Altro che precariato, da abolire per via referendaria. L’idea alla base della riforma, osteggiata sin dall’inizio da Cgil e Uil, era di ridurre il lavoro atipico per favorire il tempo indeterminato. Storia, obiettivi e limiti di una legge che ha prodotto assunzioni, non licenziamenti, ma che divide ancora
C’era una volta il Jobs act. La legge delega del governo Renzi, ispirata all’omonima riforma di Barack Obama. Una legge fortemente osteggiata da Cgil e Uil, tanto da far scrivere a molti che per Renzi era il gesto che doveva spezzare il cordone ombelicale tra partito e sindacati, ciò che per Tony Blair era stata la riscrittura della “Clause IV” dello statuto del New Labour. Già i riferimenti evocati fanno capire che parliamo di un’altra stagione politica, che si muoveva entro coordinate molto diverse dalle attuali. Le riforme andavano fatte per crescere. I debiti erano cattivi. E non si poteva spendere e spandere, come hanno fatto i governi dalla pandemia in poi. Se ancora oggi, a dieci anni di distanza, quella riforma divide così tanto, forse vale la pena fare un po’ di archeologia del presente, per ricostruirne gli obiettivi, gli strumenti e anche i limiti.
Le bufale sul Jobs act
Tanto per iniziare, siamo di fronte a una riforma che, per il suo potenziale di scaldare gli animi, ha prodotto una quantità indescrivibile di bufale. Quante volte mi è capitato di sentire dire che “mio cugino è stato licenziato col Jobs act”, salvo poi scoprire che era stato assunto prima del 2015, e che a lui si applicavano le norme sui licenziamenti introdotte da Monti, Fornero e Bersani nel 2012, non il Jobs act. Oppure che faceva il manager, e da sempre ai dirigenti non si applica la disciplina prevista per i dipendenti, quindi neanche il Jobs act. Oppure, addirittura, che aveva la partita Iva; il che significa non solo che le norme sui licenziamenti per lui non valevano, ma che, come finta partita Iva, avrebbe potuto beneficiare del Jobs act, come hanno capito quei rider che a Torino l’hanno usato in tribunale per farsi estendere le tutele del lavoro subordinato.
Fino ad arrivare al caso di un ex portavoce della Cgil, “licenziato col Jobs act” secondo molti giornali, salvo poi scoprire che anche lui era stato assunto prima. Non solo: se le norme del Jobs act si fossero applicate al suo caso, per lui sarebbe stato meglio, dato che prevedevano per la prima volta la possibilità di reintegro per chi lavora in partiti e sindacati. Una possibilità, guarda caso, che sparirà di nuovo se dovesse vincere il Sì al referendum di Landini. Per la serie: il reintegro è un diritto fondamentale dei lavoratori. Tranne quelli che guidano le auto dei sindacalisti o rispondono al telefono per loro.
Ma non finisce qui. Le bufale girano anche in ambienti accademici, dove c’è chi cita studi a casaccio. Se non fosse tragico per la qualità del dibattito, farebbe sorridere che alcuni intellettuali critichino il Jobs act citando studi che valutano riforme che avevano una filosofia completamente diversa (Treu, Biagi, Gelmini).
Scordandosi di citare altri studi, realizzati da gruppi di ricerca della Banca d’Italia e dell’Università delle Marche, che guardano proprio al Jobs act e trovano un effetto positivo, anche tre anni e mezzo dopo, sulla stabilità dei lavoratori. Sì: sulla stabilità. E se non fosse tragico per la qualità della politica, farebbe sorridere che chi sostiene l’equazione Jobs act uguale precariato citi come modello la Spagna, un paese con un tasso di lavoro temporaneo doppio del nostro e dove si licenzia dando al lavoratore poche mensilità, anche con Sánchez.
La bufala più sofisticata, però, è che il Jobs act abbia spinto lavoratori e lavoratrici a fare meno figli. Tutto nasce da uno studio targato Inps che trova una fecondità più bassa tra chi ha un contratto a tutele crescenti (introdotto dal Jobs act), percepito come meno sicuro rispetto al tempo indeterminato che c’era prima. In una logica, direbbero gli economisti, di equilibrio parziale, per cui si comparano due contratti e non tutti gli effetti possibili della riforma sulle traiettorie individuali. Quello studio, insomma, misura l’effetto di avere il nuovo indeterminato rispetto al vecchio (il confronto più sfavorevole al Jobs act), ma non tiene conto di chi ha ottenuto un contratto più stabile, per esempio perché prima della riforma era disoccupato o aveva un lavoro precario. Gli effetti di equilibrio generale non vengono stimati. Ma senza sapere quanti lavoratori sono passati da una situazione all’altra, è impossibile dire se l’impatto sulla fecondità sia stato negativo o positivo. Lo studio, insomma, può dire qualcosa sull’effetto dell’incertezza contrattuale sulle scelte familiari, non sull’impatto complessivo del Jobs act.
