La Masters da Chernobyl a Milano Cortina, con il sogno di tornare in Ucraina : “Lo sport mi ha insegnato ad amare il mio corpo”
Pioveva a dirotto quella sera. In radio partì una canzone di Aretha Franklyn dal testo “A rose is still and will always be a rose”. Una rosa è e sarà sempre una rosa. Non importa in che stato si trovi, rossa e rigogliosa o secca e senza petali, sarà sempre un fiore. “Le parole mi colpirono così intensamente che mi dovetti fermare”. La mente di Oksana torna alle cicatrici. Non quelle dovute all’amputazione o alle varie operazioni, ma a quelle dell’orfanotrofio in Ucraina. In particolare una, nel basso ventre. “Ho un ricordo così vivido di quella notte. Quando sentii la canzone decisi di tatuarmela proprio sulla cicatrice che mi fece quell’uomo, insieme a una rosa rossa colorata che sfuma in una bianca e nera”. Un modo per “ricomporre quel puzzle che era stato scomposto quando la piccola Oksana non aveva la voce o la possibilità di reagire. Volevo riappropriarmi della mia storia”. E la sua storia è che, con 19 medaglie tra quattro sport diversi in sette Paralimpiadi consecutive fra estive e invernali, Oksana Masters è una delle atlete più impattanti del mondo e la statunitense più medagliata nella storia delle Paralimpiadi invernali.
Oksana nasce a Khmelnytskyi, Ucraina, nel 1989, tre anni dopo il disastro nucleare di Chernobyl. È proprio a causa dell’esposizione alle radiazioni della mamma, che la piccola sviluppa delle malattie congenite ancora prima di venire al mondo. Sei dita nei piedi, mani con dita palmate e senza pollice, gambe senza tibia, quella sinistra più corta dell’altra e con ginocchio senza forma. I genitori optano per l’orfanotrofio, un posto che avrebbe dovuto curarla meglio e che invece si trasformò in un incubo. “Soffrivamo la fame. Una notte uscii dalla stanza con la mia migliore amica Laney per cercare un pezzo di pane. Inciampai e feci rumore”. Si nascosero, ma trovarono Laney. “La picchiarono e morì. Non me lo perdonerò mai”, racconta con gli occhi lucidi. E poi quella stanza sopraelevata dove le bimbe venivano abusate, “ogni notte da quando avevo 5 anni”. Provò a lottare un giorno, ma l’uomo “afferrò un coltello e mi tagliò sotto l’ombelico”. Così, fino all’età di 7 anni, quando Gay Masters, una donna single di Buffalo, vide una sua foto e decise di adottarla.
Arriva negli Stati Uniti con quelle ferite, visibili o impresse nei ricordi. Le amputano le gambe, migliorandole la vita. E offrendole l’opportunità di svolgere a pieno ciò che l’ha tenuta a galla nei momenti più bui: “Lo sport è la mia aria. Mamma mi ha salvato la vita due volte: la prima portandomi via dall’orfanotrofio, la seconda introducendomi allo sport. Alla fine, è questo che mi ha davvero salvato la vita per la terza volta, dandomi uno scopo e un senso di appartenenza”. Inizia con la canoa. “L’acqua diventa la mia terapia. Era il mio sfogo, sia quando ero un’adolescente arrabbiata, che quando i ricordi riaffioravano. Era il mio modo di urlare senza doverlo fare fisicamente contro un cuscino”. Per la prima volta si sente libera di avere il controllo su sé stessa. “Amavo la sensazione di fatica perché significava che il mio corpo era potente, nonostante tutto. Da piccola nascondevo le gambe. Lo sport mi ha aiutato ad amare il mio corpo e capire che si può essere forti e belle a prescindere da certi canoni che si vedono in giro”. È anche per questo che nel 2012 posa nuda per la rivista di ESPN, “un modo per mostrare e condividere chi sono, ma anche per far sì che la prossima Oksana possa avere qualcuno che le somigli a cui far riferimento”.
Il sorriso stampato sulla faccia quando ripensa all’emozione di vedere la sua bandiera, quella statunitense, salire in alto. “È un orgoglio immenso per me. L’inno americano ha un suono ancora più bello quando si è sul podio”. La prima Paralimpiade a Londra 2012 dove arriva un bronzo nel canottaggio misto. Inizia a provare anche gli sport invernali, in particolare lo sci nordico “perché è uno dei più faticosi”. Sono nove le medaglie che conquista sulla neve. A cui se ne aggiungono altre cinque nel biathlon. Parallelamente inizia anche il ciclismo, dove vince quattro ori. “Amo il suono del conto alla rovescia sulla linea di partenza. Lo stesso sia per il ciclismo che lo sci. Fino a cinque secondi è solo un puntino rosso e poi inizia quel beep beep beep beep boop. Non c’è niente di più bello”. Pensa già alla prossima sfida: “Sto considerando un quinto sport per Los Angeles 2028. Voglio alzare l’asticella, puntare alla luna e vedere dove posso arrivare. Vorrei concludere il mio percorso da atleta con i Giochi di casa”. Prima però ci sono quelli italiani. “Milano Cortina è tra pochissimo. Ho un po’ di ansia perché ho saltato un’intera stagione di allenamenti per motivi di salute, ma non vedo l’ora di tornare a gareggiare sulla neve”. Italia che potrebbe anche essere lo sfondo di nuovi ricordi, non solo sportivi, con il fidanzato Aaron “stiamo anche pensando a un matrimonio piccolo e intimo nel vostro Paese, subito dopo i Giochi”.
Delle sette Paralimpiadi, ce n’è una che ricorda con più emozione. “Uno dei miei momenti preferiti risale ai Giochi Invernali di Sochi 2014. Arrivai seconda, la ragazza che vinse era ucraina. Vidi entrambe le mie bandiere venire issate insieme. Ha significato tantissimo per me”. Perché la testa va spesso lì. Soprattutto in questi anni. “Il mio sogno è tornare in Ucraina. Vorrei far parte del processo di ricostruzione del paese. Nel mio piccolo aiutare tutti coloro che hanno ora delle disabilità a causa della guerra. Ricordare che la loro vita non è finita, anzi”. Il pensiero, infine, a chi “mi aiuta nelle curve più difficili, sportive e non, come un vento fresco”, il “perché” di tutto quello che fa: Laney.