La tragedia di Gaza e i messaggi pericolosi dei finti pacifisti

Le parole da combattere per evitare che manifestare in solidarietà con il popolo palestinese diventi un assist per chi soffia forte sul fuoco del nuovo antisemitismo

Il tema è enorme e insieme scivoloso: qual è il giusto equilibrio per non mostrare indifferenza di fronte alla tragedia di Gaza senza prestare il fianco a chi soffia forte sul fuoco letale dell’antisemitismo mondiale e della nuova Intifada globale? Iannis Roder è un famoso storico francese, è direttore dell’Osservatorio dell’educazione presso la Fondation Jean-Jaurès, un think tank progressista, è responsabile della formazione presso il Mémorial de la Shoah, dove si occupa di programmi educativi sulla memoria dell’Olocausto, è membro della Commissione Bronner, istituita dal presidente Emmanuel Macron per contrastare la disinformazione e l’odio online, e pochi giorni fa ha sviluppato un ragionamento prezioso, sul Point, per affrontare in modo non convenzionale un tema che potrebbe tornare utile oggi durante le manifestazioni organizzate in Italia in solidarietà con il popolo di Gaza. Roder, da grande studioso dell’Olocausto, si chiede la ragione per cui chi, giustamente, solidarizza con i cittadini innocenti di Gaza, abbia scelto negli ultimi mesi di concentrarsi con così tanta forza e passione sul tema del genocidio, per condannare Israele, e sulla volontà cioè di fare un passo in più rispetto agli argomenti affrontati dalla Corte penale internazionale, che come è noto, lo scorso 20 maggio, ha emesso due mandati di arresto contro Yoav Gallant, l’ex ministro della Difesa israeliano, e Benjamin Netanyahu, l’attuale primo ministro, con l’accusa di “crimini di guerra” e “crimini contro l’umanità”. Bronner dice che neppure l’ideologica Corte penale internazionale è arrivata a parlare di crimini di genocidio, e non lo ha fatto neppure la Corte internazionale di giustizia adita nel dicembre del 2023 in Sudafrica. Nonostante questo, la campagna mediatica umanitaria a favore di Gaza ha scelto di concentrarsi su quel punto, sull’utilizzo di quel termine preciso, piuttosto che su un altro.

Lo storico francese non si addentra in complicate disquisizioni su cosa costituisca un genocidio e cosa no (a Gaza, ripete da tempo anche la grande Liliana Segre, si può parlare di crimini di guerra o contro l’umanità, ma “non ricorre nessuno dei caratteri tipici dei principali genocidi”) ma sceglie di concentrarsi su un tema culturale che dovrebbe far riflettere anche chi in buona fede oggi sceglierà di scendere in piazza per Gaza. La ragione, dice Roder, per cui si vuole assolutamente che il dramma che si sta verificando a Gaza sia il risultato di un genocidio in corso è legata alla volontà di creare un parallelismo tra ciò che subirono gli ebrei durante l’Olocausto e ciò che stanno subendo oggi i civili che abitano a Gaza. E in questo gioco di specchi perverso, trasformare la tragedia di Gaza in un genocidio permette di trasformare l’esercito israeliano in un esercito che si comporta non come l’Armata rossa in Germania nel 1945, non come l’esercito francese in Algeria, ma che si comporta esattamente come i nazisti.

La trasformazione di Gaza in un nuovo Olocausto ha dunque l’effetto di superare la stagione del senso di colpa nei confronti degli ebrei. E questa liberazione dal peso del crimine, evidentemente inconscia, può essere accompagnata, in alcuni, da un impulso più malsano, quello di poter tornare a parlare male degli ebrei senza neppure avere – o dare – l’impressione di essere antisemiti.

Se l’Olocausto è superato da un Olocausto considerato non meno grave di quello legato alla Shoah e se Israele può essere vilipeso e accusato di uccidere i “nuovi ebrei”, proprio come l’antico Israele fu accusato di aver ucciso Gesù, si può tornare a essere antisemiti senza considerare più l’antisemitismo come un male assoluto da combattere e trovando anzi una via elegante per provare a rendere presentabile il nuovo antisemitismo. Non sono antisemita, non odio gli ebrei, sono solo antisionista, cosa diavolo vuoi da me? In questo senso, chi usa alcune parole precise per creare simmetrie lineari fra la tragedia di Gaza e l’Olocausto non sta giocando con il fuoco: sa esattamente quello che sta facendo.

