Draghi li denuncia, Letta li mappa, Meloni e Salvini li strumentalizzano. Così l’Unione resta un puzzle disunito nonostante il mercato unico
Dazi sì, dazi no, dazi forse, dazi tra un po’. Da due mesi non parliamo di altro. Ma in Italia parte della politica più che delle tariffe di Donald Trump si preoccupa dei cosiddetti “dazi interni”. Citati anche dalla stessa presidente del Consiglio nel corso dell’Assemblea di Confindustria a Bologna, sono tutte quelle barriere che ancora esistono all’interno del mercato unico europeo, che così unico evidentemente non è.
Il termine ha acquisito centralità dopo un editoriale di Mario Draghi pubblicato sul Financial Times a febbraio che, citando uno studio del Fondo monetario internazionale, individuava in un rincaro del 44 per cento e del 110 per cento i maggiori costi sobbarcati da imprese e consumatori rispettivamente per il commercio di beni e servizi tra i paesi dell’Unione Europea. Un salasso ben più pesante che i dazi di Trump, scriveva Draghi.
Normative e tassazioni difformi da paese a paese, bizantinismi burocratici nazionali (valla a spiegare la marca da bollo a uno svedese), la pletora di regolatori differenti a cui fare riferimento, specifiche tassazioni nazionali, perfino i controlli doganali troppo lenti. Questi sono i cosiddetti “dazi interni”, che colpiscono prodotti e servizi quando attraversano i confini interni dell’Unione Europea incrementando i costi per aziende e consumatori. Chi più ha preso a cuore la questione è sorprendentemente stata la Lega. Proprio il partito che da sempre si è opposto all’applicazione della direttiva Bolkestein, che aveva l’obiettivo ormai vent’anni fa di aprire il mercato europeo dei servizi, e avversa la liberalizzazione del servizio taxi. Ma il partito di Matteo Salvini non si è scoperto improvvisamente europeista. La contraddizione è infatti presto spiegata. E’ sufficiente leggere la lista dei cosiddetti “dazi interni” che la Lega punta ad abolire: “la direttiva Case green, lo stop ai motori Euro 5 entro luglio e a quelli endotermici entro il 2035, l’obbligo del bilancio di sostenibilità per le aziende e le regole di bilancio del Patto di stabilità”. I lettori più attenti avranno già notato che nessuno tra questi provvedimenti rispetta la definizione di “dazi interni” data da Draghi e dal Fondo monetario internazionale, a cui tuttavia la Lega non manca di fare riferimento. Le politiche del Green Deal possono certo rallentare la crescita economica in un primo momento, per mitigare il riscaldamento climatico e sviluppare un settore clean tech europeo competitivo. Possono ovviamente essere criticate, anche aspramente. Ma, applicandosi in modo uniforme a tutto il territorio Ue, certo non corrispondono alle barriere regolatorie e fiscali nazionali che frenano gli investimenti europei.
Nella stessa contraddizione è sembrata incappare anche la premier nel corso del discorso di fronte agli industriali a Bologna. Prima ha chiesto all’Unione Europea uno sforzo per abbattere le barriere interne, citando le stesse cifre emerse dal rapporto Fmi. Ma subito dopo ha chiesto l’intervento della Commissione per “agire su quell’iper-regolamentazione che ha soffocato il nostro sviluppo” per abolire “le norme assurde che ci dicono che un fagiolo non è un fagiolo europeo se ha un diametro inferiore a un centimetro”. Un modello di Europa confederata, già in passato auspicata da Meloni, in cui le istituzioni centrali decidono i principi base che gli stati nazionali applicano secondo i propri interessi particolari. Significherebbe la morte del mercato unico, che per funzionare richiede norme chiare e uguali in tutta Europa.
I veri “dazi interni” si trovano nel rapporto di Enrico Letta sul mercato unico europeo pubblicato nel 2024. Le barriere sono gli incentivi nazionali che precludono le società ferroviarie dell’alta velocità di entrare nei mercati stranieri, le differenti norme sulle accise che rendono difficile esportare bottiglie di vino tra un paese Ue e l’altro, le diverse tassazioni che impediscono agli automobilisti di noleggiare una vettura in uno stato e riconsegnarla in un altro. Per abbattere i “dazi interni” i governi nazionali non devono guardare a Bruxelles, ma osservarsi allo specchio.