Una vita tra l’incudine e il martello. “Tra chi ti accusa di tradire il tuo popolo se attacchi il governo di Israele e chi ti accusa di tradire la sinistra, perché non sei sempre e comunque dalla parte dei palestinesi”. Il 7 ottobre, Gaza, le manifestazioni: la voce di una coscienza critica nella guerra di idee sul medio oriente
C’è una guerra che si combatte anche a parole. Dalla disputa sulla parola genocidio a quella sulla parola sterminio. A me questa disputa appassiona poco. Mi basta la gravità dei fatti per occuparmi ventiquattro ore al giorno. Ma alcuni dei messaggi che ricevo ogni giorno vorrei che li leggeste.
Come stai? cosa pensi di quello che sta succedendo? cosa pensi di Netanyahu? ma come fai da ebreo a sopportare quello che stanno facendo a Gaza? Ma a te non frega niente dei morti palestinesi, ti preoccupi solo della tua gente del tuo ghetto, siete sempre stati fatti così. Tu non hai diritto di dirti di sinistra, appoggi uno stato nazista.
Un ebreo non attacca un altro ebreo, non dovresti dire le parole che dici su Netanyahu, sul suo governo su Israele, noi siamo circondati da nemici, tutto il mondo è contro di noi, bisogna stare molto attenti ad aiutare il nostro accerchiamento, ad aiutare i nemici, dovresti vergognarti per le parole che dici, stai commettendo un peccato, sei un traditore.
E niente, siete fottutissimi ipocriti. Prima leccate il culo a Israele in ogni modo e ora volete partecipare, per Israele, a una manifestazione contro il genocidio che Israele sta compiendo. Vi devono mangiare i cani.
Sinistra per Israele?
Saint Honoré per diabetici.
Serial killer per donne sole.
Pedofili per l’infanzia.
Lardo di Colonnata per diete ipocaloriche.
Mafiosi per la magistratura.
Talebani per le donne.
Pene corporali per un nuovo modello educativo.
Pd per i lavoratori
Fascisti per…
Così da 18 mesi ogni giorno, si rincorrono i messaggi che ricevo. Per non leggervi quelli peggiori.
Tra l’incudine e il martello, sempre, tutta la vita. Io so cosa significhi stare tra l’incudine e il martello, in senso esistenziale. Tra chi ti accusa di tradire il tuo popolo se attacchi il governo di Israele, perché lo consideri colpevole di crimini a Gaza, e chi ti accusa di tradire la sinistra, perché non sei sempre e comunque dalla parte di qualunque palestinese, perché lui è il più debole. Io di fronte alle immagini dei morti a Gaza, o dell’assalto ai forni di questi giorni, così come di fronte alle immagini dei ragazzi morti al Festival della musica del 7 ottobre, non ho bisogno di sigle o di appartenenze per sapere cosa dire. Anche perché dico sempre le stesse cose da quando ero ragazzino.
Il terrore o la negazione dei diritti altrui portano a sbattere la testa in un vicolo cieco. Se cancelli i diritti umani e nazionali dei palestinesi, oltre a commettere un atto disumano non risolverai mai niente, il loro diritto all’autodeterminazione rispunterà sempre fuori con forme più o meno o per niente accettabili, se pensi di cancellare Israele dalla cartina geografica con il terrore, oltre a inseguire un desiderio disumano, ti scontrerai con una capacità di resistenza che la storia ha già dimostrato.
Io ho 62 anni, la mia mamma mi portava alle riunioni di Sinistra per Israele quando ne avevo 14, prima ho militato in un movimento scoutistico sionista socialista, quello che ha fondato molti dei Kibbutzim in Israele, un movimento di pace, che insegna il rispetto dell’altro, che si riconosce nella sinistra israeliana, quella oggi capeggiata da Yair Golan, il più duro oppositore del governo d’Israele, quello che ha usato parole che hanno fatto scandalo. Per la crudezza con cui ha chiamato le azioni militari a Gaza. Quello che è stato espulso dalla riserva per averle dette. Quindi sono circa cinquant’anni che mi sono posizionato sull’idea che l’unica soluzione possibile per questo conflitto tra israeliani e palestinesi sia quella di avere due stati per due popoli (anche se so che questo giornale ha un’idea diversa). In quegli anni, verso la fine dei Settanta, una rivista di Sinistra per Israele recava questo slogan in copertina: Solo la pace è rivoluzionaria in medio oriente. Io lo credo ancora, penso che solo costruendo la pace, che si fonda sulla consapevolezza che in quella terra si scontrano due diritti e non un diritto e un torto, si possa un giorno fermare la spirale dell’odio e della guerra.
Forse per questo, mi sento di dire tutte le volte che lo ritengo necessario, sia nel mondo ebraico sia nella sinistra italiana, sia agli amici e parenti in Israele, la verità delle cose che vediamo. E’ evidente che lo stato di Israele come tutti gli stati ha diritto alla propria difesa ma è altrettanto evidente che la reazione che il governo di Israele ha messo in campo dopo il massacro del 7 ottobre ha superato il limite di ogni possibile comparazione da molto tempo.
