L’identità cinese alla prova della rivoluzione autoritaria imposta da Xi Jinping

Un saggio inedito in Italia racconta com’è cambiata la vita delle persone in Cina, tra chi si adatta e chi spera di scappare come la protagonista Yang Bin, ex procuratrice cinese che ha sfidato il sistema legale autoritario per difendere la giustizia e i diritti umani

Yang Bin è nata desiderando di più. I suoi genitori volevano che fosse come loro: operai con un reddito stabile, una pensione garantita e un alloggio assegnato dallo Stato. Entrambi lavoravano in una fabbrica statale di componenti per auto che non chiudeva mai, anche se quasi mai produceva profitti. Ma Yang era consumata da un senso insistente che lo scopo della sua vita potesse essere più grande. Dal vivo emana energia: espansiva, con occhi vivaci e profonde fossette che compaiono ogni volta che sorride o ride (e succede spesso), ma la sua fiducia apparente era frutto di una lezione. Da bambina era timida e soggetta ad arrossire. Era nata nel mezzo della Rivoluzione Culturale, un decennio di violenze politiche iniziato negli anni Sessanta che costò la vita ad almeno mezzo milione di persone, e imparò a dare valore alla conformità. Crescendo, i suoi genitori accennavano con toni cupi alle purghe precedenti sotto Mao Zedong, che governò il Partito comunista fino alla sua morte nel 1976. Questi racconti le insegnarono che distinguersi era il modo più rapido per diventare un bersaglio nella prossima campagna politica in arrivo. All’università, scelse quella che pensava fosse la facoltà politicamente più sicura: un campo di studi oggi scomparso, chiamato “Costruire il socialismo cinese”, una disciplina arcaica nata per analizzare la famosa frase di Deng Xiaoping sul creare un “socialismo con caratteristiche cinesi”.



Yang ebbe la fortuna di entrare nell’età adulta proprio mentre la Cina cercava un nuovo modo per ridefinirsi dopo Mao. Le riforme economiche e politiche iniziate nel 1978 da Deng – un leader anziano del Partito, due volte epurato da Mao – consentivano alle persone di scegliere il proprio lavoro, se avevano abbastanza coraggio, nelle poche nuove imprese private che stavano sorgendo. Così, dopo la laurea nel 1990, quando a Yang fu offerto un posto per unirsi ai genitori nella stessa unità lavorativa di fabbrica, rifiutò. Due decenni prima, un gesto simile sarebbe stato impensabile, ma lei apparteneva a una nuova generazione. “Non volevo una vita di cui potevo già immaginare la fine”, mi ha detto. Non sapeva ancora cosa voleva esattamente, ma sapeva con certezza che non l’avrebbe trovato in una fabbrica provinciale dell’Hunan, dove “una persona può vivere e morire in una fabbrica da diecimila operai, dall’asilo all’obitorio”, come la descriveva lei – il “piatto di riso di ferro” del welfare socialista. La sua ricerca di avventura la portò nella provincia costiera del Guangdong, dove suo fratello si era già trasferito. Fu una scelta fortunata. Yang trovò rapidamente lavoro in una nuova fabbrica privata di pesticidi. Negli anni Novanta, nei giorni euforici della politica di apertura e riforma della Cina, si aprivano enormi opportunità finanziarie dopo quasi quattro decenni di severo controllo ideologico sull’economia. Il Guangdong era in posizione perfetta per beneficiare di questa nuova fase, data la sua vicinanza all’allora colonia britannica di Hong Kong, ricca di capitali e competenze commerciali. Inoltre, il grande porto del Guangdong lo rendeva un luogo ideale per istituire una delle prime zone economiche pilota del paese, dove le imprese private potevano stabilirsi e commerciare a livello internazionale, accelerando l’apertura economica della Cina. Quando fu licenziata dalla fabbrica – che le aveva sponsorizzato i documenti di residenza nel Guangdong – Yang non riusciva a sopportare l’idea di tornare a casa. Uno dei dirigenti della fabbrica, un uomo che lei ancora oggi chiama il suo angelo custode, intervenne e le procurò un altro lavoro, presso l’ufficio del procuratore della contea, come segretaria. Il lavoro non era ben pagato, ma era una posizione nella Pubblica amministrazione, ambita per i suoi benefici e la sua stabilità. Quel posto le permise di reinventarsi.