La distinzione tra equilibrio parziale e generale s’insegna nel primo corso di economia. E’ difficile pensare che sfugga a chi interpreta male quello studio. Deve esserci del dolo. Non a caso, chi lo cita si guarda bene dal menzionare altri studi Inps che trovano effetti positivi legati alla riforma, dal rafforzamento dell’apprendistato all’aumento dei congedi parentali (i riferimenti sono nella nota finale). Curiosamente, neanche gli autori di quegli studi parlano di “Jobs act”, ma di generiche “norme del 2015”, forse per timore che gli effetti positivi non vengano creduti. Da riforma denigrata a riforma innominata. Insomma, vista questa quantità impressionante di fake news, cerchiamo di ricostruire la filosofia e le misure principali del Jobs act. Prima di arrivare alla fake news più fake di tutte: quella per cui i referendum di Landini finirebbero per abolirlo.
La filosofia del Jobs act
Il Jobs act ribalta il paradigma che aveva guidato tutte le riforme precedenti, inserite in un’ondata che aveva coinvolto molti paesi Ocse a partire dagli anni ‘90: quella della cosiddetta “flessibilità al margine”, per cui si facilitava il ricorso a forme contrattuali atipiche lasciando immutata la disciplina del lavoro stabile. Queste riforme avevano sì aumentato i margini di flessibilità organizzativa e produttiva delle imprese, ma ne avevano scaricati i costi solo su alcuni, a partire dai giovani, aumentando così il dualismo e il divario di opportunità tra i lavoratori stabili e tutti gli altri. Il Jobs act vuole aggredire questo dualismo, anche se limitatamente alle nuove assunzioni, rimuovendo alcune rigidità per ridare centralità alle assunzioni a tempo indeterminato. Altro che precariato. L’idea è di ridurre il lavoro atipico, dai cocopro alle finte partite Iva, per favorire il tempo indeterminato, tanto che si prevede anche una forte decontribuzione per incentivarlo. Gli apocalittici gridano allo scandalo: prevedendo che tutti i lavoratori assunti a tutele crescenti saranno poi licenziati una volta finiti gli incentivi. Ma niente di tutto questo si materializza. Le assunzioni arrivano. I licenziamenti no.
Allo stesso tempo, il Jobs act si basa sull’idea di rafforzare le tutele dei lavoratori nel mercato, irrobustendo i sussidi di disoccupazione e creando un sistema di politiche di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. Il primo passaggio funziona, pur nei limiti delle risorse finanziarie che all’epoca si riesce a investire. Il secondo resta in buona parte sulla carta, anche perché la sconfitta al referendum costituzionale del 2016 impedisce di ridare allo stato la competenza esclusiva sulle politiche attive. Ma la direzione era giusta, casomai il problema è non averla percorsa con convinzione.
Prima del Jobs act, l’Italia era un caso unico. La protezione dei lavoratori avveniva solo in azienda (e non in tutte). Per chi perdeva il lavoro o non lo trovava, quasi niente. I sussidi di disoccupazione erano ridicoli ed escludevano gran parte dei lavoratori, soprattutto giovani, donne e atipici. La protezione del reddito era affidata solo alla cassa integrazione. Che esisteva in molti altri paesi, si pensi al Kurzarbeit in Germania, ma che in Italia – e solo in Italia – era l’unico spettacolo in città. Da nessun’altra parte poteva durare pressoché all’infinito (con deroghe e rinnovi), senza costi per le aziende e mettendo tutti i lavoratori a zero ore. Per non parlare della cassa per cessazione, in base alla quale un’azienda che non produceva più da anni (talora decenni) era tenuta in piedi anche se, intascati i soldi, i piani industriali non venivano rispettati.
L’ipertrofia della cassa aveva spiazzato i sussidi di disoccupazione e le politiche attive del lavoro. Ezio Tarantelli diceva che la cassa fossilizzava i lavoratori nel loro posto di lavoro come la lava con gli abitanti di Pompei. Il Jobs act parte da una filosofia opposta: quella di un capitalismo ben funzionante, perché il mercato è dinamico ma i lavoratori (e non le grandi imprese) hanno una rete di protezione. Questo modello non è né della Thatcher né di Blair. E’ il patto sociale delle grandi socialdemocrazie. Goteborg, non Pompei. E’ un modello che ha consentito alla Svezia di essere una potenza industriale senza aiuti pubblici (lì Saab l’hanno fatta fallire).
