Italiane alle urne prima del 2 giugno: il sogno infranto di dieci maestre nel 1907

Dopo un appello di Maria Montessori, nel giugno del 1906 alcune donne furono iscritte a pieno titolo alle liste elettorali dei propri comuni, e da quel momento per dieci mesi poterono esercitare in tutto e per tutto il diritto di voto. Ma una sentenza della Cassazione frenò tutto

Fu davvero un gran peccato che il terzo governo Giolitti non sia caduto per qualche manovra parlamentare e l’Italia tra il 1906 e il 1907 non sia stata chiamata al voto anticipato. Il nostro paese avrebbe potuto così battere il record europeo del suffragio femminile, poi in effetti andato alla Finlandia che proprio nel 1907 elesse le prime donne al parlamento. Se infatti in quell’anno il re Vittorio Emanuele avesse chiamato gli italiani alle urne (allora votavano in circa 2,5 milioni, tutti uomini), ai seggi elettorali di Senigallia e della limitrofa Montemarciano si sarebbero presentate anche dieci donne, per la precisione dieci maestre, che nel giugno del 1906 furono iscritte a pieno titolo, attivo e passivo, alle liste elettorali dei propri comuni, e che da quel momento per dieci mesi poterono esercitare in tutto e per tutto il diritto di voto.

Una vicenda poco nota, rimasta nascosta nelle pieghe della storia, e che in qualche modo in epoca di Due giugno “retrodata” il momento canonico in cui tutti identifichiamo il giorno in cui le donne italiane poterono recarsi per la prima volta ai seggi. Le dieci maestrine marchigiane rimasero inserite nelle liste elettorali fino al maggio 1907 quando una sentenza della Cassazione riportò le lancette della storia a quello che al momento si credeva giusto e “normalizzò” l’inopinata (all’epoca) fuga in avanti delle dieci signore e soprattutto del giurista che aveva permesso tutto quello, Ludovico Mortara. Quella delle dieci maestre fu una vicenda che non restò però senza seguito e in pieno dibattito emancipazionista contribuì a tenere alta l’attenzione su un tema che suscitava nel paese grande polemica che si concluse in una prima fase nel 1912 quando Giolitti dette il via al suffragio universale riservandolo però solo agli uomini e riprese subito dopo la guerra salvo venire spazzato via dal fascismo (curioso paradosso della storia: uno dei dieci punti programmatici di piazza San Sepolcro nel 1919 era però la concessione del voto alle donne).

La semi-inedita vicenda delle maestre marchigiane prese il via nel 1906 quando Maria Montessori lanciò nel giornale La vita un appello pubblico alle donne italiane: andate a iscrivervi alle liste elettorali. “Andate in massa. Andiamone superbe e muoviamo un plebiscito non meno glorioso di quello che consacrò una l’Italia, diamo questo esempio di civiltà alle nazioni. Donne tutte sorgete!”. Maria Montessori si faceva forte del fatto che secondo l’articolo 24 dello Statuto Albertino “tutti i regnicoli qualunque sia il loro titolo di studio e grado, sono uguali dinanzi alla legge. Tutti godono ugualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche militari e civili, salve le eccezioni determinate dalle leggi”. E siccome in materia elettorale il suffragio femminile era espressamente vietato per le amministrative ma non per le politiche, ecco che l’iscrizione alle liste era secondo lei legittima. L’appello della Montessori fu accolto da molte donne che accorsero a iscriversi, richieste che ben undici commissioni elettorali non respinsero. Mantova, Caltanissetta, Imola, Palermo, Venezia, Cagliari, Ancona, Firenze, Brescia, Napoli e Torino recepirono le domande e, dopo gli scontati reclami dei rispettivi procuratori del Re, le passarono in seconda istanza alle relative Corti d’appello. Dieci di queste cassarono le istanze “montessoriane”.

La Corte d’appello di Firenze fu chiarissima nelle motivazioni. “Se le accettassimo, una maggioranza femminile potrebbe formarsi in Parlamento coalizzandosi contro il sesso maschile, magari dando al mondo civile un nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio, decoro e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”. Unica eccezione nel non respingere di seconda istanza le domande fu la Corte d’appello di Ancona che con una sentenza del 25 luglio 1906 confermò l’iscrizione a pieno titolo nelle liste elettorali. Da quel momento, con effetto immediato, Adele Capobianchi, Carolina Bacchi, Dina Tosoni, Giulia Berna, Emilia Simoncioni, Enrica Tesei, Giuseppina Berbecci, Iginia Matteucci, Luigia Mandolini e Palmira Bagaioli avrebbero potuto in qualsiasi momento votare ed essere votate. Si trattava di dieci maestre di età ed estrazione sociale diversa, in maggioranza piccolo borghese, e nessuna aveva o avrebbe fatto politica.

