C’è fede nel desiderio

Così la nostra ricerca della felicità è specchio dell’esistenza di Dio. La teologia, l’unica possibile, parli di Lui

La Chiesa è l’unica azienda al mondo dove non esiste un ufficio reclami. In effetti, non avrebbe senso, visto che i clienti eventualmente scontenti del prodotto aldilà offerto loro dalla Chiesa, ossia il paradiso, la felicità eterna, non possono più reclamare: sono morti. Eppure tutti, ma proprio tutti, ne sono interessati. Esiste un business migliore di questo? C’è una fetta di mercato grande quanto l’intera torta, ossia una domanda che riguarda tutti gli uomini, la domanda di felicità. La Chiesa propone precisamente questa, la felicità eterna, a tutti, al prezzo alla fin fine accettabile di qualche rinuncia (la scommessa di Pascal docet), la consegna avviene nell’aldilà, nessuno può reclamare. Geniale.

E’ chiaro che un business di questo tipo non poteva non attirare l’interesse di un’altra azienda multinazionale, quella dei datori di lavoro di tutto il mondo, dei padroni si diceva una volta. Come mai? Semplice, perché la promessa di un aldilà felice è utilissima a sopportare meglio la miseria, le condizioni di lavoro ingiuste e disumane, insomma a far star buoni e tranquilli i lavoratori, i poveri, i senza tetto e senza speranza.

Non c’è da stupirsi, dunque, se Chiesa e aristocrazia in passato, e poi nella modernità Chiesa e borghesia siano andate a braccetto per secoli, e ora si abbraccino con passione in Nord America.

In Sud America, invece, è nata la teologia della liberazione. Liberazione da che cosa? Dalla miseria. E’ la teologia di matrice marxista che ha influenzato anche Papa Francesco. Cristo non è venuto sulla terra, dicevano i teologi sudamericani, solo per annunciare la felicità nel cielo, ma per consolare gli afflitti già nell’aldiquà. E’ il Vangelo che lo dice: “Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella” (Mt. 11,4-5). Insomma, se vuole restare fedele al Vangelo, la Chiesa non può non stare dalla parte di coloro che qui e ora sono ammalati, poveri, migranti, ultimi. La teologia della liberazione dice che il business della Chiesa non è l’aldilà ma ovunque qui su questa terra vi siano sofferenza e miseria.

Si capisce perché durante il pontificato di Papa Francesco le sinistre di tutto il mondo, a corto di idee politiche, esultavano e le destre invece denunciavano la deriva sindacalista e comunista – due parole offensive fra i conservatori ricchi di tutto il mondo – di una Chiesa che era stata per secoli dalla loro parte. E ora? Da che parte starà Papa Leone XIV? Naturalmente è ancora molto presto per capirlo ma a me è piaciuta molto la sua prima omelia, alla Cappella Sistina, quando ha ricordato “l’impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30)”.

Mi ha ricordato una Messa a cui ho partecipato anni fa a Lugano. Era agosto, in chiesa vi erano soprattutto turisti, che non conoscevano padre Domenico. I media riportavano gravi fatti di cronaca nel mondo e tutti si aspettavano nell’omelia un commento moralistico: eh no, così non si fa. E invece padre Domenico non parlò di altro se non di Dio. Sparì. Era come un dito puntato verso il Cielo, una finestra sull’Invisibile. Alla fine dell’omelia vi fu un breve momento di silenzio, poi partì spontaneo un applauso. A chi? A me non sembrò un applauso a padre Domenico ma, credo, a Dio stesso, se mai fosse possibile veramente. Eravamo grati e felici di aver ascoltato un vicario di Cristo che non si faceva dettare l’agenda dalla cronaca, ma che, con estrema semplicità, ci parlava di Dio, com’era e come non era: eterno, infinito, immutabile, buono, perfetto e così via. Bellissimo. Era l’omelia di un vero teologo, perché “teologia” significa niente altro che questo: discorso (logos) su Dio (theos).

Sono stato qualche volta in Svizzera membro delle commissioni per i concorsi a cattedra di teologia dogmatica e di teologia fondamentale. Mi ha sorpreso constatare che molti teologi si occupano ormai solo di cose come ecoteologia, zooteologia, neuroteologia, anarcoteologia, teologia gender, teologia transumanista, teologia digitale, e persino teologia alimentare o gastroteologia. Di tutto scrivono i teologi (tedeschi) tranne che di Dio.

Meglio padre Domenico, almeno ci parlava dei nomi di Dio e, già solo semplicemente parlandocene, ci riempiva il cuore.

Ho studiato per anni il trattato su Dio della Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino e di recente, grazie anche alle discussioni con i miei studenti di filosofia di Zurigo, e alla rilettura del teologo ebreo medievale Mosè Maimonide, ho capito forse come mai parlare di Dio è così consolante.

