L’integrazione dell’intelligenza artificiale nei processi industriali permette di monitorare e migliorare la qualità del prodotto, ottimizzare la manutenzione e personalizzare l’offerta. E per avere efficienza e ricavi migliori, l’Ue ha una carta importante da giocare: la manifattura
Negli ultimi mesi, la discussione sull’intelligenza artificiale (AI) ha preso una piega interessante. La domanda che si fa largo tra policy maker, industriali e accademici è se l’Europa debba inseguire l’ennesimo sogno di sovranità tecnologica – provando a costruire “campioni continentali” dell’AI – oppure se la vera sfida non sia piuttosto quella dell’adozione diffusa e intelligente di queste tecnologie nei tessuti produttivi. Per contribuire a questo dibattito, abbiamo ospitato in Luiss un workshop, in cui si sono confrontati accademici, startupper, esponenti del mondo produttivo e policy makers.
La tesi che è emersa è stata sorprendente: DeepSeek, il modello open source cinese che ha mostrato performance straordinarie a costi ridottissimi, suggerisce che l’AI diventerà probabilmente una commodity. Proprio come l’elettricità o la connettività, il cuore tecnologico dell’AI sarà fornito da molti attori e non dominato da pochi – come accaduto per i motori di ricerca o i social – ma uno spazio popolato da decine di fornitori globali. E’ un’ipotesi che potrebbe essere smentita dai fatti, ma mentre era impensabile fino a qualche mese fa, oggi è supportata da evidenze e opinioni di esperti del settore.
Se questa lettura è corretta, allora l’Europa deve cambiare priorità. Il vantaggio competitivo non si giocherà tanto sul terreno dello sviluppo dei foundation models, ma sulla capacità di integrare queste tecnologie nei processi industriali. E qui, l’Europa ha una carta importante da giocare: la manifattura. Siamo un continente che produce beni, macchine, componenti e questo ci offre l’occasione per diventare leader nell’AI applicata all’industria. Il problema? Mentre gli Stati Uniti hanno una base manifatturiera sempre più marginale, la Cina ha una base poderosa e sta investendo massicciamente nell’AI industriale. La partita non è persa ma, come sostenuto nel Rapporto Draghi, l’Europa deve migliorare sostanzialmente la propria capacità di innovare.
Servono dunque imprese che sviluppino applicazioni verticali di AI, soluzioni specifiche per settori come tessile, automotive, chimica. L’esperienza insegna che molte di queste innovazioni sono fatte da startup che diventano velocemente leader nella propria area tecnologica. Ma qui si apre la questione dolente: le startup europee fanno fatica a crescere. I pochi successi spesso migrano verso la Silicon Valley. Le ragioni sono note: poca finanza paziente, scarsità di capitali per lo scale-up, mercato interno frammentato che impone barriere regolatorie, fiscali e operative. Ma startup che emigrano perdono il contatto con la base produttiva per cui dovrebbero sviluppare applicazioni, vanificando il vantaggio competitivo europeo. Lo sviluppo di applicazioni verticali per specifiche industrie sarà un elemento fondamentale per accrescere la competitività dell’Ue. L’integrazione dell’AI nei processi industriali – come dimostra chi la sta già facendo – parte spesso con l’obiettivo di tagliare i costi, ma poi evolve. Le tecnologie di AI permettono di monitorare e migliorare la qualità del prodotto, ottimizzare la manutenzione, prevedere guasti, personalizzare l’offerta. Il risultato? Più efficienza, ma anche più ricavi e margini migliori. E’ un’evoluzione che può fare la differenza nella competizione con la Cina.
In tutto questo, la regolamentazione gioca un ruolo decisivo. L’AI ha fame di dati. Ma i dati sono anche un asset strategico, che va tutelato. C’è una crescente riluttanza da parte delle imprese europee a usare soluzioni cloud per paura che i loro dati vengano “espropriati” o riutilizzati altrove. Bisogna quindi disegnare un quadro normativo che da un lato favorisca l’accesso ai dati per sviluppare applicazioni, ma dall’altro protegga la riservatezza e la proprietà delle informazioni. E’ un equilibrio difficile, ma indispensabile. L’Europa può offrire al mondo un modello alternativo basato su trasparenza, interoperabilità e sicurezza, trasformando così la compliance normativa da costo a vantaggio strategico.
Infine, c’è un aspetto ancora poco esplorato ma destinato a pesare sempre di più: chi possiede i dati generati dai lavoratori? Alcuni studi iniziano a suggerire che i dati prodotti da chi lavora – nei magazzini, nei reparti, nei call center – non debbano appartenere solo alle imprese. Ciò non solo per questioni di equità, ma di efficienza: lavoratori che percepiscono di essere “espropriati” dei dati che la loro attività genera saranno inevitabilmente meno disposti a permetterne l’utilizzo. Riconoscere diritti di proprietà digitale ai lavoratori potrebbe diventare una nuova frontiera del conflitto e del dialogo industriale. Su questo, i sindacati – spesso accusati di rincorrere le trasformazioni – potrebbero giocare un ruolo utile e moderno.
L’AI è una tecnologia con potenzialità straordinarie, ma anche carica di sfide inedite. Non è più scontato che l’Europa debba necessariamente puntare a sviluppare campioni propri nell’ambito dei modelli di AI generale. Allo stesso tempo, non ci sono dubbi sul fatto che l’Europa deve accrescere la capacità di creare applicazioni settoriali e incentivarne l’adozione da parte delle imprese.