Le canzoni, la tribù che balla: tre ore di spettacolo che rimettono al mondo tutto quello che abbiamo amato. Perché Lorenzo non ha mai smesso di pensare positivo, e ogni volta in modo più bello, più adulto, più serio
L’ultimo libro di Joan Didion, Diario per John, uscito da poco per il Saggiatore, è stato discusso perché era un diario privato, un pezzo di vita, appunti presi sulle sedute di psicoterapia e sulle difficoltà con la figlia Quintana, cose che forse non erano state pensate per la pubblicazione.
Non è stato criticato il libro, che è bellissimo, ma è stata criticata l’intimità rubata. A parte il grande piacere di leggere qualcosa che forse non è stato pensato per la pubblicazione, che poi è il modo più libero di scrivere e infatti tutte le persone che scrivono si affannano ad assicurare che scrivono solo per sé stesse, e dovrebbe essere vero sempre, a parte questo effetto di grande lusinga per il lettore, c’è un principio che mi sembra non si possa ignorare: uno scrittore è uno scrittore. Forse non è del tutto uno scrittore mentre parla al telefono con sua figlia arrabbiata o triste, ma sicuramente è uno scrittore quando scrive di quella telefonata, la rimette insieme con cura, smonta e rimonta il pensiero prima della telefonata e quelli subito dopo.
Quel gesto coincide con la vita, e non importa se è verità assoluta, punto di vista, invenzione totale: non importa nemmeno se verrà pubblicato, perché il punto non è la pubblicazione ma l’averlo scritto, raccontato, fermato. Allo stesso modo in cui l’artista offre tutta la sua arte, che coincide con la vita, la nutre, la sposta, la fa muovere. Sicuramente Joan Didion avrebbe sistemato qualche frase, avrebbe tolto qualche parola dalle pagine, ma il gesto di scrivere e di riunire gli scritti in una cartellina è già il consenso alla pubblicazione, anche perché il precetto della sua vita è stato sempre, fin da quando ha cominciato: se hai un problema, scrivi. Se hai un problema, fai quello per cui sei nato. Se rischi di non farlo più, fallo più forte.
Credo che Joan Didion avrebbe approvato, quindi, non solo la pubblicazione del suo diario, ma anche tutto il movimento e la coincidenza di movimento degli artisti: penso a questi anni di Jovanotti, la rimessa in sesto dopo l’incidente, la preparazione del tour, l’esposizione del corpo che a poco a poco si aggiusta e ricomincia a muoversi, a saltare, a ballare. Fino a ballare ogni sera per mesi, cantando e saltando, fino a offrire al pubblico, anche e soprattutto al pubblico che si era dimenticato che i corpi ballano, tutto sé stesso: riaggiustato, positivo, dolorante, ogni sera dopo lo show una serie di massaggi energici, la devozione alla medicina, allo sport e alla forza di volontà. All’arte.
Jovanotti, Lorenzo Cherubini, non ha taciuto la tortura, la paura, dopo l’incidente sfracellante in bicicletta del 2023, tanto che io sono andata a prendermi da pubblico, l’altra sera, la resurrezione di cui ho letto dappertutto e che ho visto Instagram dopo Instagram. Ma la paura mi aveva contagiato: cosa sei disposto a perdere? Ero disposta a vedere Jovanotti seduto sul palco con la chitarra, ero disposta a dirmi: anche questo mondo è finito, l’avrei accettato, ero disposta a dire che certo non è più la stessa cosa. La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita, ha scritto Joan Didion per iniziare L’anno del pensiero magico, e ha scritto anche: Io sono, o sono diventata, il mio modo di scrivere (ecco la prova che quel libro, Diario per John, era assolutamente da pubblicare). Sono entrata al Palazzo dello Sport, come tante volte in altri anni, altre città e altre fasi della mia vita (ma sono stati sempre salti da un’infanzia all’altra), ed ero pronta ad accettare che la vita cambia in un istante.
Invece il PalaJova tour è stato, appunto, la rimessa al mondo di tutto quello che abbiamo amato. La tribù che balla e che senza di lui non può ballare. Le canzoni che non sapevi di conoscere così tanto, così dal di dentro, le canzoni che ti spingono in piedi dalla sedia e ti fanno urlare tutto quello che eri, tutto quello che vorresti ancora essere.