So bene che Hamas si nasconde dietro i civili palestinesi di cui si fa scudo, so bene che aveva e ha centrali operative, depositi di armi, dispositivi di lancio, sotto gli ospedali, dentro le scuole, dentro le moschee, ma non si può non giudicare il prezzo che la popolazione civile di Gaza sta pagando come qualcosa di inaccettabile. Anche l’uso della fame come strumento di guerra non è accettabile, anche questo fa parte di un prezzo moralmente non ammissibile.
Dunque quando Grossmann scrive che la tragedia del 7 ottobre non può essere una giustificazione per il livello di sofferenza che vediamo a Gaza, ha ragione, e quando Dan Meridor, ex ministro del governo Begin, cioè del partito di Netanyahu, il Likud, snocciola con impressionante precisione tutte le colpe dello stesso, arriva al cuore del problema oggettivo: “Voi continuate senza successo dopo quasi 20 mesi una guerra che comporta morte, sofferenze e distruzioni terribili di proporzioni da brivido” e ancora “il codice etico dell’Idf (le Forze di difesa israeliane) richiede al soldato, fra l’altro, di mantenere il volto umano anche in battaglia e non usare la sua arma né la sua forza per colpire persone non combattenti o prigionieri e fare tutto il possibile per evitare danni alla loro vita, corpo, onore e proprietà. Qualcuno insegna queste cose ogni giorno ai soldati di Gaza?”. E ancora Meridor: “Non mi rivolgo ai razzisti tra di voi, per me loro sono fuori questione. Abbiamo già estromesso i loro padri spirituali cahanisti al di fuori della legge (…) ma non tutti i parlamentari sono come loro, dove siete? Avete occhi e non vedete? Avete orecchi e non udite? Non vi domandate dove ci porterà tutto questo?”.
E il terrorismo di Hamas? Quello è accettabile? Ovviamente no. Ma perché la mia sinistra, in questi ultimi 25 anni, ne ha parlato così poco? Ha avuto occhi e orecchie in tutte le direzioni? Perché lo statuto antisemita e sterminazionista di Hamas, quello che inneggia a un Islam indivisibile – compresa la Palestina dal fiume al mare – non ha mai suscitato una mobilitazione altrettanto radicale come quella che oggi, giustamente, senza fare comparazioni, vediamo per Gaza?
E la professione di distruzione di Israele proclamata dall’Iran e dai suoi seguaci, come Hezbollah e gli houthi, ha mai provocato una rivolta morale nella sinistra italiana? Non direi. Anzi, seppure in forma ridotta, l’Unione europea mantiene ancora rapporti commerciali con l’Iran. Forse la sinistra, la mia sinistra, dovrebbe rifletterci, quando propone il congelamento dell’accordo commerciale Ue-Israele. Abbiamo rapporti diplomatici con l’Afghanistan, e ovviamente con la Cina – quella che a Hong Kong ha fatto piazza pulita degli indipendentisti e che perseguita gli Uiguri, mantenendone quasi un milione in campi di concentramento. Vuol dire che metto tutte queste nefandezze sullo stesso piano di ciò che accade a Gaza? No, assolutamente. Voglio solo chiedere alla politica, e in particolare alla mia area politica, se applichiamo la stessa sensibilità verso tutte le ingiustizie del mondo.
Questo vuol forse dire sminuire la tragedia umana di Gaza? No. Io cerco solo di guardare a un dramma dalle radici antiche in tutta la sua complessità. Guardare la storia da un solo punto di vista non mi interessa. Non ha mai portato a niente.
Io ho sempre pensato che Arafat e Rabin, quando alla fine si strinsero la mano nel 1993 per stipulare un trattato di pace basato sul compromesso territoriale, in cambio di sicurezza, fossero ognuno di loro convinti che la propria versione della storia fosse quella giusta; ma altrettanto erano convinti che cercare di condividere la stessa interpretazione della storia che li precedeva, sarebbe stato impossibile. E che dunque lo sforzo che andava fatto non era quello di uniformare le narrazioni, ma di accordarsi sul futuro. Due popoli due stati. Per il popolo di Israele il 15 maggio del 1948 è la data di fondazione legittima, dello Stato di Israele, legittimata dal voto delle Nazioni Unite del novembre del 1947 che spartiva quel territorio in due porzioni, una per lo stato palestinese una per lo stato di Israele, come esito della fine del mandato britannico. Per i palestinesi quella stessa data è l’inizio della Nakba, la catastrofe, la parola che riassume l’esodo forzato di 700.000 palestinesi circa, in buona parte cacciati dall’esercito israeliano, in parte fuggiti durante la guerra del 1948, dalle loro case di cui conservano la chiave. Per gli israeliani il 15 maggio è un giorno di festa per i palestinesi è un giorno di lutto. Ma bisogna andare oltre.