E’ il modello della flexicurity, che adesso quasi tutti ripudiano, anche se il più delle volte per partito preso. Ultimamente, c’è un libro che piace molto citare a quelli che sono di sinistra per definizione (propria). Direbbe Aristotele: per accidente, mai per sostanza. E’ il libro di Daniel Chandler: “Free and Equal”. Viene da chiedersi: quanti l’hanno letto davvero? L’ottavo capitolo sintetizza le tre proposte dell’autore sul lavoro: (1) flexicurity; (2) partecipazione dei lavoratori, (3) sostegno alle imprese cooperative. Curioso. La prima è una bandiera della politica riformista. La seconda del sindacato riformista. E il mondo cooperativo, nella storia del movimento operaio, è sempre stato la base sociale riformista per eccellenza. Insomma, gira che ti gira, quando si cercano soluzioni minimamente percorribili, si bussa sempre alla porta dei riformisti.
Gli strumenti: tutele crescenti
Diciamolo subito: il vero colpo all’articolo 18 non arriva dal Jobs act ma dalla riforma del governo Monti nel 2012, allora sostenuta dal Pd di Pier Luigi Bersani e osteggiata dalla Cgil. E’ allora che si restringe a poche fattispecie la possibilità di reintegro in caso di licenziamento illegittimo per ragioni economiche. Il Jobs act interviene su quelle norme per i nuovi assunti e introduce un principio che ha una logica economica più che giuslavoristica: quello di introdurre costi di separazione che risultino prevedibili ex ante e crescano nel tempo. E’ la logica delle tutele crescenti. La tutela risarcitoria in caso di licenziamento ingiustificato aumenta con l’anzianità di servizio presso lo stesso datore. Rimane, ovviamente, la tutela reintegratoria per i licenziamenti discriminatori e per alcuni licenziamenti disciplinari. Anzi, viene estesa a casi in cui non era prevista o lo era solo in forma attenuata dalla legislazione precedente: i lavoratori di partiti e sindacati, come detto, ma anche i licenziamenti durante il periodo di comporto per malattia o per disabilità che non compromette lo svolgimento delle mansioni lavorative. Spoiler: se vincesse il Sì al referendum, per questi lavoratori il reintegro scomparirebbe.
La motivazione per introdurre costi di separazione che risultino prevedibili ex ante e crescano nel tempo era duplice. Come in tutti i rapporti interpersonali, anche in quelli di lavoro la qualità (o meglio: la produttività) dell’incontro tra datore e dipendente può essere conosciuta e valutata soltanto col passare del tempo. Inoltre, è giusto che un dipendente che ha investito il proprio capitale umano e il proprio saper fare nella stessa azienda per molti anni riceva un risarcimento maggiore. La riforma introduce anche una procedura di conciliazione incentivata che ha due elementi. Primo: l’esistenza di una somma predeterminata per legge e sottratta alla disponibilità delle parti. Secondo: l’esenzione fiscale totale. Elementi che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbero dovuto ridurre il contenzioso giudiziario e quindi, di nuovo, diminuire l’incertezza.
Proprio per la natura economica del disegno sottostante alle tutele crescenti, il suo successo non poteva essere valutato sulla carta. Aveva bisogno di tempo per capire se il nuovo contratto sarebbe stato in grado di riassorbire le tante forme di lavoro atipico. Perché questo era l’obiettivo: sostenere il lavoro stabile. E’ andata così? Difficile dirlo: di sicuro le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate – anche grazie alla decontribuzione – e i licenziamenti non sono mai saliti.
Ma a un certo punto arriva una sentenza della Corte costituzionale che di fatto abolisce le tutele crescenti, restituendo alla discrezionalità del giudice l’ammontare dell’indennità risarcitoria. Attenzione: la Corte non dice che le tutele sono basse, anche rispetto ad altri ordinamenti europei, ma che spetta al giudice valutarne l’entità. E’ una difesa delle prerogative della magistratura più che di chi lavora. Avete capito bene: il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act, nella sua logica originaria, non esiste più. Se vi state chiedendo perché fa tanto clamore un referendum che vuole abolirlo, non siete i soli.