Nell’ufficio del procuratore non importava che fosse figlia di operai e che fosse destinata a diventare una di loro

All’interno dell’ufficio del procuratore non importava che fosse figlia di operai e che, solo pochi anni prima, fosse destinata a diventare una di loro; nel Guangdong poteva imparare a diventare una servitrice della legge. All’epoca conosceva poco delle difficoltà che l’attendevano nei decenni successivi, ma anche se le avesse sapute, avrebbe insistito. La sua carriera l’avrebbe messa in prima linea nella lotta per definire un sistema giuridico cinese nascente: per conto di chi lottava, e che tipo di paese quel sistema aspirava a creare. Questo era lo scopo che stava cercando. Yang iniziò la sua carriera in un momento in cui gran parte del sistema economico e politico cinese si stava reinventando, incluso quello legale. La Cina voleva costruire un sistema giuridico più cosmopolita, fondato sullo stato di diritto. I controlli sulle imprese private si stavano allentando e la crescita economica era in pieno boom, dopo trent’anni di domanda repressa. La Cina avrebbe avuto bisogno di tribunali equi e leggi trasparenti per guidare e contenere questo esperimento economico. Inoltre, voleva mostrarsi come un paese moderno, una destinazione sicura per gli investimenti stranieri. Per farlo, serviva un corpo normativo con regole da far rispettare, e funzionari legali come Yang per applicarle.



Il Partito invitò esperti stranieri e assorbì quante più conoscenze possibile. “Una parte considerevole dei nostri successi nella costruzione dello stato di diritto negli ultimi 40 anni è stata ottenuta grazie all’assorbimento di esperienze avanzate straniere”, scrisse Xiao Yang, ex presidente della Corte Suprema cinese. […] La revisione del sistema giuridico cinese fu cruciale per dimostrare che il Paese era pronto ad entrare nell’ordine economico globale. Nel 2001, la Cina ottenne l’ammissione all’Organizzazione mondiale del Commercio – il risultato di una lunga campagna per provare che poteva (e voleva) rispettare le regole internazionali del commercio equo, almeno per un po’. Sfortunatamente, il furto di proprietà intellettuale e la contraffazione erano endemici, in particolare nella provincia del Guangdong, dove migliaia di fabbriche cinesi continuavano a produrre gran parte dei beni di consumo mondiali. L’ufficio della procura dove lavorava Yang riusciva a malapena ad affrontare i casi di violazione di marchi registrati. Invece, il loro focus erano i crimini del sottobosco. Il miracolo economico cinese aveva generato un’esplosione di illegalità. Il crimine aumentava esponenzialmente negli anni Novanta, mentre la popolazione si spostava dai villaggi alle città in espansione. Yang si trovò di fronte a casi raccapriccianti come procuratrice dello Stato. […] In mezzo a tutta questa incertezza e caos, Yang credeva fermamente nel mantenimento dell’ordine sociale attraverso un’applicazione rigorosa della legge, e affrontava il suo lavoro con un fervore da attivista che gli altri burocrati trovavano eccessivo.



