Qualche numero e qualche ipotesi sull’addio molto annunciato dell’allenatore. Psicopatologie societarie
Qualunque tifoso interista, anche il meno incallito orfano di Mou, avrebbe preferito un addio come quello del Bernabeu, senza voltarsi indietro e lasciando la scia di un incredibile trionfo. E pensare che i rosicones avevano persino provato a irridere i bauscia per quell’addio senza remissione. Meno facile anche per loro ridere adesso, perché l’addio a puntate e mezze frasi di Simone Inzaghi all’Inter è la conseguenza già un po’ metabolizzata di una débâcle paurosa, più che uno “zero tituli”: è il compiuto esaurimento di un ciclo breve ma che è stato di gran bel gioco, di qualche non piccolo trofeo, di alcune partite che consoleranno a lungo gli inconsolabili bauscia. L’addio annunciato di Inzaghi – in Arabia non si va per soldi, chiedere al Mancio, si va per gli amori finiti – ha spiegazioni facili e difficili, in questi giorni ognuno sceglierà i suoi dal mazzo. Il primo è che Inzaghi ha vinto meno di quel che poteva, e soprattutto ha perso a Monaco come mai avrebbe dovuto. Poi c’è altro.
Inzaghi è un grande costruttore di gioco, forgiatore di giocatori, indemoniato di un calcio che ha raccolto gli applausi di Guardiola, e questo basta. Ma vincente, non è per forza il suo. Il secondo e più vero motivo è che sapeva lui per primo che il futuro stava invecchiando dietro le spalle, e nessun futuro gli era stato e sarebbe stato promesso. Anche se avesse alzato la Coppa.
Poteva finire un tantino meno peggio di come è finita, la storia dell’Inter di Inzaghi. Ma che fosse avviata alla fine era già chiaro in alcuni scricchiolii peggiori di quelli della caviglia di Thuram. “Le strade del club e di Simone Inzaghi si separano. E’ questa la decisione presa di comune accordo”. Del resto per ripartire – tra meno di un mese – dopo un finale di stagione così era impensabile. Ma solo gli ingenerosi e quelli che non capiscono di calcio possono credere che le colpe siano solo sue, e soprattutto che cambiando l’allenatore tutto ritornerà come prima. Come prima di Inter-Barcellona insomma, come nella seconda stella vinta a mani basse. Qualche e maggiore colpa sta ai piani alti. Il bottino di Inzaghi sono sei trofei, la seconda stella, due Coppe Italia e tre Supercoppe, un club riportato ai vertici del calcio europeo dove altre italiane non se ne vedono. E come “manager”, sarà difficile trovarne migliori, e in Italia nessuno ne ha così: per il numero di panchine e di vittorie (217 e 141), per i giocatori presi a zero e trasformati in oro (Chala, Mkhitaryan, Acerbi, Thuram) o fatti crescere in modo impressionante (Dumfiers, Dimarco). Per aver fatto lievitare i ricavi, solo quest’anno più 150 milioni. E tutto questo con una società che per lui ha speso quasi zero: il saldo tra cessioni e acquisti in quattro anni è più 114 milioni. Milan, Juventus e Napoli nello stesso periodo hanno segnato un rosso di 270, 206 e 101 milioni. Nonostante la tragedia di Monaco, in questa stagione il bilancio nerazzurro tornerà positivo con il record di introiti della Champions. Altro che dirgli grazie.
Ma siccome il calcio è fatto sì di numeri ma anche di tragedie umane, di destini incrociati, di intrighi scespiriani, c’è anche altro. Per capire e gustarsi (sì, ci sarà chi se la gusta) appieno la tragedia del mite, silenzioso Inzaghi – in un campionato italiano che, dopo aver perso Mou, non ha più trovato un comunicatore di livello mondiale e che con l’addio di Ranieri perderà il suo ultimo signore e rimarrà preda di gutturali urlatori da dopo partita, Inzaghi è stato una elegante eccezione – bisogna guardare in mille pieghe. La colpa di Inzaghi è stata aver creduto quest’anno solo nella Coppa. La colpa anche più grave, forse, è stata quella di non aver saputo governare un gruppo che a quello soltanto, psicopaticamente, ha pensato. Un gruppo cosciente che sarebbe stata per molti di loro l’ultima occasione. Hanno pensato solo a Monaco, e il cervello ha fatto tilt. Ma va detto senza infingimenti: molta colpa anche della dirigenza e della società, di chi ha la barra del timone. Una dirigenza che non ha saputo, evidentemente, imporre alla squadra la giusta tensione. Ma su cui ha pesato l’ignoranza sportiva e la mentalità economicista del fondo speculativo americano Oaktree che, esplicito o implicito, chiedeva non trofei ma solo i fatturati legati ai trofei.
Ora si vedrà se la proprietà americana dimostrerà di aver compreso qualche regola minimale del calcio – ad esempio che a mercato zero non si vince – o se continuerà con la logica cravattara che, per risanare il bilancio, rischia di affondare il motore che quel bilancio crea e spinge, la squadra. L’impressione di queste ore non induce all’ottimismo. Per cui, più che maledire Simone Inzaghi per quello che ha perso, c’è da ringraziarlo per quello che ha fatto. E tutto il calcio italiano dovrebbe fare lo stesso. Per i tifosi interisti, un pensiero postumo e grato va a oriente, al giovane visionario Steven Zhang che nel suo sogno nerazzurro aveva buttato una passione impensabile, costruendo a sue creative spese il giocattolo (quasi) perfetto.