Il quesito che scalda di più alla fine è quello sul lavoro. La sinistra non sa di cosa parla, la destra preferisce non parlarne, la Cgil nasconde i numeri. Come le balle sul Jobs Act illuminano i deliri dell’Italia percepita
Terra o Marte? Il referendum si avvicina, lo sapete, mancano pochi giorni, si vota o non si vota il prossimo 8 e 9 giugno, e più passa il tempo e più risulta evidente un fatto difficilmente contestabile: l’unico quesito in grado di scaldare l’opinione pubblica, e la sinistra in particolare, è uno e soltanto uno e si chiama Jobs Act. Dal punto di vista simbolico, per la sinistra desiderosa di assecondare l’agenda Schlein dare un colpo al Jobs Act ha un significato che riguarda più il piano della politica che quello dell’economia. Mobilitare gli elettori per provare a schiaffeggiare il Jobs Act è un modo per riannodare i fili della passione con la Cgil, che l’articolo 18 lo ha sempre difeso, è un modo per dimostrare che quello che un tempo faceva solo il M5s ora lo fa il Pd, con tutto quello che questo può significare, ed è un modo infine per rivendicare il fatto che la sinistra pura, quella non contaminata, quella che si esprime senza tradire la sua storia, per essere coerente con se stessa non può che fare un passo ulteriore per cancellare una delle più importanti stagioni di riformismo vissute dalla sinistra di governo in Italia: l’epoca dell’esecutivo guidato da Matteo Renzi. In questo senso, votare a favore della rimozione di un passaggio del Jobs Act ha un significato più catartico che economico. Per chi in passato è stato renziano e si trova ancora nel Pd, tutto questo significa confessarsi, alzare bandiera bianca, dimostrare, agli occhi di una segretaria che tra non molto tempo andrà a compilare le liste elettorali, di aver capito i propri errori. Per chi in passato non è stato renziano, invece, e si trova ora alla guida del Pd, tutto questo significa ribadire chi comanda davvero e ricordare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che nel nuovo corso democratico il M5s si può superare non perché è stato superato dalla storia ma perché a stato superato a sinistra dallo stesso Pd.
Si potrebbe notare, a questo punto del nostro ragionamento, che in verità, se proprio volessimo essere pignoli, il referendum sul Jobs Act non mira a cancellare il Jobs Act, ma mira a cancellare ciò che resta del contratto a tutele crescenti, già svuotato da una sentenza della Consulta. E si potrebbe ricordare che il referendum in questione non ripristina l’articolo 18 com’era prima, ma riporta alla riforma Monti-Fornero del 2012, che aveva già limitato fortemente il reintegro. E dunque, come ha notato Tommaso Nannicini sul Foglio, paradossalmente, il “sì” toglierebbe tutele introdotte dal Jobs Act, come il reintegro per i lavoratori dei sindacati o licenziati durante la malattia, e rischierebbe di fare danni senza risolvere nulla. Ma il punto, come si diceva, non è questo. Il punto, sul Jobs Act, è tutto politico. E il dato sconvolgente della campagna referendaria non è tanto l’assenza di informazione attorno al referendum, che è una balla colossale come dimostra oggi Luciano Capone, ma semmai è l’assenza assoluta di dibattiti fondati sul merito attorno al Jobs Act. Nessuno riesce a parlare in modo non truffaldino di Jobs Act perché parlare con sincerità di Jobs Act significherebbe dover fare i conti con realtà difficili da ammettere. Per la sinistra, parlare senza fuggire su Marte del dossier lavoro, significherebbe dover ammettere che la flessibilità non ha creato nuovi precari ma ha creato nuovi lavori e che i lavori creati durante la stagione del Jobs Act sono stati più stabili che mai perché quando la politica mostra fiducia verso le imprese le imprese di solito rispondono in modo positivo.
Per la Cgil, a sua volta, parlare senza fuggire su Marte sul dossier lavoro, significherebbe dover ammettere che la propria piattaforma economica ancora una volta si è andata a scontrare con la realtà e l’equazione da tempo suggerita dal sindacato oggi guidato da Landini, per lavorare di più in Italia serve avere contratti più rigidi, serve rendere i licenziamenti più difficili, serve proteggersi dal mercato, è una linea che hanno ancora una volta non ha funzionato, e per la Cigl non parlare dei numeri è l’unico modo per poter fare i conti con la propria coscienza. Per il gran cucuzzaro della sinistra italiana, dunque non solo per il Pd, dover guardare in faccia alla realtà, quando si parla di Jobs Act, significherebbe poi dover ammettere che quando la politica aiuta le imprese a uscire dalla bolla del piccolo uguale bello, quando la politica cioè aiuta l’economia a prosperare e dunque a creare lavoro, qualche risultato arriva, e non sorprende che praticamente nessuno durante le ultime settimane abbia detto una sola parola sul fatto che il detestato Jobs Act abbia dato alle aziende uno stimolo in più per crescere e per superare senza imbarazzi la soglia sopra la quale prima del Jobs Act per le imprese era impossibile stipulare contratti flessibili.
Non si può parlare di realtà, quando si parla di Jobs Act, anche a destra, perché elogiare gli effetti avuti dal Jobs Act costringerebbe molti osservatori conservatori, anti renziani, a dover ammettere che la gauche, quando si muove da sinistra di governo, sa governare, sa produrre riforme utili e sa dare un contributo positivo per proiettare il paese nella contemporaneità. Il risultato di questi doppi, tripli, quadrupli salti carpiati, di questi imbarazzi infiniti generati dal Jobs Act, hanno contribuito a creare la situazione a cui stiamo assistendo. La sinistra, per rinnegare se stessa, sceglie di schierarsi contro una riforma, il Jobs Act, che ha funzionato. La destra, per non rinnegare se stessa, sceglie di non dire una parola nel merito su una riforma che non ha mai voluto e che ha avuto il merito di cambiare in meglio l’Italia. E nessuno, praticamente, che ricordi i dati minimi da appuntarsi quando si parla di Jobs Act.
Negli ultimi tre anni, secondo l’Istat, l’Italia ha registrato un aumento significativo dell’occupazione: a febbraio 2025, il tasso di disoccupazione è sceso al 5,9 per cento, il livello più basso dal 2007, con 567 mila occupati in più rispetto all’anno precedente. Dal 2022 al 2024, i contratti a tempo indeterminato sono aumentati di circa 987 mila unità, mentre i contratti a tempo determinato sono diminuiti di circa 172 mila unità. Il risultato è quello che abbiamo di fronte: una delle riforme migliori della storia recente della nostra Repubblica viene demonizzata dal partito che l’ha creata, viene ignorata dai partiti che ne hanno potuto sperimentare le conseguenze positive al governo, viene sbugiardata dai giornali che ai tempi sostennero giustamente quella battaglia, viene trascurata dal mondo editoriale più legato all’imprenditoria, che per non saper né leggere né scrivere tra il dire da che parte stare e il giocare a fischiettare ha scelto la seconda strada. E dunque, alla fine, il punto è quello: i promotori del referendum contro il Jobs Act promuovono un quesito farlocco, rifacendosi a una verità percepita che si trova distante anni luce dalla realtà dei fatti. Da Marte è tutto, a voi studio.