Sta creando parallelismi irricevibili per provare a eliminare gli anticorpi che hanno tentato di curare un male che non c’entra con Gaza: considerare non più un tabù l’idea di poter trasformare un ebreo colpevole di essere un ebreo (“La sinistra dovrebbe sapere, meglio della destra, cosa significhi ridurre di nuovo ogni ebreo al gruppo a cui appartiene, cancellarlo in quanto individuo”: Edith Bruck, 26 gennaio 2024). E da questo punto di vista, continua ancora lo storico francese, sappiamo che nazificare Israele accusandolo di genocidio significa fare un passo in avanti per delegittimarlo, significa fare un passo per dare un contributo utile alla sua scomparsa, un giorno, “dal fiume al mare”.

Il ragionamento è interessante, e centrato, perché offre un qualche elemento ulteriore rispetto a chi, quando prova ad affrontare la tragedia di Gaza, ricorda ciò che andrebbe sempre ricordato quando si parla di guerra in medio oriente. Ovvero che non si può parlare di quello che sta facendo Israele, anche con le sue atrocità, senza parlare anche di quello che abbiamo permesso di fare a Hamas, senza parlare del fatto che se Hamas non avesse deciso di utilizzare ospedali, scuole o altri edifici civili per ospitare i suoi posti di comando la guerra a Gaza avrebbe avuto una storia diversa, senza ricordare che se Hamas non avesse trasformato una popolazione intera in uno scudo umano per difendere se stessa la tragedia di Gaza sarebbe stata diversa da quella che si presenta oggi di fronte ai nostri occhi, senza ricordare che, in definitiva, se Hamas, come Putin, scegliesse di smettere di combattere la guerra che ha iniziato, restituendo gli ostaggi, disarmando se stessa e trasformandosi in un partito politico – vasto programma – la guerra finirebbe in un istante. Gli amici di Israele, lo sappiamo, devono imparare a non chiudere gli occhi di fronte alla tragedia di Gaza.

I nemici di Israele, dell’Israele di oggi, devono imparare però a capire che trovare il giusto equilibrio per non mostrare indifferenza di fronte alla tragedia di Gaza, senza prestare il fianco a chi soffia forte sul fuoco letale dell’antisemitismo mondiale e della nuova Intifada globale, non è un esercizio di benaltrismo. Ma è uno sforzo necessario per non legittimare una nuova forma di orrore globale che sta trasformando l’antisemitismo in una forma di legittima resistenza, considerata accettabile per combattere in tutte le forme il “nazismo” di Israele e che sta cupamente risvegliando l’antico desiderio di eliminare il popolo ebraico. Molti critici di Israele, giustamente, sostengono che dovrebbe essere possibile esprimere critiche a Israele senza essere accusati di antisemitismo. E per capire anche qui come muoversi, su questo filo sottile, ha offerto elementi di riflessione Gideon Moshe Sa’ar, ministro degli Esteri di Israele, che ha fatto riferimento al modello delle “Tre D” di Natan Sharansky per identificare un dibattito tipico che volge verso il piano inclinato dell’antisemitismo: demonizzazione, delegittimazione e doppi standard.

Le “Tre D” di Sharansky possono tornare utili oggi anche quando si manifesterà per la libertà del popolo palestinese e quando varrà la pena ricordare, assieme alla denuncia delle atrocità che sta subendo Gaza, che difendere Gaza senza combattere l’antisemitismo significa voler dare il proprio contributo alla creazione di un’equivalenza morale pericolosa in base alla quale non è Israele che combatte una guerra tragica contro Hamas ma sono gli ebrei che hanno deciso di essere complici di un genocidio diventando le nuove SS. E, dice ancora Roder, quando si trasformano gli ebrei in nuovi bersagli ribaltando la storia, trasformandoli in nazisti, viene naturale chiudere un occhio rispetto all’azione dei terroristi: se ogni ebreo è potenzialmente complice di un genocidio, la resistenza contro gli ebrei non viene forse giustificata ma viene in fondo capita. Il punto dunque non è non manifestare per Gaza. Il punto è trovare un modo per non trasformare un sentimento pacifista nella nuova chiave per legittimare una nuova tragedia, trasformando l’antisemitismo in una forma di resistenza eroica. Essere ebrei, disse Albert Einstein nel 1946, ci ha insegnato che l’odio può diventare legge, e che il silenzio può diventare complicità.

  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

Leave a comment

Your email address will not be published.