Lo scrittore colombiano ha da poco pubblicato un memoir con la storia di quanto accaduto a Kramatorsk, dove la poetessa, scrittrice e reporter di guerra è stata uccisa da un raid russo. L’intreccio misterioso tra vita e destino, sotto i missili russi
Il 27 giugno 2023, alle 19.28, lo scrittore colombiano Héctor Abad Faciolince è in una pizzeria di Kramatorsk. Quello che succede un istante dopo a lui, ai suoi amici Sergio Jaramillo e Catalina Gómez, a Dima, cioè Dmytro Kovalchuk, il suo fixer in Ucraina, e soprattutto a Victoria Amelina, poetessa, scrittrice, reporter di guerra, è una cosa purtroppo risaputa. Un missile balistico russo Iskander colpisce il ristorante, causando la morte di tredici persone, tra le quali Victoria, e il ferimento di decine di altre. Da allora Amelina è diventata una figura assimilabile a un’icona per molti di noi. Una donna libera e forte, una persona coraggiosa, una martire della libertà che era a pochi chilometri dal fronte perché “raccontare tutti gli orrori passati, commemorare i suoi morti, le permetteva di arrivare con una sorta di chiaroveggenza alla carneficina attuale, che documentava minuziosamente e che lei, mentre la indagava e la narrava, ha infine anche subito”. Le parole sono di Abad, che oggi, a due anni di distanza, ha pubblicato un memoir, “Ahora Y En la Hora”, ora e nell’ora, appena uscito con Alfaguara, in spagnolo. Lo abbiamo letto in attesa che venga tradotto e pubblicato in italiano, come i precedenti libri di Abad, con grande emozione.
Se infatti esiste ancora, nel crollo dell’ordine liberale che ogni giorno davanti ai nostri occhi ci regala nuove catastrofiche immagini, una volontà che esseri umani e organizzazioni politiche siano orientati a un certo arco di valori, e che lo siano a prescindere dalle origini, dalla nazionalità e dalla lingua e dal ceto e dal carattere personale, se insomma esiste ancora una forma di solidarietà tra individui che dia alla pur nobile vocazione umanitaria il colore ben diverso dell’impegno carbonaro, della difesa della democrazia, della lotta in nome delle idee, lo si trova, oggi, in un libro come questo. “Credo nell’evoluzione, non nella rivoluzione”, dice Héctor in una poesia-autoritratto-manifesto. “Ammmiro molto Darwin, Voltaire, Diderot, Hume, e Adam Smith, molto meno Marx; sono liberale. Mi piace l’uguaglianza, ma se devo scegliere, scelgo la libertà. Amo i miei figli sopra ogni cosa. Non credo che ci sia Dio e credo fermamente, voglio dire, confido, che quando morirò sarà per sempre. Chiudo gli occhi per parlare in pubblico, però cieco, quello che si dice cieco, non vorrei esserlo. Mia madre è la mia figura paterna, quindi non rompetemi con le vostre tesi sui complessi e su Edipo. Anche se non l’ho ucciso, porto la colpa che abbiano ucciso mio padre. Grazie a lui ho la testa fra le nuvole e grazie a lei i piedi per terra. Ho amato e amo, senza esagerare, perché esagera sempre il verbo amare. I miei pochi amici sono i fratelli che non ho avuto. Mi piace condurre una vita ordinata. Bevo poco, non faccio le ore piccole e ho fumato marijuana, senza che mi piacesse, tredici volte nella vita. Non fumerò più. Sono sedentario, ma viaggio molto per sentirmi straniero quando parto e soprattutto quando torno…”.
Abad aveva conosciuto Victoria quattro giorni prima soltanto, al Book Arsenal, la fiera del libro di Kyiv. Il racconto del suo tempo con lei è tanto intenso perché condensato in un breve viaggio, a bordo di un van che trasporta lui, borghese sessantaquattrenne tranquillo, ben oltre la Kyiv dove intendeva fermarsi per fare poi veloce ritorno in Spagna, e di lì nella sua Colombia. Abad era nella capitale per presentare il suo libro del 2006 “L’oblio che saremo”, tradotto in ucraino proprio nei mesi in cui era cominciata l’invasione su vasta scala (prima coincidenza, la prima di molte). Il libro è uscito anni fa in Italia con Einaudi, anche se un po’ dimenticato in Italia è il magnifico ritratto del padre di Héctor, ucciso dalla malavita di Medellín, sua città, per l’impegno a favore dei diritti umani. Ma lo scrittore colombiano era all’Arsenal soprattutto per parlare del movimento “¡Aguanta, Ucrania!” (“Resisti, Ucraina!”), fondato dall’amico Sergio e di cui Héctor fa parte con ferma convinzione, la stessa che lo porta (storia familiare a noi italiani…) in rotta di collisione con qualche collega intellettuale sudamericano rossobruno, che giustifica l’invasione o minimizza i torti della Russia. Ed è su un palco dell’Arsenal che Héctor (seconda coincidenza) conosce Amelina. “Difendere la sua casa, l’Ucraina, significa anche difendere le fondamenta della nostra: l’Europa, la Spagna, la Colombia”.