Prendiamo il trattato sugli attributi o nomi di Dio: secondo Tommaso d’Aquino, Egli è semplice, perfetto, buono, infinito, immutabile, eterno, uno, onniscente, vero, vivo, amorevole, giusto, misericordioso, onnipotente, felice, generante, in relazione, personale. Qual è il filo rosso che lega tutti questi attributi? A me sembra un pensiero desideroso o, semplicemente, il desiderio.

Nella vita sperimentiamo dolorosamente le conseguenze della nostra e della altrui imperfezione, ad esempio nel fallimento di una storia d’amore: come sarebbe bello, ci dice il nostro pensiero desideroso, incontrare un essere perfetto, che non sbaglia, e quindi non ferisce anche senza volerlo a motivo delle sue imperfezioni e debolezze, che non fa del male: la teologia spiega che Dio è proprio quell’essere perfetto. La storia gronda sangue per l’odio che abbrutisce uomini e popoli, sicché non possiamo non desiderare il contrario di quanto sperimentiamo: Dio, ci viene detto, è buono e amorevole. Non ci fidiamo dei voltagabbana: Dio è immutabile. Ci rattristiamo che le cose belle prima o poi debbano finire e le persone care debbano morire: Dio non finisce, è eterno. Ci sentiamo spenti e apatici: Dio è vivo. Siamo infelici: Dio è felice. Ci sentiamo soli: Dio, uno e trino, non è mai solo (famosa in proposito l’omelia di Ratzinger al funerale di Papa Giovanni Paolo II). Il discorso su Dio, dunque, la teo-logia, sembra anche una sorta mappa del desiderio umano di felicità in tutte le sue sfaccettature, una sinfonia struggente di desideri, un affresco di sofferenze e di speranze, una Divina Commedia dantesca in terzine di ragionamenti e passi biblici.

Mi hanno sempre colpito le dispute teologiche sulla natura di Dio, tutte accese, veementi. Eppure, trattano di un argomento alla fin fine non verificabile, su cui sarebbe impossibile avere certezze assolute. Ogni posizione ha dalla sua citazioni bibliche e buoni argomenti. Prendiamo ad esempio la disputa teologica più accesa oggi in corso nei paesi di lingua inglese, con centinaia di pubblicazioni in tutto il mondo (poi dicono che “Dio è morto”, dove? Forse solo in qualche paese europeo): da una parte il classical theism (teismo classico), dall’altra la process theology (teologia del processo) e l’open theism (teismo aperto). La prima sostiene che Dio è immutabile, le seconde sostengono, invece, che Dio cambia, diviene. I difensori della prima corrente argomentano che, se Dio mutasse, sarebbe imperfetto; i sostenitori delle altre due correnti ritengono, al contrario, che proprio se non mutasse, sarebbe imperfetto. Mi piace chiamare i primi “teologi di montagna”: immaginano che Dio sia una specie di montagna, stabile, fissa, inamovibile. E come una montagna instabile, franosa, non sarebbe una vera montagna, una montagna perfetta, così un Dio mobile non sarebbe perfetto. I secondi mi sembrano invece “teologi di mare”: immaginano Dio come il mare, immenso ma mobile, cangiante, ondoso. E come un mare immobile sarebbe un mare morto, uno stagno, un acquitrino, e non sarebbe un vero mare, un mare perfetto, così un Dio immobile sarebbe privo di vitalità, imperfetto.

I primi dicono: Dio non può non essere immobile; i secondi dicono: Dio non può non essere mobile. Perché “non può non essere”? Si tratta di una necessità logica fondata su argomenti razionali inoppugnabili? Non pare: entrambi hanno buoni argomenti dalla loro, come abbiamo appena visto. E dunque? A me sembra che la veemenza della disputa abbia a che fare con una necessità morale e psicologica, fondata sul desiderio.

I cristiani di montagna desiderano, anzi hanno proprio bisogno di certezze, e l’immagine della montagna, piantata lì, inamovibile, li rassicura. I cristiani di mare, invece, odiano il ristagno e sognano il movimento e il cambiamento, sicché l’immagine del mare con le sue onde dà loro speranza. Forse i primi sono tendenzialmente insicuri e i secondi eternamente insoddisfatti del presente. In ogni caso, si comprende il ragionamento del pensiero desideroso: per gli insicuri Dio non può non essere inamovibile, come una montagna appunto, altrimenti il loro bisogno di sicurezza resterebbe frustrato; per gli insoddisfatti Dio non può non essere mobile e diveniente, altrimenti il loro desiderio di cambiamento e di novità sarebbe vano. Forse sono questi bisogni e questi desideri a far dire loro: “deve (pur) esserci un Essere immobile” o “deve (pur) esserci un Essere diveniente”.

In ogni caso, come si vede, la teologia – proprio quella intesa in senso classico come discorso su Dio, non come gastroteologia e cose simili – ha a che fare con i desideri, i bisogni, le emozioni profonde dell’uomo.