Gli strumenti: ammortizzatori e politiche attive
Ma il contratto a tutele crescenti era solo uno dei tanti ingredienti del Jobs act. Gli altri, di fatto, sono stati confermati da tutti gli interventi dei governi successivi, che li hanno mantenuti e in alcuni casi rafforzati. E nessun referendum si propone di abolirli. Quella riforma ha introdotto la Naspi (con 2,5 miliardi di euro aggiuntivi all’anno): un sussidio che copre il 97 per cento dei lavoratori dipendenti se perdono il lavoro. Questa copertura se la sognano nella maggior parte dei paesi europei. Il sussidio arriva fino a 1.560 euro al mese e dura fino a due anni: un anno in più di prima, e i giovani non sono più penalizzati rispetto agli anziani. E’ stata introdotta la Discoll per i collaboratori e i giovani ricercatori. Perfino gli apprendisti possono ottenere la cassa integrazione. Un milione e mezzo di lavoratori delle piccole imprese, prima esclusi, ora possono ottenere integrazioni salariali con i fondi di solidarietà. E con una legge collegata è stato introdotto il Reddito di inclusione (Rei), poi sostituito da quello di cittadinanza: la prima misura di ultima istanza per combattere la povertà. Prima del Rei, l’Italia era l’unico paese europeo a non avere una misura del genere, insieme alla Grecia. Certo, le risorse messe sul Rei erano insufficienti, ma nessun governo prima ci aveva mai investito tanto (altri 2,5 miliardi nell’arco di due leggi di Bilancio). Per carità, le grandi imprese non possono più usare la cassa integrazione per scaricare i costi della loro incapacità manageriale (o delle loro scelte di rilocalizzazione) sulla collettività, perché non possono averla gratis all’infinito. Se la usano a lungo, la pagano di più, secondo un principio di equità. Le crisi aziendali irreversibili ora sono accertate, ma negli altri casi la cassa integrazione resta eccome: e dura fino a due anni, come in Germania (addirittura tre con i contratti di solidarietà).
Uscendo dalla logica precedente della flessibilità al margine, che puntava tutto sui contratti atipici e temporanei, il Jobs act per la prima volta prova a restringerne il campo, combattendo il precariato. Abolisce i cocopro, contrasta le dimissioni in bianco e introduce una stretta contro le false partite Iva, con una norma che, non a caso, i rider hanno usato per ottenere più diritti in tribunale. In parallelo, la legge sul caporalato rende più stringenti le norme contro lo sfruttamento. Per carità, avremmo potuto fare di più, ma una cosa è dire che la direzione era giusta anche se non si è fatto abbastanza, altra è dire che si è sbagliato tutto. E c’è anche il capitolo delle politiche attive del lavoro, che per la prima volta vengono messe al centro, con il disegno di una rete tra pubblico, privato e terzo settore, l’assegno di ricollocazione e una nuova agenzia nazionale. Purtroppo, quel disegno resta sulla carta, perché le risorse investite sono poche (le riforme a costo zero esistono solo negli editoriali di noi economisti) e il referendum costituzionale del 2016 blocca le competenze esclusive dello stato su quei temi. Ma, di nuovo, la strada era giusta. L’errore è stato non percorrerla con coerenza.
Un referendum sul niente
A questo punto, dovrebbe essere chiaro che i referendum di Landini non aboliscono il Jobs act. Dire che lo fanno è una fake news. Dire che risolveranno i problemi del mondo del lavoro, ancora peggio. In Italia, non c’è un problema di licenziamenti alti ma di salari bassi. E, come abbiamo visto, se vincesse il sì nel referendum che abolisce il contratto a tutele crescenti, ci sarebbero un sacco di effetti collaterali a scapito dei lavoratori. Abolirlo non vorrebbe dire tornare all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma all’ultima, vera modifica sostanziale di quella norma: la riforma Monti-Fornero-Bersani, che aveva ridotto l’articolo 18 all’ombra di sé stesso. Il risultato paradossale sarebbe che, per avere lo scalpo di un decreto che già non esiste più nella sua formulazione originaria, si ridurrebbe l’indennizzo massimo da 36 a 24 mensilità. E il reintegro, addirittura, sparirebbe per i casi che abbiamo discusso sopra. Un affarone.