L’onda si muove sotto il palco, e quello che si vede intorno, le facce i sorrisi i selfie, i telefoni accesi per il video, genitori con i figli, fidanzati in ginocchio, ragazze raggianti, signori imbiancati, tutto ricorda, rinnova, mostra una felicità. Per tre ore, siamo stati nell’ombelico del mondo. Per tre ore, Jovanotti ha offerto la rimessa in sesto, la manutenzione e infine lo scintillio di quel sentimento che non ha mai smesso di interpretare ogni volta in modo più bello, più adulto, più serio: qualcosa di positivo. Io penso positivo non è solo una canzone di successo, la canzone che tutti vogliono sentire ancora, insieme a Ragazzo fortunato che arriva nel finale e che coincide con l’esplosione del Palazzo dello Sport. E’ qualcosa che ha a che fare con la frase di Joan Didion: io sono il mio modo di scrivere.
Io sono il mio modo di stare sul palco, di cantare, di fare la serenata al mio grande amore invitandovi a usare questa serenata per i vostri grandi amori e anche per quelli piccoli. Invitandovi a baciarvi, abbracciarvi, e a pensare sempre, a tutte le età della vita, che questo è molto. E forse questo è tutto.
Jovanotti (dovrei dire Lorenzo, mi piace troppo dire Jovanotti, e comunque io sono del Novecento) ha fatto tutto il suo tour ballando, con favolose scarpe da ballo, sopra un tappeto. Un tappeto di quelli che stanno nelle case. Un tappeto che infatti, ha detto, si è portato da casa: “Il tappeto su cui ho letto centinaia di libri, ho ascoltato la musica, ho fatto fisioterapia, mi sono riposato, ho guardato il soffitto, ho ascoltato questo e quello”. Il tappeto volante della vita che coincide con l’arte, il tappeto di un uomo che ha dovuto riconquistare il suo corpo e la sua energia. Ecco, l’energia di Jovanotti, la sua dedizione a quella speciale forza che cerca suoni e deve essere condivisa con i palazzi dello sport, con i cartelli con su scritto: ho compiuto oggi 18 anni e il mio regalo sei tu, sono come le parole di Joan Didion. Private, pubblicate, coincidenti con quel che si è.
Jovanotti si inscena, sempre, ma il suo inscenarsi è fatto di una materia speciale: la semplicità. Quindi sul palco, prima del palco, dopo il palco, assistiamo al volo di un uomo che coincide con quello fa, cioè cantare, fare musica, inventare (“La storia, la matematica / L’italiano, la geometria / La musica, la, la musica, la fantasia”). Coincide con quello che è. E quest’uomo, che poi ha iniziato a volare sul suo tappeto volante, è caduto durante uno dei viaggi lontano in cui si era portato la bicicletta, ha rischiato molto, di certo ha avuto paura, ma la paura degli ultimi due anni adesso si vede appena nella grazia con cui porta addosso la fatica. Nemmeno ne fa mistero, della fatica, nemmeno vuole sembrare impermeabile, intrepido, identico a tutte le volte, per sempre giovane. Grazie, Lorenzo, di non voler sembrare per sempre giovane: un fardello impossibile anche per una rockstar.
Il sentimento del ragazzo fortunato, essendo autentico, può mostrare le cicatrici allo stesso modo in cui mostra l’entusiasmo e la forza spettacolare che crea questo ritrovarsi tutti insieme, tutti diversi, molti magari impacciati all’inizio. Parlo di me, che mi sono seduta pensando: sto ferma qui. Sto ferma qui, quasi immobile, non faccio figuracce con mia figlia che mi guarda, penso, canto, osservo il PalaJova 2025, tutti questi ragazzi, queste persone, e che sintomi ha la felicità, e mi ricordo che una volta per vedere Jovanotti a Bologna sono scappata di casa ma poi a: ciao mamma guarda come mi diverto non ho resistito e quindi poi ho telefonato a casa.
E invece alla prima canzone, al primo sorriso, è arrivata una molla dal basso, una spinta che sta dentro la musica ma sta in particolare dentro il sentimento di Jovanotti (quando dice: è una festa, dice la verità) e che è fatta per essere accolta, per alzarsi in piedi e ritrovare cose, fra corpo e parole. E’ fatta per non pensare più che stai facendo una figuraccia con qualcuno che ti guarda, perché tutti sentono questa molla e stanno ballando. “So che è successo già che altri già si amarono, non è una novità”. L’epica allora è quella di una lunga strada per arrivare qua: tornare a essere chi sei con l’energia ricostruita ma con la fatica esposta, con le canzoni vecchie che abbracciano quelle nuove, e questa faccia di ragazzo magico che ama le canzoni d’amore perché così le persone si amano di più. Perché coincidono con il diario di una vita intera, devota alla musica e a questa tribù che balla.