La struttura del racconto di Héctor richiama la classica forma delle vite parallele: è la storia di uno specchiarsi, di un confronto tra due individui che fanno mestieri affini, appena conosciutisi e dunque curiosi, interrogativi. A volte pudichi. “Entrambi sapevamo chiaramente che io non avevo letto nessuno dei suoi libri, né le sue poesie né i suoi saggi, e che lei non aveva letto nulla di mio. Quando uno scrittore non ha letto l’altro, la conversazione diventa difficile ed è frequente che tra i due si instauri una sorta di timidezza tinta di colpa. Andiamo alla cieca, noi scrittori, se non ci siamo letti. In fin dei conti, non siamo quasi nulla, o, meglio detto, siamo quasi soltanto ciò che abbiamo scritto”. E’ possente il racconto che Héctor cita della “conversione” di Amelina, di come da ragazza lei fosse stata “educata per essere russa”, in un sistema di propaganda culturale travestito da scuola: a Mosca da quindicenne, invitata durante un viaggio-studio a parlare al tg della sera dal canale Ort, interpellata sulla presunta repressione della lingua russa nella sua Lviv, Victoria sbotta (in russo) davanti alla giornalista moscovita: “Dopo la nostra complessa storia, sarebbe naturale che gli ucraini a volte reagissero contro la lingua russa. Tuttavia, non avverto alcuna oppressione. Forse le sue informazioni sono un po’ obsolete. Io sono giovane, e questo problema non esiste nella generazione più recente”. Amen. Immaginiamo la faccia della giornalista in quel 2001.
Di Victoria leggiamo man mano nelle pagine successive. “Portava con sé una pistola”, ricorda Héctor, “ma con la stessa discrezione con cui parlava, con cui scriveva poesie ridotte a frammenti. Era mite e combattente, compassionevole e armata”. Accade subito qualcosa di strano e misterioso: l’oggetto della narrazione, pur ritratto con molte commoventi intuizioni da Abad che è sempre lì sul crinale tra prosa e poesia, ci sfugge, arretra, man mano che lui cerca di agguantarla, di scoprire Victoria, di capirla. L’immagine centrale del libro, ripresa in copertina, è quella dell’animale che per eccellenza rappresenta il contrasto tra bellezza e riserbo, tra magnificenza e discrezione: il cigno. “Era più bianca di quanto lo siano di solito le ucraine, il che è tutto dire, e quasi tanto tenue e delicata quanto l’aria. Trasparente, era questo, trasparente come un fantasma. A volte l’unica cosa che si riusciva a vedere di lei, al calar della notte, era la sua folta chioma bionda e ribelle, mossa dalla brezza, anch’essa invisibile, dell’estate. Alexandra, mia moglie (che aveva osservato attentamente diverse sue foto mentre io scrivevo su Victoria), una sera mi disse di guardarla bene, che sembrava un uccello dal collo molto lungo. ‘Guarda bene, sembra un cigno.’ La osservai con attenzione e avvenne quel miracolo di quando si capisce com’è qualcuno (almeno fisicamente) per la prima volta. Sì. Poiché vestiva sempre di nero e poiché portava una chioma lunghissima color grano che sembrava allungarle ancora di più il collo già lungo di per sé, poiché si muoveva in silenzio e con tale discrezione che non sembrava camminare bensì piuttosto scivolare su un lago calmo, o lasciarsi trasportare dalla impercettibile corrente di un fiume lento, Victoria poteva essere un cigno bianchissimo vestito di nero, o a volte un cigno nero e a volte uno bianco”.
A questo cigno Héctor dà una sua caccia tutta speciale – o è un corteggiamento, una danza di avvicinamento? – per capire di più di lei e dei suoi misteri. Mentre aspettano di leggersi reciprocamente, sul furgoncino che viaggia verso il Donbas in cui sfida la propria codardia avvicinandosi, non del tutto consapevolmente, ai pericoli del fronte, Abad parla con Amelina di letteratura. Héctor le dice subito di Vasilij Grossman, l’autore dello straordinario “Vita e destino” è per lui un nume tutelare. Lei non risponde. Lei gli parla del poeta nazionale ucraino per eccellenza, Taras Shevchenko, e lui ammette che non ha letto ancora i suoi versi. Lui allora le cita due delle più grandi scrittrici latinoamericane, Clarice Lispector e Alejandra Pizarnik, entrambe di origini ucraine, che lei non conosce. Va molto meglio con Joseph Conrad, figlio della minoranza polacca di una città in cui per l’80 per cento gli abitanti erano ebrei o ucraini, Berdyciv, “che condivideva con molti ucraini una profonda diffidenza verso i governi russi, fossero essi zaristi o bolscevichi, e che si sentì sempre in colpa per essersi esiliato in Gran Bretagna e nella lingua inglese, invece di affrontare i russi, come fece suo padre, il poeta polacco Apollo Korzeniowski”. Victoria annuisce e si dichiara anche lei entusiasta di Conrad. Il contatto è stabilito.