Nella storia del sindacato, d’altronde, i referendum raramente coincidono con i punti più alti di elaborazione ideale e rappresentanza sociale. I quattro quesiti proposti dalla Cgil non fanno eccezione. Abolire il precariato per referendum suona un po’ come abolire la povertà per decreto. Ma fa ancora più sgomento il trasformismo delle forze politiche che si accodano a quel referendum, come se negli ultimi anni fossero state sulla Luna. Gli ultimi ministri del Lavoro prima del governo Meloni (Di Maio, Catalfo, Orlando) appartenevano a forze politiche che voteranno sì ai referendum di Landini. Non potevano cambiarle quelle norme, invece che aspettare di abolirle a rimorchio del sindacato? In verità, i Cinque stelle le hanno modificate, tanto che il testo che il referendum abolisce è di fatto il frutto delle modifiche del decreto dignità nel 2018. I Cinque stelle, allora, dissero che avevano sconfitto il precariato grazie a quel decreto. Oggi, lo aboliscono. E’ l’apoteosi del populismo, che a furia di cancellare tutto cancella sé stesso.
Che cosa è andato storto
Detto questo, non c’è dubbio che qualcosa sia andato storto con le misure del 2015. Il Jobs act è una riforma Gorbaciov: amata all’estero e odiata in patria. Perché a un certo punto è diventato politicamente prioritario venderla all’estero. Doveva convincere la Merkel a darci i soldi delle clausole di flessibilità. E gli investitori internazionali a scommettere sull’Italia. Poco male se i sindacati si arrabbiavano. In fondo, l’articolo 18 l’aveva già cambiato Monti, non c’era bisogno di enfatizzare il tema, ma a un certo punto è prevalsa la tendenza a usarlo come un simbolo. E il simbolo si è vendicato.
Robert Solow, grande tifoso dei Red Sox e premio Nobel per l’Economia, ha scritto un passaggio illuminante: “Una cosa è rafforzare gli outsider rispetto agli insider, ben altra è rafforzare i datori di lavoro rispetto agli insider. In entrambi i casi, l’occupazione aumenterebbe, ma le implicazioni sulla redistribuzione potrebbero essere diverse così come le conseguenze politiche. In realtà, le riforme hanno una maggiore probabilità di sopravvivere se non prendono, o se viene percepito che non prendono, posizione tra datori di lavoro e lavoratori”. E’ incredibile come il vero epitaffio del Jobs act sia stato scritto negli anni ‘90, venticinque anni prima che quella riforma vedesse la luce. Le politiche per rafforzare gli outsider c’erano nel disegno della riforma, ma molte di esse sono rimaste sulla carta. E questo ha cementato la percezione che fosse soltanto a favore delle imprese. Una riforma pensata per outsider e giovani – a differenza di quelle che avevano salvaguardato insider e garantiti – è stata mal recepita soprattutto da loro.
E’ stato un errore. Anche perché alla fine quell’enfasi mal riposta ha impedito di completare le parti più importanti della riforma, dalle politiche del lavoro e della formazione fino al welfare. Ma l’errore è stato tattico, non filosofico. E non saranno il trasformismo o l’assenza di contenuti a sanarlo. Anche perché quell’errore l’abbiamo fatto tutti insieme: ministri, ministre, parlamentari, dirigenti di partito. Oggi nel Partito democratico c’è una corsa a dire: “Io ho votato contro il Jobs act”. Ma gli unici che possono dirlo sono Corradino Mineo, Pippo Civati e Luca Pastorino. Tutti gli altri hanno votato a favore o non si sono presentati. Nel 2016, molti compagni hanno trovato il coraggio del dissenso, aperto e organizzato, quando c’era da far perdere il Pd al referendum costituzionale. Sul Jobs act si sono limitati a darsi malati.
Se vogliamo riaprire una discussione che guardi al futuro, proprio nel Jobs act ci sono tanti elementi da riprendere, dal salario minimo alla formazione permanente. Molti altri elementi non ci sono, perché parliamo di una riforma di dieci anni fa, fatta in condizioni politiche e finanziarie completamente diverse. Ma di questo dovremmo parlare.
Lo so: questo è il tempo di chi vende emozioni, non di chi propone soluzioni. E poco importa se quelle emozioni si basano su bugie e inganni, ostacolando il cambiamento e danneggiando i più deboli. Come ha detto un sindacalista con cui ho fatto un dibattito di recente: “la narrazione sui referendum è imbarazzante per quanto è falsa”. E’ così. Per questo, riflessioni come quelle qui esposte mal si conciliano con lo spirito dei tempi. Restano, però, un tentativo di tenere viva la voglia di fare politica senza piegarsi alla fiction del presente. Un messaggio in una bottiglia, affidato a un mare in tempesta.