la letteratura su giustizia e carcere la trasformi in una specie di materia dell’obbligo.
C’è Fausto Giunta, docente di Diritto penale. Dice con calma cose sconvolgenti. Che nel carcere la pena deve tendere all’umanità e alla rieducazione, e l’ascoltatore pensa: “Ma ci sta ripetendo l’articolo 27 della Costituzione?” – e lui continua, sempre con quella calma, macché, è tutta una balla. C’è un abisso, dice, fra il mondo asettico e astratto, incorporale, del giudice che condanna, e il mondo dei birri cui viene trasmesso il condannato ridivenuto corpo e basta. Questo sa chiunque conosca la galera, e fa sì che la differenza fra chi ci arriva innocente e chi colpevole tenda a ridursi fino quasi ad annullarsi. Anche dopo gli augurabili giorni di galera, l’abitudine, le migliaia di anni inflitti, immunizzano il giudice dallo scandalo. Il suo è un penalismo personalista e liberale – libertario, direi. Ha quel genere di intransigenza che è degli scettici che non cessano di essere utopisti: utopisti per pessimismo, forse. Pensa a un’educazione alla giustizia che riconosca il limite, e la distinzione fra sanzione della colpa e rispetto per la persona. “La visita di un istituto penitenziario dovrebbe rientrare tra le prime esperienze dello studente di giurisprudenza”, dice.
Ci sono gli avvocati penalisti, naturalmente, Laura Antonelli, Eriberto Rosso. Conosciamo i tribunali in ogni meandro, in ogni recesso, ignoriamo il carcere. Filippo Donati, costituzionalista, perora con più convinzione la causa della letteratura carceraria, a nutrire la conoscenza del mondo carcerario, cioè del mondo. E c’è Benedetto Della Vedova, per un nutrito gruppo di parlamentari che hanno sottoscritto il progetto della legge. Evoca il manzoniano-sciasciano buon senso contro il senso comune. Insiste sull’intento non punitivo: preoccupazione fondata, in una temperie castigatrice. Eppure non solo chi intraprenda la carriera di giudicare (quella: e chi sono io…?) ma un ordinario cittadino e cittadina, dovrebbe sentire come un privilegio la possibilità di visitare la gabbia dei propri simili e rimirarcisi. Come fanno da anni le scolaresche padovane col carcere Due Palazzi grazie a Ristretti Orizzonti. E anche quando ci si vada ben al riparo, nell’atteggiamento con cui si andava allo zoo, può venirne la lezione che la schiena di un gorilla sa impartire a chi gli fa le smorfie oltre il vetro blindato.
Nel programma fiorentino, come in quello prossimo, non figura una sola, un solo detenuto. (Io sono venuto perché sì, e i promotori sono miei amici). Una distrazione strana. Anche della letteratura sul carcere, una parte decisiva è letteratura del carcere. Me, per esempio, dovranno leggermi. Dell’utilità di pernottare in carcere aveva parlato con più vibrante energia Emilio Santoro. Mentre tornava al suo posto gli ho chiesto: “Ma poi alla fine sei riuscito a trascorrere una notte in galera?”. “Macché”, ha risposto, desolato.
Alla fine, Francesca mi ha chiesto con che stato d’animo avessi seguito l’incontro. Glielo dico ora. Lo stato d’animo dell’unica persona in sala che aveva trascorso almeno una notte in galera. Del gorilla che dà la schiena alla bambina. Se mi lasciassero andare in galera, da detenuto, un mese all’anno del tempo che forse mi resta, ci andrei di corsa, come si dice.