Nel romanzo Sabbie mobili di Veronica Raimo, un bambino racconta con sguardo incantato e disarmante l’amore per una madre stramba e fragile. Un’interpretazione particolare del comandamento “Onora il padre e la madre”
La madre di questo romanzo si alza dal letto solo per il gusto di ficcarsi di nuovo sotto le coperte. Suo figlio di nove anni (la voce narrante è quella di un bambino) la capisce benissimo, anzi è un tratto che li accomuna: “anche a me – tanto per dirne una – piaceva aprire un barattolo solo perché poi potevo richiuderlo. O accendere la luce per poi poterla spegnere. Mettermi le scarpe e togliermele. Passavamo così il tempo, a fare una cosa per poi fare il contrario. Aprire, chiudere, accendere, spegnere, alzarsi, sdraiarsi, dormire, svegliarsi”. “Sabbie mobili” è un romanzo della collana “Dieci comandamenti” edita da Rizzoli, in cui dieci scrittrici italiane interpretano ciascuna un comandamento. Veronica Raimo prende spunto dal quarto: “Onora il padre e la madre”. Solo che in questa storia il padre non c’è. Dice il protagonista che non saprebbe neanche giocare a fare l’uomo, perché non saprebbe chi imitare: chi erano d’altronde gli uomini se non quelli che come suo padre sparivano da un giorno all’altro, che non erano mai esistiti? Eppure, di questo padre – se qualcuno dovesse chiederlo – bisogna dire che era bellissimo.
Il padre non c’è: ma c’è una madre che guarda imbambolata lo schermo nero della tv, che esce soltanto sotto la pioggia; che invece di lavare i vestiti li mette in frigorifero in modo che ne escano belli freschi; che agli umani preferisce gli insetti, i ragni, le blatte, gli scorpioni da cui è abitata la loro casa; una madre che non manda il figlio a scuola fin quando si presentano alla porta “due signorine gentili”. Poi c’è un figlio che non piange mai, neanche quando in classe lo prendono in giro. Ma soprattutto c’è il suo sguardo incantato –là dove per incanto si intende la sua restituzione mai pregiudiziale, mai manipolativa della realtà. Per lui che ha nove anni le cose sono quelle che accadono, punto e basta; niente pathos, nessuna sbavatura. E questo crea straniamento per noi che leggiamo: noi esseri iperpensanti, nevrotici nell’elargire esegesi. E’ il cortocircuito dell’ironia di Veronica Raimo, come in Niente di vero e come in alcuni racconti. Anche se qui quell’incanto è più realistico che mai, giacché il protagonista è un bambino, o meglio il suo candore – l’assenza di autocommiserazione e la sospensione di qualsiasi giudizio.
Quando finalmente, per una volta, il ragazzino esce con la madre per andare al ristorante (dove non avranno i soldi per pagare il conto), sono gli altri a guardarla mentre cammina, gli altri che colgono la sua inquietudine luccicante: le donne, gli uomini, i bambini e anche i cani, tutti lì a sbarrare gli occhi in modo strano. Gli altri la guardano e forse il figlio per un attimo la vede davvero mentre mangia il pesce con tutte le spine, triturandole sotto i denti. Ma poi questa madre non ce la farà più. Forse il destino del figlio è proprio rimanere da solo come certi eroi dickensiani o come Pippi Calzelunghe, per fare di tutta la sua stramberia la regola quotidiana, l’eredità pulsante della propria madre. Di nuovo, nessun vero timore, nessun vero giudizio, anche se quell’incanto esibito risuona come un’accusa implicita. I comandamenti su cui si fonda un’intera etica implicano un giudizio costante sulle nostre vite. Ma mai – almeno qui – quello del figlio che onora il padre e la madre, il figlio che con il suo candore pervasivo accetta tutto quello che accade. La narrazione, nella sua tensione surreale e nelle sue sabbie mobili, svela l’ipocrisia delle “leggi” e nasconde una domanda – giustappunto – legittima: ma quindi, chi onora i figli? Chi onora l’infanzia? Chi si prende cura della nostra innocenza? Forse solo la letteratura.