Era ansiosa di cominciare, ma i primi incarichi assegnatile all’ufficio del procuratore erano profondamente noiosi: compilare pile di documenti giudiziari e trascrivere verbali. […] Nel 1997, fu promossa a procuratrice assistente, e poco dopo fu delegata all’ufficio provinciale, con responsabilità su reati gravi e crimini violenti. Non era un’oratrice naturale: alla sua prima udienza era così nervosa da non riuscire a tenere fermo il foglio con la sua dichiarazione. Ma amava la soddisfazione di costruire un caso, e imparò ad abbracciare l’adrenalina che dava l’arringa in aula. Il suo lavoro le dava il potere di cambiare – o porre fine – alla vita di qualcuno. Decise che avrebbe presenziato personalmente a ogni esecuzione dei condannati nei casi che seguiva. Dopo circa cinque anni nel ruolo, Yang mandò il suo primo imputato nel braccio della morte. Le era stato affidato il caso di un uomo che aveva accoltellato a morte un altro con un coltello da frutta. Lei lo incoraggiò a pentirsi per il crimine commesso e a cercare redenzione. […] Le politiche di apertura e riforma che avevano cambiato la vita di Yang stavano modificando anche i ritmi di vita dei residenti rurali, che ora potevano vivere e lavorare in luoghi diversi da quelli registrati sul loro hukou (registrazione del nucleo familiare). Negli anni Novanta, circa 90 milioni di lavoratori migranti ogni anno lasciavano le campagne e le piccole città per trasferirsi nei grandi centri urbani come Pechino, Shanghai o Guangzhou, spostandosi dentro e fuori le città in base a dove trovavano lavoro. Molti di loro sopportavano condizioni di lavoro dure e lunghi periodi lontani da famiglia e amici. Eppure furono proprio loro a contribuire alla crescita economica sfrenata della Cina. Ma il loro afflusso improvviso in poche città metteva sotto pressione i sistemi di welfare locali.



Una di questi lavoratori migranti, una donna di nome Zhou Moying, avrebbe messo alla prova la capacità di Yang di provare compassione e perdono. Zhou lavorava a Guangzhou, lontana dalla sua città d’origine. La vita era dura. Lei e suo marito guadagnavano a malapena abbastanza per sfamare la loro famiglia di cinque persone, tra cui una figlia di otto mesi molto malata. Zhou faticava a convincere il marito – spesso assente – ad assumersi le responsabilità familiari. Una mattina afosa di luglio del 2005, si alzò, diede da mangiare alla bambina un po’ di pappa di riso, ma la piccola non smetteva di piangere. Il marito non si mosse nemmeno. Sentendosi completamente abbandonata, Zhou si diresse impulsivamente verso il fiume che scorreva vicino casa e vi mise dentro la sua bambina. Aveva intenzione di buttarsi anche lei, ma il pensiero degli altri due figli più grandi la fece desistere. Poi si costituì spontaneamente, confessando di aver annegato la figlia. Yang fu incaricata di perseguire Zhou. Si preparò ad affrontare una madre tanto crudele da uccidere la propria figlia, ma la donna sconfitta che si trovò davanti nel centro di detenzione di Guangzhou non era affatto il mostro che si era immaginata. Zhou era così sconvolta da riuscire a malapena a parlare al loro primo incontro. Tra i singhiozzi, implorava Yang di condannarla a morte: aveva fallito come madre, aveva fallito nel togliersi la vita, e ora chiedeva a Yang di completare il lavoro.



Yang ricordò l’uomo che aveva condannato a morte, e quanto fosse stato inutile l’odio che aveva provato per lui. Scrisse più tardi che non avrebbe mai potuto capire pienamente il crimine di Zhou, ma riusciva a comprendere le forze sistemiche di povertà che lo avevano generato. Decise di gestire quel caso in modo diverso. “Non dobbiamo dimenticare le persone come lei, che lottano in fondo alla società”, disse in un’intervista dell’epoca. “Questa è la coscienza che la legge dovrebbe avere”. Il suo ufficio era pronto a perseguire Zhou Moying per omicidio. La pena prevista? Morte. Ma Yang fece qualcosa di inaudito per una procuratrice: cominciò a difendere l’imputata. Fece leva su una clausola poco usata del codice penale cinese: le “circostanze attenuanti” dovute a povertà estrema e abbandono. Zhou era una madre disperata, sopraffatta da un marito assente e un figlio morente. Yang argomentò che non si trattava di un crimine premeditato, ma di un atto dettato dalla disperazione. Scrisse una lunga relazione in cui spiegava che Zhou non era un pericolo per la società e meritava una seconda possibilità. All’inizio, i suoi superiori reagirono con ostilità. “Sei impazzita?”, le chiesero. “Stai parlando come un avvocato difensore!”. In Cina, i pubblici ministeri sono considerati rappresentanti diretti dello Stato e del Partito comunista. Difendere un imputato – per di più in un caso emotivamente carico – era percepito come tradimento della missione istituzionale. Ma Yang non si arrese. Fece appello alla stampa. Contattò giornalisti locali e nazionali, raccontando la storia di Zhou e la sua miseria. Riuscì a trasformare il caso in un evento mediatico, portando l’opinione pubblica dalla parte della madre. Le persone iniziarono a vedere Zhou come una vittima del sistema, non solo una criminale.