Questa teologia è per sua natura anche escatologia, cioè discorso sul fine o sul destino ultimo dell’uomo, ossia sull’aldilà, sul paradiso. Per sua natura, infatti, questo è conforme al desiderio umano più profondo. Altrimenti che paradiso sarebbe?

Si comprende quindi perché parlare di Dio è veramente consolante. Nella partecipazione alla vita di un Dio infinito, immutabile, eterno, felice e così via, in una parola, perfettissimo, ossia esattamente il contrario della nostra esperienza umana imperfetta e infelice, trova pace il desiderio. Solo di un Dio così, come lo descrive la teologia classica, si può dire davvero che, alla fine dei tempi, “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21:4).

Ecco perché le omelie di padre Domenico su Dio erano belle: non perché distraevano dai problemi di cronaca di tutti i giorni ma, esattamente al contrario, perché, proprio nel momento in cui giungevano dalla cronaca nuove notizie sulla miseria e la violenza umane, intercettavano davvero il nostro desiderio (compensativo) profondo.

Eppure, senza padre Domenico noi non avremmo sentito parlare di Dio, perché “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv. 1:18). E padre Domenico, infatti, da vero vicario di Cristo, ci rivelava Dio, era finestra in terra sul Cielo. Finestra, non schermo, ché gli schermi, di cui siamo circondati, schermano e non (si) aprono.

Tutto questo significa che la Chiesa dovrebbe limitarsi a sparire, a essere null’altro che finestra, a parlare di Dio e dell’aldilà senza dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati? No di certo. Ma significa capire che nessun’acqua può dissetare davvero la sete di felicità, infinita e naturale, presente in tutti gli uomini, ricchi o poveri che siano. Per questo ogni cibo e acqua di questo mondo non può che essere solo un aperitivo dell’unico banchetto che sazia e disseta, quello preparato dallo Chef stellatissimo del Regno di Dio: “Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete” (Gv 4, 13-14).

Qui il cristianesimo prende definitivamente congedo dalle Ong, le quali si occupano solo dell’acqua che non disseta il desiderio di felicità. E se di tale desiderio non si occupa la Chiesa, chi mai dovrebbe occuparsene?

E’ falsa, dunque, l’alternativa tra una Chiesa per l’aldilà e una Chiesa per l’aldiquà, perché il desiderio di felicità, ossia di un aldilà della miseria e della sofferenza è radicato nelle profondità dell’aldiquà.

Sento già, a questo punto, l’obiezione di qualche ateo che, se colto, potrebbe anche citare Ludwig Feuerbach: se Dio è la risposta al desiderio di felicità dell’uomo, significa che Egli non è altro che la proiezione di questo desiderio e che, dunque, non esiste. Si sa che gli uomini assetati nel deserto hanno i miraggi, proprio perché assetati, ma i miraggi sono, appunto, illusioni. In inglese l’espressione “pensiero desideroso” si direbbe “wishful thinking” che significa, però, precisamente “pensiero illusorio”, “pia illusione”, un “oppiaceo” insomma, come diceva Karl Marx.

L’obiezione sembra convincente ma non lo è. Certo che la sete può generare miraggi ma, se nel mondo non esistesse e non fosse mai esistita l’acqua, avrebbe mai potuto esistere la sete? La natura fa di solito le cose per bene: se c’è la sete, da qualche parte c’è l’acqua. Cronologicamente, certo, prima abbiamo sete e poi beviamo l’acqua, ma logicamente, se non esistesse prima l’acqua non esisterebbe la sete. E infatti, un’umanità assetata senza mai acqua si sarebbe estinta subito. Quindi, l’esistenza della sete può essere un indizio dell’esistenza di un miraggio (un’oasi immaginaria piena di acqua), ma è senz’altro anche un indizio dell’esistenza, da qualche parte, dell’acqua.

Come facciamo a essere sicuri dell’una (miraggio) o dell’altra possibilità (paradiso)? Non lo siamo. Possiamo solo scommettere, come scriveva Pascal. Certo, non possiamo reclamare, ma credo proprio che valga lo stesso la pena correre il rischio.

Nel frattempo, una cosa vorrei chiedere a sua Santità all’inizio del suo pontificato: per favore, ci parli di Dio. Perché solo una Chiesa che pratica la teologia in senso stretto, cioè che, come una finestra in terra sul Cielo, come Cristo, rivela Dio e solo Lui, invece di discettare di tante altre cose di cui non è nemmeno esperta, e solo una Chiesa che ama l’escatologia, ossia che parla di futuro, di aldilà, di paradiso, del Regno “che non è di questo mondo” (Gv 18:36), può essere fedele alla sua missione ed è più efficace di qualsiasi istituzione mondana, di qualsivoglia Ong, di qualsiasi governo. Essa sola, infatti, prende sul serio questo nostro insopprimibile desiderio di felicità.

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