La vettura con Héctor, Victoria, Sergio e gli altri scivola nei paesaggi nel Donbas. Vanno a Kapytolivka, un villaggio vicino a Izium, in visita alla casa del poeta e autore di libri per bambini Volodymyr Vakulenko, rapito, picchiato e infine ucciso dai russi durante l’occupazione; nel piccolo orto sul retro Victoria indica il ciliegio dove dissotterrò i diari di Vakulenko, protetti da una plastica, lì seppelliti nella consapevolezza della propria sorte. Abad ci racconta tutto da occidentale pavido come molti di noi, per nulla votato all’eroismo, dichiarando le proprie paure, dicendo qualche mezza verità al telefono alla sua famiglia per non angosciare anche loro. D’altra parte, è lo stesso Abad che qualche anno prima, dentro la fusoliera gelida di un aereo militare diretto a Oslo, con Sergio Jaramillo aveva recitato un po’ scherzando e un po’ intimidito dalle turbolenze, l’Ave Maria. Era stato il primo vero contatto tra loro, eppure è un contatto con l’istante eterno: quello della morte, che incombe. Il titolo nasce come battuta, ma l’“ora” della morte arriverà davvero, pochi anni dopo, alle 19:28, nel ristorante di Kramatorsk.
“A Kyiv ci sono andato per impulso, perché non andare mi sarebbe sembrato vergognoso, a Kramatorsk per mancanza di carattere. Di questo mi posso accusare, d’essere insensato e privo di carattere. Ed è forse per questo stesso motivo che scrivo, per insensatezza e mancanza di carattere. Per impulso. E perché non so cos’altro fare con ciò che vivo, se non scriverlo. Mi è sempre successo lo stesso: impazzisco se non racconto ciò che vivo”. Man mano si rivela quello che forse è il filo di questo memoir appassionante e tragico, allucinato e lucido: l’Abad laico e razionalista, l’Abad educato allo scetticismo e al relativismo come tutti noi in questo angolo di mondo e di storia, deve piegarsi alla catena incredibile delle coincidenze, a una specie di fato che governa le ultime ore di Victoria, che in Donbas va per raccontare ai colombiani gli orrori della guerra e per salutare un amico, ma che alla terrazza di quel ristorante, alle 19.28, quando il regime di Putin scarica tutta la propria violenza, ha appena scambiato il proprio posto al tavolo proprio con lui. Con Héctor. Sì, Abad si era seduto alla sinistra di Sergio, che però parla veloce, quasi borbottando, e siccome l’orecchio destro di Abad è “mezzo sordo, difettoso”, lo scrittore cambia posto e va alla destra di Sergio, per sentirlo con l’orecchio buono. Victoria, allora, occupa il suo posto sul divano, alla sinistra di Sergio. Amelina guarda Abad “con quel suo sorriso tra il profondo e il triste, sempre con un tocco ironico sulle labbra”, solleva il bicchiere di whisky (vietato vicino al fronte), don’t worry, it looks like apple juice, lui le sorride e alza il bicchiere per brindare con lei. In quel momento il mondo esplode sulle loro teste.
“Il mio orecchio difettoso mi ha salvato dalla morte a Kramatorsk. Ma c’è un altro modo di vederla: la mia voglia di ascoltare mi ha salvato dalla morte in Ucraina”. Héctor cerca come può (e spesso soccombe, anche in certe visioni improntate a una cupa disperazione) di affrontare il trauma. Da allora continua a chiedersi, con il Primo Levi de “I sommersi e i salvati”, perché durante una campagna di sterminio alcuni abbiano la strana fortuna di salvarsi mentre altri, forse la maggioranza, l’infausto destino di soccombere. Cosa significhi la vita e il destino, “non ci sono innocenti tra i vivi, tutti sono colpevoli”, come scriveva Grossman raccontando l’Holodomor, lo sterminio per fame degli ucraini, in “Tutto scorre”. Chiosa Abad, “io sono un esperto in oblii, e potrei dimenticare anche questo orrore vissuto. Quello che scrivo è, invece, un omaggio agli ucraini che hanno perso la vita lottando per essere liberi e per essere sé stessi, senza che una potenza imperiale dica loro come debbano essere e a quale tradizione storica, religiosa o politica debbano appartenere. E’ un omaggio a Victoria e a tutti coloro che hanno perso la vita difendendo il proprio diritto a essere liberi e a essere sé stessi”.