Restituire alla medicina la sua dimensione umana per combattere la pseudoscienza

La falsa scienza è difficile da sconfiggere perché abbraccia tutti i bias della soggettività, gli stessi che la scienza vuole invece neutralizzare. Bisogna ripartire dai medici e dalla “relazione di cura” con i pazienti

Quando ci si chiede perché tante persone si affidino a credenze infondate o pericolose in tema di salute, fino a morirne o far morire i propri figli, la risposta non può fermarsi né al deficit informativo né a un generico rifiuto della razionalità. La radice di questa inclinazione va cercata nella centralità assoluta che, per ciascuno di noi, assume la percezione personale di star meglio o peggio. La salute è una dimensione in cui l’individuo, di fronte al proprio corpo, non può e non vuole rinunciare al diritto di sentire – e giudicare – in prima persona ciò che accade. Quando si sperimenta una sensazione di miglioramento, questa si impone con una forza tale da rendere irrilevante qualsiasi argomento razionale, statistico o proveniente dall’esterno. Il vissuto del dolore e della guarigione è inseparabile dall’identità stessa, e ogni sapere che pretenda di correggerlo o relativizzarlo viene vissuto come una minaccia o una spoliazione.

Su questa struttura percettiva si innesta la promessa della pseudomedicina: se ti senti meglio, vuol dire che la cura funziona. La medicina “alternativa” costruisce tutto il suo successo su una restituzione di sovranità al paziente, che viene legittimato nella sua esperienza diretta, senza alcuna mediazione. Questa strategia, apparentemente innocua, si rivela in realtà potentissima: perché chiede all’individuo solo ciò che già è disposto a concedere – fiducia nel proprio sentire – e non il sacrificio della propria centralità a vantaggio di una verità collettiva, impersonale, stabilita da metodi astratti come i trial clinici o la statistica. In questo senso, la distanza fra metodo scientifico e percezione personale non è solo una questione di comunicazione, ma un nodo strutturale, difficilmente sanabile: la scienza nasce proprio per neutralizzare i bias della soggettività, la pseudoscienza vince proprio perché li abbraccia senza riserve. Non solo: questo rafforzamento e la difesa della percezione individuale da parte dei proponenti di terapie antiscientifiche finisce per assumere anche un forte valore identitario. Ce ne accorgiamo, per esempio, in occasione dell’imposizione di misure quali l’obbligo vaccinale, quando il dibattito pubblico finisce per assumere una natura paradossale e quasi rovesciata: chi si affida alle proprie sensazioni o alle narrazioni alternative si proclama “libero pensatore”, capace di sottrarsi al conformismo e di “vedere” dove gli altri sarebbero ciechi; chi invece accetta la disciplina del metodo scientifico, la necessità di dati condivisi e la critica sistematica delle proprie convinzioni, viene deriso come gregario, “pecora” incapace di autonomia.

L’invocazione della libertà personale, in questo contesto, si trasforma spesso in una difesa istintiva di quella percezione, eretta a criterio ultimo e indiscutibile: “su di me funziona / su di me non serve”. In questa logica, qualsiasi invito a sottoporre le proprie convinzioni a un controllo collettivo, a un confronto con i dati, con la statistica, con il sapere costruito pazientemente nel tempo, viene vissuto come una pretesa autoritaria, una violenza contro la propria autonomia, una richiesta di “pensare come il branco”. Così, la disciplina del metodo scientifico, che nasce proprio per emancipare la conoscenza dall’arbitrio e dall’errore del singolo, viene caricata di un significato opposto: diventa, agli occhi di chi la rifiuta, uno strumento di arroganza, di oppressione e di conformismo.

Questo paradosso alimenta la radicalizzazione del dibattito pubblico: la libertà rivendicata non è la libertà di conoscere, di mettere in discussione, di cambiare idea davanti ai fatti, ma la libertà di non essere mai smentiti dalla realtà, di mantenere intatta la propria narrazione anche contro ogni evidenza. La medicina scientifica o la scienza stessa sono ridotte al ruolo di una “chiesa” che pretende obbedienza, mentre la rivendicazione dell’esperienza individuale viene elevata a bandiera di emancipazione.

