Sulle orme di Gutenberg. Nell’èra digitale, c’è chi usa ancora la stampa a caratteri mobili

È una tecnica antica, con un passato glorioso, ma anche laboriosa e impegnativa. Nell’èra della stampa digitale, affidarsi ai caratteri mobili in piombo o legno potrebbe sembrare anacronistico. Eppure anche a Milano resistono tipografie che utilizzano questa pratica secolare per stampare biglietti da visita, partecipazioni di nozze, inviti, carta intestata e da lettera, ma anche poster e altri prodotti artistici.

Una scelta che Simone Pezzini, titolare della Tipografia Pezzini, ci spiega così: “È la stampa più antica, quella con più matericità, che regala un’impressione sulla carta che nessun’altra tipologia di stampa può fornire”.

Luca Mariani è cofondatore della Fratelli Bonvini, che oltre a essere una tipografia è “una libreria, una cartoleria, un progetto culturale, una galleria d’arte”. Quando gli chiediamo perché da Bonvini si stampa ancora a caratteri mobili, ci risponde che a motivarli è il fatto di essere una tipografia storica, che è nata con questa modalità di stampa. “E poi perché c’è un mercato, c’è una richiesta da parte delle persone”. C’è gente, insomma, che desidera “una tipologia di stampa più preziosa, che si rifà a tecniche antiche”.

“Negli ultimi dieci, quindici anni c’è stata una forte rivalutazione della tecnica dei caratteri mobili”, ci conferma Paolo Giuliano, tipografo della Tipografia Pesatori. Anche in ambito universitario, da parte di chi studia grafica o comunicazione, “c’è un grande interesse verso questa tipologia di stampa”.

Nel nostro viaggio tra le tipografie che ancora praticano la stampa a caratteri mobili, abbiamo potuto osservare da vicino questi artigiani al lavoro. Giuliano ha composto per noi una riga di testo, posizionando i caratteri uno a uno, per poi stamparla davanti ai nostri occhi. Abbiamo visto le macchine in funzione, a partire dalla protagonista assoluta: la “Stella” della Heidelberg. “È la macchina che non manca mai in tipografia, perché permette tantissime lavorazioni: stampa, fustellatura, numerazione”, ci spiega Pezzini. Uno strumento interamente meccanico, che lavora i fogli con la sola forza della pressione.

Da Bonvini, Mariani ha azionato per noi un tirabozze: una macchina manuale con un piano orizzontale su cui si dispongono i caratteri o le matrici, che vengono poi inchiostrate con dei rulli. Vi si appoggia il foglio e si “tira la copia” facendo scorrere un grosso cilindro. È da questa macchina che prendono forma i poster della tipografia Bonvini. Per realizzarne uno a quattro colori servono almeno dieci giorni.

Eccolo, il convitato di pietra: il tempo. Rispetto alla stampa digitale, quanto ne serve in più per realizzare un lavoro con una tecnica che affonda le radici nella rivoluzione di Gutenberg? “Difficile da quantificare”, risponde Pezzini, “ma almeno due o tre volte tanto”. “Quattro volte tanto”, è la stima di Giuliano.

E allora, che futuro ha questo mestiere? Pezzini, negli ultimi anni, registra una crescita costante del lavoro. Ma per una previsione a lungo termine “bisognerebbe avere la sfera di cristallo”. È ottimista Marco Santagostini, contitolare della tipografia Pesatori: “Le persone stanno ricominciando a capire cos’è davvero la tipografia”. Più sfaccettato il giudizio di Mariani. Anche lui vede un grande interesse da parte del pubblico, ma per il futuro “il grosso problema è la sostenibilità di questi progetti, far funzionare queste tipografie e tenerle vive”. La domanda per questo tipo di prodotti tipografici c’è, ma non così diffusa come per la stampa digitale. “Non per niente, negli anni, tante tipografie hanno chiuso. Sono sopravvissute quelle che hanno saputo diversificare”. Il futuro resta incerto. “Speriamo di mantenere vivo l’interesse nelle persone”.

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