Il suo gesto fu rischioso. Lo Stato cinese è spesso allergico a ciò che percepisce come sentimentalismo giudiziario. Ma in quel caso, il tribunale accolse la richiesta di Yang. Zhou Moying fu condannata a tre anni, con la pena sospesa. Di fatto, fu rilasciata. La decisione fu accolta con sollievo da Yang. Ma fu anche l’inizio di un cambiamento profondo. “Da quel momento, non sono mai più riuscita a vedere un caso in termini puramente giuridici”, scrisse. “Vedevo esseri umani, non articoli di codice”. Yang cominciò a mettere in discussione tutto: la severità del sistema, il ruolo del pubblico ministero, e infine anche se fosse possibile riformare la giustizia dall’interno. Fu questo il seme che la portò a fare il passo più radicale della sua carriera.

Nel 2006, Yang fece qualcosa che pochi funzionari legali in Cina avevano mai osato fare: lasciò il sistema

Nel 2006, Yang fece qualcosa che pochi funzionari legali in Cina avevano mai osato fare: lasciò il sistema. Si dimise dal suo incarico nella procura e annunciò che sarebbe diventata avvocata difensore. Non solo: avrebbe preso in carico proprio i casi più scomodi e politicizzati – quelli che nessuno voleva toccare. Amici e colleghi cercarono di farla desistere. “Hai una carriera brillante davanti a te”, le dissero. “Hai una posizione sicura, uno stipendio, rispetto”. Ma Yang aveva già deciso. Aveva visto troppo. Aveva vissuto da vicino gli effetti disumanizzanti di un sistema legale che premia l’obbedienza e punisce la coscienza. La sua nuova carriera la portò immediatamente in rotta di collisione con lo Stato. Difese giornalisti accusati di aver “diffuso voci”, attivisti per i diritti civili, persone che avevano protestato contro l’espropriazione forzata di terre. Lavorava spesso gratis, dormendo su divani, mangiando nei mercati notturni, correndo da un tribunale all’altro con le sue carte infilate in borse di tela. Il suo nome divenne un riferimento nel nascente movimento degli avvocati per i diritti civili in Cina. Ma questo le costò molto. I suoi contatti furono messi sotto sorveglianza. La polizia la convocava regolarmente per “colloqui”. In almeno un’occasione, fu trattenuta per ore e interrogata senza accesso a un avvocato. Eppure non si fermò. “Il mio obiettivo non è vincere i casi”, disse una volta. “Il mio obiettivo è dimostrare che esiste un altro modo di servire la legge: quello della giustizia”. Nel 2011, fu protagonista in uno dei casi più noti di quel decennio: la difesa di un contadino che aveva denunciato un funzionario locale per avergli confiscato illegalmente la terra. Non solo il tribunale rifiutò di accogliere la denuncia, ma incriminò il contadino per “istigazione al sovvertimento del potere statale”. Yang costruì una difesa accorata, riuscendo a ridurre la condanna da dieci a tre anni. Era, in Cina, una vittoria. Nel tempo, diventò simbolo di un’altra Cina possibile – quella in cui la legge non è uno strumento di controllo, ma uno spazio di negoziazione tra potere e coscienza. Eppure, sapeva che i suoi giorni da libera professionista erano contati. Con l’ascesa di Xi Jinping, il Partito stava stringendo la presa su tutto, inclusa la giustizia. Molti dei suoi colleghi furono arrestati o sparirono. Gli studi legali che trattavano casi “sensibili” venivano chiusi. Il margine di manovra si stava chiudendo. Yang cominciò a pensare seriamente di lasciare il paese. “Ma non so se saprei chi sono, fuori dalla Cina”, disse una volta. “Forse la mia missione è resistere finché posso”.

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