Io sono impressionato dalla quantità di manifestazioni che ho visto in Israele in questi 18 mesi contro la guerra, dalla loro partecipazione e dalla loro forza, altrettanto sono colmo di rispetto e ammirazione per le manifestazioni palestinesi a Gaza contro Hamas, e mi ha colpito enormemente Abu Mazen che ha chiamato “cani” quelli di Hamas, come Olmert che accusa Netanyahu e tutto il suo governo della commissione di crimini di guerra. Ognuno di costoro dimostra quanto insulso sia considerare un popolo come un insieme uniforme, e quanto terribilmente sbagliato sia imporre punizioni collettive. Israele non è un unicum uniforme, e neanche la storia del sionismo lo è, ma rimane la sua nascita come movimento di autodeterminazione di un popolo, il che è un diritto inalienabile; esattamente come i palestinesi non sono un insieme uniforme e tra di loro c’è chi crede al dialogo e al compromesso per realizzare il sogno di uno stato e c’è chi crede solo alla forza ed al terrorismo.
Dunque, rimangono il mio martello e la mia incudine, tra i quali io mi sento continuamente schiacciato. Come se ne esce? Avendo coscienza.
A Gaza il dramma della popolazione va interrotto subito, vanno fatti affluire tutti gli aiuti necessari, vanno interrotti i combattimenti, si deve stabilire una compagine internazionale che si occupi della ricostruzione e del governo di Gaza, va portato sollievo a una popolazione sfinita, e va chiesto il disarmo di Hamas per chiedere a Israele di lasciare la Striscia, Ovviamente si deve chiedere la liberazione di tutti gli ostaggi. Poi va assolutamente posto uno stop alle violenze dei coloni in Cisgiordania, spalleggiati dai ministri della destra messianica israeliana, e vanno fermate le continue costruzioni di nuove colonie. Quelle colonie sono illegali così come lo è l’occupazione. E va applicato a quegli abitanti palestinesi la stessa forma di diritto che si applica ai cittadini israeliani, per abolire ogni forma di disparità inaccettabile. Quei territori occupati nella guerra del 1967, come già scritto nel trattato di Oslo, dovranno essere il territorio dello stato palestinese se, come io spero, si riuscirà ad arrivarci. La loro occupazione deve finire. Il terrorismo palestinese va estirpato.Non possiamo tacere però della quantità di odio che circola in giro per l’Italia e nel mondo. Dell’avversione verso il governo israeliano, che si trasforma in odio verso qualunque israeliano, verso il sionismo tutto, verso lo stesso diritto fondamentale all’esistenza dello stato di Israele. E a volte verso gli ebrei. Sbattere fuori da un ristorante di Napoli una coppia, per il solo nome del paese d’origine stampigliato sulla carta d’identità, si chiama discriminazione, razzismo, ognuno di noi deve chiamare le cose con il loro nome corretto; ed esporre un cartello in un negozio di Milano con scritto, in ebraico, che gli israeliani e sionisti in quel negozio non sono ben accetti, è altrettanto razzismo. Ed è esattamente quello che a sinistra sosteniamo quando indichiamo che è incivile recludere un immigrato che sbarca sulle nostre coste, non per la colpa di un atto commesso, ma per la colpa di essere nato. Come mai non ho visto una grande sollevazione per questi atti di pura discriminazione? A me non interessa la disputa del livello di antisionismo o antisraelianismo che si deve raggiungere per chiamarlo antisemitismo. Mi interessa una battaglia egualitaria contro ogni discriminazione. Mi interessa che non si arrivi al fatto di Washington, dove due ragazzi, israeliani, di cui lei un’accesa pacifista, sono stati uccisi perché uscivano da un museo ebraico, al grido di Palestina libera. A me interessa che nelle manifestazioni indette per chiedere la fine dei bombardamenti a Gaza e l’ingresso degli aiuti umanitari, tutto questo venga ricordato, perché il tutto è un insieme. Bisogna far sentire la propria vicinanza alle forze che in Israele contestano la guerra, e chiedono la liberazione degli ostaggi, e alle forze palestinesi che contestano Hamas, bisogna condannare il comportamento di Netanyahu senza mai dimenticarsi di condannare Hamas, bisogna evitare le sanzioni collettive verso un intero popolo, e combattere ogni forma di discriminazione che sia antisemitismo o meno.
L’ultimo sondaggio Eurispes pubblicato in queste ore dice che per il 37 per cento degli italiani gli ebrei pensano solo ad accumulare denaro, e che il 35 per cento ritiene che le scelte del governo israeliano debbano influenzare l’atteggiamento verso gli ebrei. Sono cifre brutte su cui riflettere. Non basta dire siamo contro l’antisemitismo, bisogna riuscire a lavorare per la pace tra israeliani e palestinesi e il resto del mondo arabo-islamico abbandonando le visioni manichee e univoche, interrompendo ogni forma di discriminazione. Fermiamo il massacro di Gaza, riportiamo gli ostaggi a casa, fermiamo l’odio. Due popoli, due stati, due diritti.