La Corte d’appello di Ancona era presieduta da pochi mesi da uno dei più insigni giuristi dell’epoca, Ludovico Mortara, un liberale amico di Vittorio Emanuele Orlando, uno che 13 anni dopo ricoprì la carica di Guardasigilli e fu protagonista di un altro provvedimento storico, la legge che abolì nel 1919 l’autorizzazione maritale, un antico e anacronistico (anche per l’epoca) istituto giuridico che subordinava qualsiasi atto pubblico della donna sposata al volere del marito (anche la testimonianza a un processo).

La decisione della Corte d’appello di Ancora scatenò un putiferio e i più importanti giornali d’Italia spedirono i loro inviati ad Ancona per parlare con Mortara. Il Corriere della Sera sparò la notizia in prima pagina (L’Avanti socialista invece la ignorò, facendo infuriare Anna Kuliscioff che se la prese con Turati e il direttore dell’epoca, anche loro molto freddi alle richieste femministe: temevano che le donne alle urne avrebbero subito l’influsso dei preti). Ai giornalisti che erano andati a trovarlo ad Ancona, Mortara aveva spiegato di essere personalmente contrario al voto femminile, perché il gentil sesso “non aveva ancora una coscienza civica pari a quella dell’uomo”, ma che da giurista non poteva ignorare la questione. “Se la legge vieta espressamente il voto amministrativo femminile ma non quello politico perché escluderle? Può bastare la prassi consolidata? Lo Statuto dice che tutti i regnicoli hanno uguali diritti di fronte alla legge, senza distinguere tra uomini e donne. D’altra parte esse pagano le imposte come gli uomini”.

Il putiferio giornalistico produsse grande allarme nei palazzi romani, e il “sistema” temette davvero che si scatenasse un effetto emulazione. Se a Mortara si fossero uniti altri giudici la situazione poteva davvero scappare di mano, anche perché la trattativa tra il governo e le forze politiche sul suffragio universale (o quasi-universale, come lo definivano le femministe) andava avanti sempre sul filo del rasoio e certe accelerazioni non aiutavano il confronto. Intervenne quindi la Corta di cassazione, che impugnò la sentenza Mortara e nel maggio 1907 la dichiarò nulla. Tutto come prima, le donne non potevano votare. Per motivare la propria decisione, la Cassazione spiegò che “le leggi che hanno disciplinato l’esercizio delle pubbliche funzioni di ogni sorta sono fondate sul presupposto ed hanno come principio e regola, che non si è sentito neppure il bisogno di dichiarare espressamente, di non poter le donne venir ammesse a una qualsiasi partecipazione di funzioni e cariche attinenti alla vita dello Stato”. Insomma, era così chiaro che le donne non potevano votare che la legge lo dava per scontato. Il sogno delle maestre marchigiane era finito, e solo quattro di loro erano ancora in vita quaranta anni dopo, nel 1946, quando i seggi si aprirono sul serio per tutte le italiane.

La vicenda marchigiana resta in ogni caso straordinaria, ingiustamente dimenticata ed è rimasta viva solo nella memorialistica locale (unica eccezione, un bello studio del professor Mario Severini, Storia delle prime elettrici italiane, Liberilibri, Macerata 2012) e ricorda come per molto tempo il tema del diritto di voto delle donne fu avversato dalla politica (anche dei socialisti, come abbiamo visto, che in teoria erano quelli che predicavano l’uguaglianza) e visse di iniziative e casi isolati, attraversando per un certo tempo una sorta di terra di nessuno. Basti pensare che solo due anni dopo, sempre in pieno divieto elettorale, un’altra donna non solo ottenne il diritto di votare, ma anche quello di venire candidata al Parlamento alle politiche del marzo 1909. Era una donna famosa, Grazia Deledda, che fu iscritta nel suo collegio, Nuoro. Per la scrittrice che pure era già famosa e che apparteneva a una famiglia molto nota in città si trattò però di un fiasco clamoroso: su 1.396 voti espressi la Deledda ne ottenne solo 34, di cui 31 contestati. Segno che nella mentalità comune la strada era ancora in salita.

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