La questione si fa ancora più insidiosa quando si considera il decorso di malattie anche molto serie che nelle fasi iniziali non danno sintomi importanti o immediatamente percepibili, come accade per molti tumori nelle prime fasi, o per alcune malattie croniche. In questi casi, affidarsi all’omeopatia o a rimedi pseudoscientifici può rafforzare l’illusione di efficacia: il paziente si sente meglio, non perché il rimedio abbia curato qualcosa, ma perché la malattia progredisce in modo silenzioso e asintomatico, oppure perché il naturale andamento dei sintomi prevede periodi di miglioramento spontaneo. Così, in assenza di segnali allarmanti, si può rafforzare la convinzione di aver trovato la cura giusta, proprio mentre la patologia reale si sviluppa senza alcuna opposizione, a fronte magari di un trattamento indicato dai medici che comporterebbe disagi e possibili effetti collaterali. Questo autoinganno è uno dei rischi maggiori delle pratiche prive di fondamento, perché unisce la falsa sicurezza dell’assenza di danni visibili alla rinuncia a terapie che potrebbero davvero cambiare la storia clinica del paziente.

Di fronte a questa situazione, da decenni si invoca il ritorno a una medicina “centrata sulla persona”, alla relazione, all’ascolto e al dialogo: il rimedio, infatti, alla solipsistica convinzione ancorata sulla percezione autoindotta di “stare meglio” può essere efficacemente trovato nella conversazione e nella cura delle parole, prima che delle persone. Eppure, questa consapevolezza, che ormai appartiene alla retorica ufficiale di ogni congresso, è rimasta quasi sempre lettera morta. Il vero nodo, infatti, non è mai stato il deficit di empatia nei singoli professionisti, né la loro incapacità di ascoltare o spiegare: il personale sanitario, nella maggior parte dei casi, è ben consapevole della necessità di costruire una relazione di fiducia, di accogliere la sofferenza del paziente nella sua interezza. Il problema, invece, è che il sistema stesso ha reso questa relazione praticamente impossibile, trasformando la cura in un percorso industriale, scandito da tempistiche irragionevoli, sovraccarico di burocrazia, impoverito di risorse e di strumenti reali.

Oggi a un medico si chiede di vedere decine di pazienti in tempi ridotti all’osso, di compilare una montagna di scartoffie, di rispondere a incombenze amministrative sempre più pressanti, spesso senza alcun supporto psicologico, con strutture logore e personale ridotto all’essenziale. In queste condizioni, la tanto evocata “relazione di cura” rischia di ridursi a una formula vuota: chi lavora in corsia o in ambulatorio non ha materialmente lo spazio per ascoltare, spiegare, rassicurare, costruire alleanze terapeutiche. E, soprattutto, si trova nell’impossibilità di integrare quella componente di attenzione personale che rappresenta, per i pazienti, la prova concreta di essere “al centro”. Così la medicina, nonostante tutte le dichiarazioni di principio, finisce per apparire avversaria e guidata da interessi alieni al singolo, mentre la pseudoscienza – libera da vincoli e da responsabilità reali – può permettersi di occupare in esclusiva il terreno dell’ascolto, della narrazione individuale, della personalizzazione.

La conseguenza è che ogni appello al “rapporto medico-paziente” resta inefficace, se non si affronta con decisione la questione delle condizioni materiali in cui quella relazione dovrebbe avvenire. Non servono le buone intenzioni da declamare, ma organizzazione del lavoro, investimenti, strutture, formazione specifica e una ridefinizione delle priorità del sistema sanitario. L’esempio delle oncologie che integrano stabilmente psicologi nel percorso del paziente – con risultati ampiamente documentati sul piano della qualità percepita, dell’aderenza alle cure e persino degli esiti clinici – mostra che un modello alternativo è possibile, ma solo quando lo si sostiene con risorse, tempo, professionalità dedicate e la volontà politica di mettere la cura della persona, non solo come dichiarazione, ma come fatto.

In definitiva, la battaglia contro la pseudoscienza si gioca proprio qui: nella capacità di restituire alla medicina ufficiale la sua dimensione umana non come retorica o gesto accessorio, ma come condizione di base, costruita e garantita dalle scelte collettive e dalle strutture organizzative. Solo se i medici avranno davvero il tempo, gli strumenti e il supporto per accompagnare il paziente anche nel suo vissuto – senza dover scegliere ogni giorno se essere tecnici o persone – la pseudoscienza verrà spossessata della sua arma più potente, e la medicina potrà tornare a essere, allo stesso tempo, scienza e relazione, metodo e ascolto, prova e attenzione.

Restituiamo ai medici e ai sanitari tutti le risorse, il tempo e la dimensione umana: questa è la prima, più importante delle riforme, se intendiamo recuperare la fiducia dei pazienti.

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